Ai sensi dell’art. 1454 c.c. il contraente che si avvale dello strumento dalla diffida deve essere già vittima dell’altrui inadempimento. La diffida ad adempiere, nella sua struttura logica e sistematica, è uno strumento offerto ad un contraente nei confronti dell’altro inadempiente per una celere risoluzione del contratto, affinché il contraente adempiente non resti vincolato all’altro fino alla pronuncia del giudice e possa provvedere con altri alla realizzazione del suo interesse negoziale. La ratio dell’art. 1454 c.c. è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del contratto, mercé formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare “un ulteriore ritardo nell’adempimento” . Se ne deduce che l’infruttuosa scadenza del termine di diffida aggiunge un nuovo inadempimento all’inadempimento pregresso. In considerazione di tale carattere della diffida si giustifica il principio, che la gravità dell’inadempimento deve essere valutata al momento della scadenza del termine di diffida “e, nel caso di più e successive diffide, in riferimento a quella situazione determinatasi, anche in ragione delle relative motivazioni, alla scadenza del termine fissato con l’ultima di esse ed all’interesse della parte all’esatto e tempestivo adempimento”.

Tribunale|Milano|Sezione 4|Civile|Sentenza|28 febbraio 2020| n. 1918

Data udienza 21 febbraio 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO

QUARTA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice Alessandro Petrucci ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 43867/2017 promossa da:

IM.SE. S.r.l. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. CO.PA. e elettivamente domiciliato in VIA (…) 20010 BAREGGIO presso il difensore avv. CO.PA.

ATTORE

contro

AN.TR. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. DA.MA. e elettivamente domiciliato in VIA (…) 20123 MILANO presso il difensore avv. DA.MA.

GI.OT. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. DA.NI. e elettivamente domiciliato in VIA (…) 20123 MILANO presso il difensore avv. DA.MA.

CONVENUTO

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La IM.SE. s.r.l. ha convenuto in giudizio An.Tr. e Gi.Ot. per sentir accogliere le seguenti conclusioni:

– In via principale e di merito: previa declaratoria della risoluzione di diritto, ai sensi dell’art. 1454 c.c.,del contratto preliminare di compravendita Im. meglio identificato in parte narrativa, accertare e dichiarare il diritto della Im.Se. S.r.l. alla ritenzione di quanto versato dai convenuti a titolo di caparra confirmatoria, paria alla somma di Euro 30.000,00=, per le ragioni esposte, ovvero di quell’altra somma maggiore o minore che risultasse di giustizia, il tutto con ogni e più ampia declaratoria.

– Sempre in via principale di merito: nella denegata ipotesi di non ritenere risolto di diritto il contratto de quo, accertare e dichiarare la gravità dell’inadempimento di controparte e, conseguentemente, dichiarare risolto il contratto preliminare stipulato tra le parti per esclusivo fatto e colpa dei convenuti, per i motivi esposti e, conseguentemente, accertare e dichiarare il diritto della Im.Se. S.r.l. alla ritenzione di quanto versato dai convenuti a titolo di caparra confirmatoria, pari alla somma di Euro 30.000,00 =, per le ragioni esposte, ovvero di quell’altra somma maggiore o minore che risultasse di giustizia, il tutto con ogni e più ampia declaratoria.

– Ancora in via principale: ferma la declaratoria di risoluzione del contratto preliminare di compravendita Im. di cui alla narrativa, accertata la richiesta di svolgimento delle opere extra capitolato (anche in ragione dell’intervenuto riconoscimento da parte dei convenuti), condannare in solido tra loro, i signori An.Tr. e Gi.Ot., al pagamento dell’importo di Euro 9.630,60=, in favore dell’attrice, per le opere extra capitolato realizzate su commissione dei convenuti medesimi, ovvero di quell’altra somma maggiore o minore che risultasse di giustizia, il tutto con ogni e più ampia declaratoria.

– Ancora in via principale: ferma la dichiarazione della risoluzione del contratto preliminare di compravendita Im. di cui alla narrativa, accertata la intervenuta occupazione dell’immobile (come riconosciuto dai convenuti) condannare gli stessi convenuti, in via tra loro solidale e/o alternativa, per le ragioni esposte in atti:

a) al pagamento, in favore della Im.Se. S.r.l., della somma di Euro 800,00= al mese, a titolo di indennità di occupazione dal marzo 2016 e al 31 luglio 2017, ovvero di quell’altra somma maggiore o minore che risultasse di giustizia;

b) al pagamento della somma di Euro 40.000,00=, quale risarcimento del deprezzamento del valore dell’immobile, ovvero di quell’altra somma, maggiore o minore, che risultasse di giustizia.

– In via subordinata: nella denegata ipotesi di mancato accoglimento delle domande di parte attrice, ammettere la compensazione, totale o parziale, tra quanto versato dai signori Tr. e Ot. a titolo di caparra confirmatoria e quanto, invece, speso dall’attrice per la realizzazione delle varianti di opere, il tutto con ogni e più ampio provvedimento.

