Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.

Tribunale Taranto, civile Sentenza 10 gennaio 2019, n. 67

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Taranto – giudice dott.ssa Rossella Di Todaro – ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 20.000 R.G. anno 2012 Affari Civili Contenziosi promossa da:

Lo.Ev., già socio amministratore della AU.RA. s.n.c. rappr. e difeso dagli avv.ti V.LA. e A.TA.;

– attoreCONTRO

MO.PA. S.p.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappr. e difeso dall’avv. F.DE.;

– convenutoOggetto:

“Saldo Conto Corrente Bancario”.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato alla controparte la ditta in epigrafe indicata esponeva di aver intrattenuto con la banca convenuta un rapporto di conto corrente n. (…) con apertura di credito dal 17/2/1983 al 31/12/2003; essa rilevava la nullità parziale del contratto intercorso tra le parti per l’apposizione di clausole nulle e illegittime, quali la determinazione del tasso di interesse con rinvio agli usi piazza, la capitalizzazione trimestrale degli interessi solo in favore della banca, la nullità della commissione di massimo scoperto pattuito e dei cd giorni di valuta non previsti in contratto.

Tanto premesso, chiedeva al giudice adito di rideterminare il saldo del conto corrente condannando la banca a restituire all’attore quanto indebitamente pagato in adempimento delle clausole nulle.

La banca, costituendosi, affermava la legittimità dell’agire della banca e la correttezza del calcolo del saldo, chiedendo il rigetto della domanda attorea, anche in virtù della prescrizione dell’eventuale diritto di ripetizione del cliente e delle rimesse solutorie effettuate in corso di rapporto. Rilevava poi il difetto di legittimazione attiva dell’attore atteso che il conto corrente era intestato alla Au.Ra., ormai cancellata dal registro delle imprese.

Innanzitutto deve rilevarsi che sussiste la legittimazione attiva dell’attore in quanto egli è succeduto nei diritti spettanti alla società estinta anche se all’epoca non ancora accertati giudizialmente, alla luce della circostanza che la cancellazione della società dal registro delle imprese non è stata volontaria ma è stata disposta giudizialmente.

Infatti secondo l’orientamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte sul punto “Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:

a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali;

b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”.

Non è maturata poi la prescrizione decennale dell’azione di ripetizione di indebito, tenuto conto che in data 5/9/2010 l’Au.Ra., della quale egli ha ereditato l’intero debito e del quale comunque era legale rappresentante, ha inviato alla banca una raccomandata, in cui chiaramente si lagnava delle illegittime condizioni apposte al rapporto di conto corrente, chiedendo alla banca di ricalcolare il saldo del rapporto e di restituirle l’eccedenza.

Era chiara la volontà di far valere il proprio diritto all’accertamento del reale saldo del conto corrente e alla restituzione delle somme versate in eccedenza, così come di interrompere il termine prescrizionale.

Quanto alla prescrizione delle singole rimesse solutorie, è noto che

“L’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'”accipiens”.

Tutte le volte in cui i versamenti in conto non superino il passivo ed in particolare il limite dell’affidamento concesso al cliente si tratterà di atti ripristinatori della provvista, della quale il correntista può ancora continuare a godere, e non di pagamenti. I

n questi casi il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente, a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi”.

La natura solutoria o ripristinatoria dei singoli versamenti deve essere specificata da chi eccepisce la prescrizione.

Nel caso di specie la banca ha allegato un elenco dei versamenti cd solutori e il ctu incaricato li ha esaminati secondo il criterio discretivo individuato dalla giurisprudenza, eliminando una serie di rimesse prescritte in quanto aventi natura solutoria.

Deve aggiungersi, a tal proposito, che emerge chiaramente dagli estratti conto allegati che il conto corrente fosse affidato, perché la banca ha consentito una continua scopertura sul conto corrente per l’intera durata del rapporto, applicando in modo chiaro in ampi periodi temporali tassi differenti, ossia più elevati sullo scoperto piuttosto che nell’ambito dell’affidato, a riprova che avesse autorizzato e regolamentato e, non solo tollerato, la concessione del credito al cliente, sia pure in via di fatto.

