il diritto sancito dall’invocato art. 433 c.c. è un diritto personalissimo ed intrasmissibile, dunque, azionabile unicamente dal soggetto che versa in stato di bisogno. Il che significa che a chiedere gli alimenti può essere solo l’interessato, ossia, nelle fattispecie analoghe a quella in contestazione, il genitore che si trova in difficoltà, non anche i figli che, invece, non hanno alcun potere di agire contro il fratello eventualmente rimasto inattivo.

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Corte d’Appello|Bari|Sezione 3|Civile|Sentenza|21 luglio 2022| n. 1207

Data udienza 6 luglio 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’APPELLO DI BARI

Terza Sezione Civile

La Corte d’Appello, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti Magistrati:

– Dott. Michele ANCONA Presidente

– Dott. Vittorio GAETA Consigliere

– Dott. Antonello VITALE Consigliere rel.

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile di II grado iscritta al n. r. g. 94/2021

tra

(…) (C.F. (…)) e (…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’AVV. (…), ed elettivamente domiciliati in VIA (…) STORNARA FG, presso lo studio del difensore AVV. (…)

-appellanti-

c/

(…) (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’AVV. (…) e dall’AVV. (…), ed elettivamente domiciliate in VIA (…) BARI BA, presso lo studio dell’AVV. (…)

-appellate-

Conclusioni delle parti: con provvedimento reso a seguito d’udienza svolta mediante trattazione scritta, il 16 marzo 2022 la causa è stata riservata per la decisione, con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Motivazione

Con atto di citazione notificato il 17/4/2014, non iscritto a ruolo e notificato in riassunzione l’8/7/2014, i coniugi (…) e (…) convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Foggia, (…), (…) e (…), sorelle della (…).

Deducevano di essersi occupati, in via esclusiva e nel totale disinteresse delle convenute, dell’assistenza morale e materiale di (…), genitori delle (…), e tanto dal 1991 sino al momento del loro decesso, avvenuto rispettivamente il 23/3/1997 e il 2/12/2012; precisavano di aver erogato cospicui contributi economici, vista l’insufficienza delle pensioni dei predetti assistiti, prestando loro le cure necessarie per lo stato di bisogno asseritamente rinveniente dalle varie patologie da cui entrambi i genitori erano affetti.

Chiedevano, pertanto, la condanna delle convenute, ex artt. 433 e ss. c.c., al pagamento della somma di euro 250.000,00, a titolo di risarcimento dei danni (esborsi e perdita di chances) asseritamente subiti per aver prestato assistenza morale e materiale a beneficio dei ridetti (…).

Con comparsa depositata il 3/12/2014, si costituivano le convenute (…), (…) e (…).

Eccepivano, in via preliminare, la nullità della domanda ai sensi del combinato disposto degli artt. 163, comma 3, n. 4, e 164 c.p.c.

Sempre in via preliminare, eccepivano la prescrizione del diritto azionato, con riferimento alla richiesta concernente l’assistenza asseritamente prestata in favore di (…).

Nel merito, contestavano in toto la domanda attorea, chiedendone l’integrale rigetto, poiché infondata in fatto ed in diritto.

Con sentenza n. 1822/2020, il Tribunale di Foggia rigettava la domanda condannando gli attori al pagamento delle spese di lite.

Riteneva il Tribunale esser comunque superabile la preliminare eccezione di nullità della domanda, giungendo quindi, all’esito della valutazione del merito delle questioni, alla pronuncia di rigetto.

Con atto di citazione notificato il 12/1/2021, proponevano appello (…) e (…).

In via preliminare, chiedevano disporsi la sospensione dell’efficacia esecutiva dell’impugnata sentenza, ex artt. 283 e 351 c.p.c.

Contestavano nel merito le valutazioni del Giudice di prime cure, sostenendo inoltre esser state esaurientemente esposte le ragioni poste a base delle formulate richieste.

In particolare veniva contestato quanto ritenuto dal Tribunale sulla carenza di prove a sostegno dello stato di bisogno, e sulla dedotta necessità di cure particolari da parte degli assistiti.

Ed ancora si sosteneva non esser stato apprezzato quanto desumibile sul depauperamento del patrimonio degli attori in favore dei genitori della (…), sostenendo che quanto occorso non poteva esser connotabile in termini di ordinaria e normale assistenza, e di tipo meramente volontario.

Deducevano quindi l’omessa valutazione delle risultanze istruttorie acquisite al giudizio.

Chiedevano, conclusivamente, l’integrale riforma della sentenza impugnata e, per l’effetto, l’accoglimento della proposta domanda.

Con comparsa del 9/11/2020, si costituivano (…), (…) e (…).

Eccepivano, preliminarmente, l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’appello, chiedendo pronunciarsi la relativa declaratoria, riproponendo l’eccezione di nullità della citazione di primo grado.