Si sono costituiti An.Tr. e Gi.Ot. istando per:

– in via preliminare per l’acquisizione del fascicolo del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. dell’intestato Tribunale R.G. 46598/2016; o nel merito:

rigettare le domande attoree;

– in via riconvenzionale:

– accertata la rilevanza dell’inadempimento dell’attrice e la conseguente legittimità del recesso esercitato dai convenuti ex art. 1385 comma 2 c.c., dichiarare risolto il contratto preliminare di cui è causa e, per l’effetto, condannare la Im.Se. S.r.l. al pagamento, a favore dei convenuti, del doppio della caparra ricevuta pari a Euro 60.000,00, oltre interessi dal dovuto al saldo;

– condannare la Im.Se. S.r.l. al pagamento, a favore dei convenuti, dell’importo complessivo di Euro 14.345,29 a titolo di rifusione delle spese di CTU e CTP, anticipate nel procedimento di istruzione preventiva, come da fatture allegate alla nota spese oggi in deposito, e relative spese di lite;

– disporre la compensazione totale o parziale delle somme eventualmente dovute fra le parti.

Il g.i. ha concesso i termini ex art, 183 comma sesto c.p.c. e rinviato la causa per la discussione sulle istanze istruttorie all’udienza del 24 maggio 2018 ad esito della quale ha:

– ritenuto inammissibili i capitoli di prova orale dedotti da parte attrice nella seconda memoria ex art. 183 comma sesto c.p.c. poiché aventi ad oggetto circostanze documentali o da provarsi documentalmente (cap. 1, 3) genericamente formulate (cap. 2, 5 e irrilevante, 6), valutative (cap. 4 e irrilevante) irrilevanti e/o superflue ai fini della decisione (cap. 7, 8);

– ritenuto inammissibili i capitoli di prova orale dedotti dalla parte convenuta nella seconda memoria ex art. 183 comma sesto c.p.c. appaiono inammissibili poiché aventi ad oggetto circostanze irrilevanti e/o superflue ai fini della decisione (cap. 1, 2, 3),

– ritenuta la non necessità di una C.T.U. rispetto ai profili evocati dalle parti in giudizio e alla posizione da esse tenuta rispetto ai fatti costitutivi delle domande ed eccezioni,

– rinviato le parti all’udienza dell’11 settembre 2019, ove hanno precisato le conclusioni come da verbale.

La risoluzione del contratto preliminare stipulato il 18 novembre 2013.

Va preso atto della intervenuta risoluzione del contratto fra le parti in applicazione del principio di diritto sul venir meno tra esse dell’interesse all’efficacia dello stesso (definito da alcun giurisprudenza mutuo dissenso).

Ancor prima di valutare ed accertare l’esistenza degli allegati reciproci inadempimenti nonché la loro gravità ai fini dell’attribuzione o meno della responsabilità contrattuale non può che procedersi alla presa d’atto che la voluntas contrahentiun non esiste più; anzi è conclamata la contro-volontà (o nolontà) al mantenimento degli effetti del contratto e delle relative obbligazioni.

La giurisprudenza di legittimità – nelle sue varie declinazioni – ha avuto modo di affermare che in presenza di reciproche domande di risoluzione, fondate da ciascuna parte su determinati inadempimenti dell’altra, il giudice che accerta l’inesistenza dei singoli, specifici addebiti, non potendo pronunziare la risoluzione per colpa di taluna di esse, deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della scelta (ex art. 1453, comma secondo c.c.) di entrambi i contraenti e decidere di conseguenza quanto agli effetti risolutori di cui all’art. 1458 c.c. (v. Cass. 18/5/2005, n. 10389; Cass. 16/2/2001, n. 2304; Cass. 24/11/2000, n. 15167; Cass. 4/4/2000, n. 4089; Cass. 29/11/1994, n. 10217; Cass. 29/4/1993, n. 5065; Cass. 25/5/1992, n. 6230. E già Cass. 18/6/1982, n. 3744). Il giudice deve in tale ipotesi far comunque luogo a declaratoria di risoluzione del contratto, in quanto le contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, attese le contrastanti premesse, sono tuttavia dirette all’identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale (Cass. 19/12/2014, n. 26907, e, conformemente, Cass. 19/1/2016, n. 767. Cfr. altresì, con riferimento a contrapposte dichiarazioni di recesso, Cass. 26/7/2011, n. 16317 e Cass. 14/3/1988, n. 2435).