Del resto in epoca antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3 della legge 17 febbraio 1992 n. 154, il quale ha imposto l’obbligo della forma scritta ai contratti relativi alle operazioni ed ai servizi bancari, era prassi invalsa degli istituti di credito concedere aperture di credito senza stipulare un contratto scritto, ma appunto in via di fatto e, dunque è indubitabile che anche il limite dell’affidamento venisse stabilito verbalmente tra le parti e poi applicato in via di fatto.

Dall’esame degli estratti conto allegati il ctu è stato in grado di individuare il limite dell’affidamento nel periodo temporale 17/2/83-9/3/89, avendo rilevato che la banca applicava un tasso differente e più elevato al superamento di una data somma a debito, ossia quando lo sconfinamento superava un certo limite e, tale valutazione presuntiva è valida e condivisibile. In altri periodi, invece, in cui non venivano applicati tassi diversi in relazione al valore dello sconfinamento, nel senso che il tasso applicato era sempre identico, il ctu giustamente ha ritenuto che il limite dell’affidamento coincidesse con il saldo passivo risultante di volta in volta dagli estratti conto, con ciò ritenendo che tutte le rimesse avessero natura ripristinatoria, poiché operate all’interno del fido.

Ebbene, le contestazioni sollevate dall’attrice sono fondate e supportate dalla ormai consolidata giurisprudenza in materia.

Dalla lettura del contratto di accensione del conto corrente allegato si evince chiaramente che il tasso di interesse a debito per il correntista non era determinato.

È indubbio, poi, che la banca applicasse la capitalizzazione trimestrale degli interessi, in base ad un uso invalso presso gli istituti di credito e risultante, peraltro, dagli estratti conto allegati.

Ebbene, è consolidato l’orientamento secondo cui “in tema di contratti bancari, nel regime anteriore alla entrata in vigore della disciplina dettata dalla legge sulla trasparenza bancaria 17 febbraio 1992, n. 154, poi trasfusa nel testo unico 1 settembre 1993, n. 385, la clausola che, per la pattuizione di interessi dovuti dalla clientela in misura superiore a quella legale, si limiti a fare riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, è priva del carattere della sufficiente univocità, per difetto di univoca determinabilità dell’ammontare del tasso sulla base del documento contrattuale, e non può, quindi, giustificare la pretesa della banca al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale quando faccia riferimento a parametri locali, mutevoli e non riscontrabili con criteri di certezza (e non anche quando rimandi ad una disciplina stabilita su scala nazionale in termini chiari e vincolanti, circostanza che non ricorre nel caso di specie (ex plurimis Cass. 4094/05; 870/06; 4490/02; 13823/02; 9465/00)”.

Tale clausola è perciò nulla e, integrata la clausola con la norma di legge di cui all’art. 1284 c.c.(in virtù della cd sostituzione automatica di clausole nulle), si applicano solo gli interessi legali(art 1419, 2 comma, c.c.). Non si applicano, invece, i tassi ex art. 5, lettera a), legge 154/92 (trasfuso nell’art. 117, comma 7, lettera a, decreto legislativo n. 385 del 01.09.1993), perché riferiti dal legislatore solo ai contratti stipulati dopo la sua entrata in vigore.

La mancata contestazione degli estratti conto inviati al cliente dalla banca non vale a superare la nullità della clausola relativa agli interessi ultralegali, perché l’unilaterale comunicazione del tasso di interesse non può supplire al difetto originario di valido accordo scritto in deroga alle condizioni di legge richiesto dall’art. 1284 c.c.

I documenti prodotti dalla banca sono, invero, mere comunicazioni e non recano la sottoscrizione del correntista, non potendo ritenersi quindi atti contrattuali.