Nel merito, chiedevano il rigetto del proposto gravame, perché infondato in fatto e in diritto, e, per l’effetto, l’integrale conferma della sentenza di primo grado, con condanna degli appellanti al pagamento di spese e competenze del giudizio, nonché ex art. 96, ultimo comma, c.p.c.

Rigettata la richiesta ex art. 283 c.p.c., alla successiva udienza del 16/3/2022, sulle conclusioni precisate dalle parti, la causa è stata riservata per la decisione, con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.

Preliminarmente, deve ritenersi superata l’eccezione di inammissibilità dell’appello ex art. 348-bis c.p.c., sollevata dalle appellate, essendo la causa ormai passata in decisione nel merito.

Sempre in via preliminare, va rigettata l’eccezione di inammissibilità ex art. 342 c.p.c.

Deve, infatti, rilevarsi che il tenore complessivo dell’atto di gravame è idoneo a consentire l’individuazione sia del quantum appellatum, ossia delle parti della sentenza contestate e dei sottesi passaggi argomentativi, sia delle ragioni di dissenso rispetto al percorso argomentativo opzionato dal primo Giudice e della loro rilevanza ai fini della richiesta modifica.

Analogamente, va rigettata l’eccezione di improcedibilità dell’appello, in quanto generica e, comunque, infondata.

Generica perché le appellate si limitano ad eccepirla sic et simpliciter, mediante il mero richiamo di pronunce attinenti alla diversa e non sovrapponibile fattispecie dell’improcedibilità del ricorso per cassazione, senza, tuttavia, premurarsi di indicare gli errori e/o omissioni in cui sarebbero incorsi gli appellanti nell’espletamento delle formalità di deposito della copia della sentenza impugnata.

Infondata perché vi è in atti “in quanto ab origine prodotta dagli appellanti” la scansione della copia conforme della sentenza pubblicata, con attestazione di conformità all’originale analogico rilasciato dalla competente cancelleria.

Il che -in mancanza di circostanziate censure- è senz’altro sufficiente a superare la prospettata improcedibilità dell’appello.

Ciò tanto più ove si consideri che l’art. 347 c.p.c., pur stabilendo che l’appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata, nella sua attuale formulazione (post riforma del 1990), non prevede, tuttavia, alcuna sanzione per il mancato espletamento di tale formalità.

Il che significa che il deposito della sentenza impugnata non è più richiesto a pena di improcedibilità dell’appello e che esso opera su un piano più sostanziale che formale, essendo finalizzato a consentire al giudice dell’appello di avere piena conoscenza del contenuto della sentenza impugnata.

Dal che deriva che il giudice dell’appello è tenuto a decidere l’appello nel merito, ogniqualvolta sia, comunque, posto in grado di avere piena conoscenza del contenuto della sentenza impugnata, sia che essa sia stata prodotta dall’appellante, quand’anche in un secondo momento, sia che essa sia stata, invece, prodotta dall’appellato, sia che la si rinvenga, anche in copia informale, nel fascicolo d’ufficio di primo grado, sia che il suo contenuto sia desumibile con ragionevole certezza dall’atto di gravame.

Ove, poi, la sentenza manchi del tutto – e non è questo il caso – e il suo contenuto non sia neppure desumibile in modo inequivoco dall’atto di appello, comunque, non si pone una questione di improcedibilità, quanto, piuttosto, di inammissibilità per carenza della specificità dei motivi d’appello (cfr. Cass. civ., sez. III, 3/11/2020, n. 24461).

Nel merito l’appello è, tuttavia, infondato e deve essere rigettato, con le conseguenze di legge in materia di spese.

Quanto alla questione concernente l’eccezione di nullità della domanda, e relativa non manifesta infondatezza, può semplicemente rilevarsi che nonostante la discussione sorta al riguardo tra le parti, il Giudice di primo grado ha comunque reso la pronuncia sul merito delle questioni, superando pertanto la questione de qua, che pertanto non assume alcuna rilevanza sostanziale ai fini della risoluzione della controversia.

Tanto comporta anche il superamento delle contestazioni reiterate dalle appellate sul punto.

Quanto poi alla contestazione sulla ritenuta infondatezza degli assunti e richieste degli odierni appellanti, così come poc’anzi indicate “carenza di prova sullo stato di bisogno e di necessità di cure particolari da parte degli assistiti, e sul depauperamento del patrimonio degli attori in favore dei genitori della (…)” va ritenuta la relativa infondatezza per diversi ordini di ragioni.

La domanda è infondata, in primo luogo, perché il diritto sancito dall’invocato art. 433 c.c. è un diritto personalissimo ed intrasmissibile, dunque, azionabile unicamente dal soggetto che versa in stato di bisogno.