Si sostiene all’uopo che “del tutto inconferente è la comunicazione delle variazioni del tasso con gli estratti del conto corrente, giacché la conoscenza successiva del saggio applicato non vale a sanare l’originario vizio di nullità della pattuizione, per carenza del requisito della determinabilità, la cui esistenza l’art. 1346 c.c. esige a priori, al punto che non può essere individuato successivamente (Cass. 6247-1998), tanto più quando non sia determinato da entrambe le parti ma da una di esse, che l’abbia portata alla conoscenza dell’altra, attraverso documenti che hanno il fine esclusivo di fornire la informazione delle operazioni periodicamente contabilizzate e non anche di contenere proposte contrattuali, capaci di assumere dignità di patto in difetto di espresso dissenso”.

Quanto all’altra contestazione sollevata, si rileva che “in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., il D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, il quale aveva fatto salva la validità e l’efficacia – fino all’entrata in vigore della delibera CICR di cui al medesimo art. 25, comma 2 – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore.

Le stesse, pertanto, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283 cod. civ., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest’ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell’ordinamento giuridico.

Infatti, va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l’esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione “medio tempore” di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero creata. (Cass. sez. un. 21095/04; Cass. 19822/05; Cass. 10599/05; Cass. 2101/05; Cass. 10376/05; Cass. 6514/07; Cass. 15218/07)”. La clausola è nulla, pertanto e non è dovuta alcuna capitalizzazione.

Insomma, nel caso di specie, è ininfluente che la banca possa essersi successivamente adeguata ai sensi del disposto dell’art. 7 secondo comma delibera CICR del 9/2/2000, semplicemente comunicandolo al cliente e pubblicando l’adeguamento sulla Gazzetta Ufficiale; infatti con la sentenza della Corte Costituzionale, intervenuta il successivo 17 ottobre 2000 è stata dichiarata l’illegittimità del 3 comma dell’art. 25 D. Lgs. 342/99 e conseguentemente è venuto meno il presupposto legittimante l’art. 7 della Delibera CICR 9/2/00, finalizzato a disciplinare i rapporti in essere al momento dell’entrata in vigore della Delibera stessa. Né il 2 comma dell’art. 25 ha conferito al CICR il potere di prevedere disposizioni di adeguamento, con effetti validanti la sorte delle condizioni contrattuali stipulate anteriormente.

Di riflesso, per i rapporti precedenti, si rendeva necessario che le nuove clausole di capitalizzazione fossero oggetto di approvazione scritta del cliente, risultando illegittimo l’adeguamento in via generale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e comunicato per iscritto alla clientela. Nel caso di specie nessun consenso scritto del cliente è stato acquisito dalla banca dopo la delibera Cicr, ragion per cui l’eventuale adeguamento alla condizione di reciprocità non vale a salvare la capitalizzazione trimestrale degli interessi, che resta illegittima fino alla fine del rapporto, in quanto non pattuita. Dunque deve ricalcolarsi il saldo escludendo la capitalizzazione e applicando il solo tasso legale. Non è necessario eseguire una valutazione di usurarietà, atteso che il contratto è antecedente alla legge 108/96 e non rilevando comunque l’usura sopravvenuta.

Non è dovuta poi la commissione di massimo scoperto, in quanto non pattuita in contratto né accettata dal cliente né determinata ab origine.