Il che significa che a chiedere gli alimenti può essere solo l’interessato, ossia, nelle fattispecie analoghe a quella in contestazione, il genitore che si trova in difficoltà, non anche i figli che, invece, non hanno alcun potere di agire contro il fratello eventualmente rimasto inattivo.

Legittimati ad agire ex art. 433 c.c., nel caso di specie, erano, dunque, eventualmente, i genitori delle (…).

Alcuna legittimazione vi è, di contro, in capo agli odierni appellanti, né iure proprio né iure hereditatis.

La domanda è, quindi, infondata perché gli attori non sono titolari del diritto azionato.

In secondo luogo, poi, la domanda non può trovare accoglimento perché, nel caso di specie, a prescindere dalla relativa titolarità, il diritto ex art. 433 c.c. non può neppure ritenersi sussistente.

Tale diritto sorge, infatti, solo quando ricorrono i presupposti individuati dall’art. 438 c.c. e, segnatamente, solo quando il richiedente versa in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, ossia al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, mediante le risorse economiche di cui dispone, né sia in grado di procurarsene altre.

Presupposti non sussistenti nel caso di specie, essendo emerso che i genitori delle (…) non versavano in stato di bisogno (sia per condizioni economiche che per stato di salute) né si trovavano nell’impossibilità di far fronte ai propri bisogni mediante le risorse a loro disposizione.

L’espletata istruttoria ha, infatti, restituito le seguenti evidenze.

Le prove orali hanno dimostrato che i genitori delle (…) versavano in condizioni di salute tali da consentire loro di uscire di casa e di attendere alle normali incombenze della quotidianità.

Dalla istruttoria del primo grado è difatti emerso che il (…) era solito passeggiare per le vie del paese.

Quanto alla (…), i testi escussi “in particolare il (…) -proprietario di un supermercato ubicato nelle vicinanze dell’abitazione dei genitori delle (…) e dalla stessa abitualmente frequentato-” hanno dichiarato che ella era solita recarsi personalmente a fare la spesa, fino a qualche anno prima di morire in totale autonomia e successivamente, negli ultimi anni di vita, in compagnia delle figlie.

Analogo tenore hanno anche le dichiarazioni del teste (…) che, sebbene rese dal coniuge dell’appellata (…), vanno, ciò nonostante, ritenute attendibili sul punto, poiché confermate da quelle dei predetti testi, indifferenti ai fatti di causa.

Inidonee ad attestare il bisogno di particolari cure sono, poi, le dichiarazioni rese dal teste (…), essendosi quest’ultimo limitato ad affermare che “il sig. (…) aveva la bombola dell’ossigeno” e che “la sig.ra (…) soffriva alle ossa” e “poi si è rotta il femore”.

Il teste de quo non ha, dunque, riferito di incapacità degli stessi ad attendere alle incombenze della vita quotidiana, essendosi più che altro soffermato sul diverso aspetto della partecipazione degli odierni appellanti alla quotidianità dei genitori/suoceri ed al loro coinvolgimento nell’espletamento delle relative incombenze, su cui ci si soffermerà in seguito.

Anche il compendio documentale conferma il dato acquisito per mezzo delle prove orali.

Dalla documentazione clinica versata in atti dagli appellanti emerge un quadro clinico insuscettibile di valorizzazione in termini di stato di bisogno.

Né – per inciso – gli odierni appellanti si sono premurati di precisare quali sarebbero le patologie invalidanti da cui gli ormai defunti genitori/suoceri erano affetti ed in che termini esse incidevano concretamente sulla loro capacità di attendere alle normali incombenze della quotidianità di due persone anziane, limitandosi, sul punto, a rinviare sic et simpliciter, anche nell’atto di appello, alla documentazione medica prodotta e ad insistere, in particolar modo, sulla invalidità di guerra riconosciuta a carico di (…), come se essa fosse ex se idonea a far presumere la sussistenza del dedotto stato di incapacità di provvedere ai propri bisogni primari.

Le risultanze acquisite al giudizio hanno, dunque, escluso la sussistenza di uno stato di bisogno legato alle condizioni fisiche e di salute.

Del pari, esse hanno escluso anche la sussistenza di uno stato di bisogno economico.

I coniugi (…)-(…) erano, infatti, proprietari di beni immobili e percettori di pensione.

Tanto si evince dalle deduzioni degli stessi appellanti.

La (…), poi, era intestataria, unitamente alla odierna appellante, di un conto corrente bancario e disponeva, per tale via, di cospicue liquidità.

È, dunque, emerso che i genitori delle (…) disponevano di risorse economiche più che sufficienti a soddisfare i loro bisogni primari.

Lo stato di bisogno va, infatti, valutato tenendo conto, non solo “come pretenderebbero gli appellanti” dell’entità della pensione di cui il soggetto che si assume bisognoso è eventualmente percettore, bensì di tutte le risorse economiche a sua disposizione (cfr. Cass. civ., sez. II, 8/11/2013, n. 25248).

Tali essendo le evidenze probatorie acquisite al giudizio, deve concludersi che le attenzioni e le cure per ipotesi riservate dagli odierni appellanti ai ridetti coniugi (…)-(…) sono da ricondurre nell’alveo della volontarietà “se non all’onere di cui all’atto di donazione del 4/10/1994, rep. 10680 – racc. 1547, a ministero del Notaio in Orta Nova dott.ssa (…), versato in atti ” giacché non occasionate da uno stato di necessità e bisogno.

Alla luce di quanto sinora evidenziato, la domanda proposta dagli odierni appellanti non può trovare accoglimento, non sussistendo, né sotto il profilo soggettivo né sotto quello oggettivo, i presupposti per l’invocata condanna ex artt. 433 e 438 c.c.

Il tutto al netto del fatto che la domanda deve ritenersi comunque infondata, anche a voler optare per una diversa qualificazione giuridica, non avendo gli odierni appellanti neppure provato l’effettivo prodursi dei pregiudizi che essi sostengono di aver subito per effetto dell’assistenza morale e materiale asseritamente fornita ai genitori/suoceri.

Non provato è il pregiudizio economico, per gli esborsi asseritamente sostenuti in luogo dei genitori/suoceri per utenze e forniture, lavori di ristrutturazione e servizio funerario della (…).

Ciò in quanto: a) le ricevute relative a utenze e forniture sono intestate ai genitori delle (…) e non v’è prova che i relativi importi siano stati pagati dagli odierni appellanti con proprio denaro; b) le fatture per i lavori di ristrutturazione sono intestate alla (…) e non v’è prova che esse siano state pagate né che l’eventuale pagamento sia stato fatto dagli odierni appellanti con proprio denaro; c) la fattura per il servizio funebre della (…) è intestata alla odierna appellante ma non v’è prova che essa sia stata pagata né che l’eventuale pagamento sia stato effettuato con denaro della stessa, piuttosto che con le somme prelevate dal conto corrente cointestato con la madre.

Né rilievo alcuno può attribuirsi al promemoria redatto dal (…), trattandosi di scritto privo di qualsivoglia crisma di ritualità ed unilateralmente predisposto dalla stessa parte che intende avvalersene.

Non provato è il danno da perdita di chances, non avendo gli odierni appellanti neppure dimostrato che (…) avesse un lavoro.

L’appello è in definitiva infondato e deve essere rigettato.

Nonostante l’infondatezza del proposto gravame, non può trovare accoglimento la domanda di condanna degli appellanti ex art. 96, ultimo comma, c.p.c., formulata dalle appellate.

Ciò in quanto la prospettata responsabilità aggravata non discende, in via automatica, dall’accertata infondatezza della pretesa azionata ma esige che sia provata la sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi prescritti dalla richiamata norma, della cui ricorrenza nel caso di specie non v’è allegazione né prova alcuna.

Alla soccombenza segue la condanna degli appellanti al pagamento, in favore dei difensori di (…), (…) e (…), dichiaratisi distrattari, delle spese di questo grado di giudizio, che si liquidano in dispositivo come da depositata nota spese, giusta combinato disposto degli artt. 75 disp. att. c.p.c. e 112 c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. VI, 26/10/2021, n. 30087; Cass. civ., sez. VI, 5/3/2020, n. 6345; Cass. civ., sez. VI, 14/5/2013, n. 11522).

Per inciso, si osserva che, nel caso di rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c. proposta dall’appellato e contestuale rigetto dell’appello, con conseguente conferma integrale della sentenza di primo grado, non ha luogo un’ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca (cfr. Cass. civ., sez. II, 13/09/2019, n. 22952).

Gli appellanti dovranno, inoltre, versare anche l’ulteriore importo pari al contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. in materia di spese di giustizia), introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte di Appello di Bari, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…) e (…), con atto di citazione notificato il 12/1/2021, nei confronti di (…), (…) e (…), avverso la sentenza del Tribunale di Foggia n. 1822 del 14/12/2020, ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa o assorbita, così provvede:

1) Rigetta l’appello;

2) Rigetta la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c.;

3) Condanna gli appellanti (…) e (…) al pagamento in solido, in favore dei difensori di (…), (…) e (…), dichiaratisi distrattari, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 4.758,00, oltre rimborso forfettario, Cna ed Iva come per legge;

4) Dichiara gli appellanti (…) e (…) tenuti in solido a pagare all’Erario l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Così deciso in Bari, nella Camera di Consiglio Così deciso in Bari, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile in data 6 luglio 2022

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2022.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.