Per giurisprudenza consolidata, “la clausola che prevede la commissione di massimo scoperto, perché sia valida, debba rivestire i requisiti della determinatezza o determinabilità dell’onere aggiuntivo che viene ad imporsi al cliente (Tribunale Novara 16 luglio 2010 n. 774, in JurisData; Tribunale Teramo 18 gennaio 2010 n. 84, in Giurisprudenza locale – Abruzzo 2010; Tribunale Busto Arsizio 9 dicembre 2009, in Foro It. 2010, 2, I, 672; Tribunale Monza 14 ottobre 2008 n. 2755, in JurisData; Tribunale Vibo Valentia 28 settembre 2005, in Corti calabresi (Le) 2007, 1, II, 216; Tribunale Torino 23 luglio 2003, in Giur. merito 2004, 283);

più in particolare, è stato sancito dalla giurisprudenza, che la determinatezza o determinabilità della clausola si configura quando in essa siano previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo e la sua periodicità (Tribunale di Parma, 23 marzo 2010, in (…), I, 2273; Trib. Busto Arsizio 9.12.2009 cit.; Tribunale di Biella, 23 luglio 2009, in (…), I, 2367; Tribunale Cassino 10 giugno 2008 n. 402 in Guida al diritto 2008, 39, 78; Tribunale Genova sez. VI 18 ottobre 2006, in Foro Padano, 2007, 3-4, I, 493; Tribunale Monza 12 dicembre 2005, in Banca Borsa Tit. Cred. 2007, 2, II, 204).

La soluzione è assolutamente condivisibile perché costituisce piena applicazione della norma di cui all’art. 1346 c.c., secondo cui ogni obbligazione contrattuale deve essere determinata o, quanto meno, determinabile. Analogamente non risultano pattuiti i giorni di valuta e conseguentemente non possono essere riconosciuti.

In applicazione di tali criteri, ossia applicando il solo tasso legale ed eliminando ogni capitalizzazione di interessi ed eliminando, altresì, la cms e i giorni di valuta, il ctu ha ricalcolato il saldo finale del conto corrente, individuando un saldo a credito del correntista di Euro 34.375,47 al netto delle rimesse prescritte.

È superabile la circostanza che gli estratti conto non sono continuativi, perché il ctu, partendo dal saldo contabile indicato sul primo estratto, ha ricostruito i saldi parziali dei periodi coperti dagli estratti conto e poi li ha sommati, ottenendo il saldo finale, non risultando i periodi scoperti peraltro così ampi da inficiare l’esito del calcolo.

Conseguentemente la banca deve essere condannata a versare in favore dell’attrice le suddette somme, oltre interessi legali e maggior danno derivante dalla svalutazione monetaria dalla chiusura del conto e fino al soddisfo.

In particolare, devono riconoscersi al creditore, in linea con l’orientamento espresso dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, oltre agli interessi legali, e a titolo di maggior danno, ex art. 1224 c.c., comma 2, la somma corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l’imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).

Tale maggior danno può essere riconosciuto al creditore indipendentemente dalla prova di uno specifico danno e salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente.

Il creditore non ha offerto, peraltro, la prova di aver subito un danno superiore.

A tal fine, secondo la Suprema Corte, avrebbe dovuto produrre “documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull’Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell’impresa ed all’entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell’inadempimento, ovvero che l’adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell’entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).

Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all’utilità marginale netta dell’impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all’importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell’attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell’impresa con il medesimo risultato utile”.

Le spese seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

Definitivamente pronunziando sulla domanda proposta, così provvede:

a) accoglie la domanda per quanto di ragione e, accertata la sussistenza di un saldo attivo favorevole al correntista e quindi all’attore in quanto successore a titolo universale della società cessata alla data di chiusura del conto con apertura di credito n. 10168 B (già n. 2174-02),

b) condanna la convenuta al pagamento in favore dell’attore, per il titolo di cui in motivazione, della somma a saldo di Euro 34.375,47, oltre interessi legali e maggior danno, come spiegato in motivazione.

c) condanna la convenuta al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 545,00 per esborsi, oltre il costo della ctu che deve gravare sulla convenuta, e Euro 6000,00 per compensi professionali, oltre iva e cpa e rimborso forfetario come per legge, con distrazione in favore del procuratore anticipatario.

Così deciso in Taranto il 9 gennaio 2019.

Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 2019.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.