Orbene come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (v. le citate Cass. 19/12/2014, n. 26907, e Cass. 19/1/2016, n. 767) pur non potendo propriamente dirsi che nella specie la “scelta” di entrambi i contraenti possa qualificarsi in termini di mutuo consenso o mutuo dissenso, quale atto di risoluzione convenzionale o accordo solutorio costituente espressione dell’autonomia negoziale dei privati, non può che predicarsi l’accertata volontà di entrambe le parti, attestata dal relativo comportamento processuale deponente per la contrarietà (ciascuna per i suoi motivi e le sue valutazioni) a mantenere in vita il rapporto contrattuale ed autonomamente manifestate in giudizio dinanzi al giudice, il quale le ha raccolte, le ha interpretate e ha preso atto essere venuto meno l’incontro di volontà che sosteneva ed integrava il contratto e dichiarato la risoluzione (Cass. III, 19 marzo 2018, n. 6675).

Chiarito ciò in termini generali occorre procedere all’esame delle domande di risoluzione svolte dalle parti (anche in forma di recesso) al fine di appurare l’esistenza e la gravità dell’inadempimento reciprocamente allegato.

L’inadempimento allegato dall’attrice per fondare la domanda di accertamento della risoluzione ex art. 1454 c.c. è manifestamente insussistente.

Ai sensi dell’art. 1454 c.c. il contraente che si avvale dello strumento dalla diffida deve essere già vittima dell’altrui inadempimento. La diffida ad adempiere, nella sua struttura logica e sistematica, è uno strumento offerto ad un contraente nei confronti dell’altro inadempiente per una celere risoluzione del contratto, affinché il contraente adempiente non resti vincolato all’altro fino alla pronuncia del giudice e possa provvedere con altri alla realizzazione del suo interesse negoziale” (Cass. n. 3851/1978) La ratio dell’art. 1454 c.c. è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del contratto, mercé formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare “un ulteriore ritardo nell’adempimento” (Cass. 8844/2001; conf. 27530/2016 in motivazione). Se ne deduce che l’infruttuosa scadenza del termine di diffida aggiunge un nuovo inadempimento all’inadempimento pregresso (Cass. II, 11 giugno 2018, n. 15052).

In considerazione di tale carattere della diffida si giustifica il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, che la gravità dell’inadempimento deve essere valutata al momento della scadenza del termine di diffida “e, nel caso di più e successive diffide, in riferimento a quella situazione determinatasi, anche in ragione delle relative motivazioni, alla scadenza del termine fissato con l’ultima di esse ed all’interesse della parte all’esatto e tempestivo adempimento” (Cass. n. 2979/2001; conf. n. 9314/2007; n. 18696/2014).

Ebbene appare evidente l’assenza dell’inadempimento grave in capo ai convenuti nel momento in cui la IM.SE. s.r.l. li ha diffidati dall’indicare un notaio rogante l’atto entro quindici giorni dal ricevimento della relativa raccomandata (ricevuta il 28 settembre 2016 doc 17 fasc. IM.; doc. 2 fasc. TR.). Ciò sotto due specifici profili.

In primis a partire dal maggio 2016 si era posta all’attenzione – non solo delle parti – la questione delle vibrazioni, degli scuotimenti e delle immissioni rumorose derivanti dalla centrale termica inserita nel locale sottotetto dell’edificio e sovrastante l’appartamento compromesso in favore dei convenuti. Che si trattasse di una questione seria e non pretestuosa è testimoniato dalla copiosa documentazione riversate in atti:

– verbale di assemblea del neo-costituito condominio del 16 maggio 2016 (punto 7 doc. 12 fasc. TR. ATP);

– PEC, coeva, del procuratore dei convenuti con la quale si manifesta la disponibilità alla stipulazione del contratto previa risoluzione del “vizio” della caldaia (facendo presente la già avvenuta consegna di una assegno “a garanzia” del saldo prezzo – doc. 13 fasc. TR. ATP);

– perizia fonometrica dell’Arch. Si. commissionata nel maggio 2016 (doc. 15 fasc. TR. ATP);

– perizia fonometrica dell’ing. Ga. commissionata dall’attrice sulla base di un sopralluogo svolto il 30 giugno 2016 (doc. 1 IM. ATP; doc. 10 fasc. IM.; doc. 15 fasc. TR. ATP) che, comunque, indicava una serie di misure edilizie ed impiantistiche per “mantenere” i risultati fonometrici in linea con i parametri di tollerabilità (p. 5);

– ricorso per accertamento tecnico preventivo teso ad accertare l’inadempimento della odierna attrice rispetto al “vizio” da rumorosità subita dall’appartamento compromesso al fine di poter esercitare successivamente l’azione ex art. 2932 c.c. unita ad una proporzionale riduzione del prezzo.

E’ evidente che di fronte alle emergenze documentali circa la sussistenza di una quaestio facti involgente in via indiretta il godimento del bene promesso in vendita, l’attrice non poteva procedere ad intimare l’adempimento del contratto essendo più che legittima la relativa exceptio inadimpleti (doc. 3 fasc. TR.)

In secundis la c.d. diffida ad adempiere recava l’addebito di un comportamento omissivo non costituente oggetto di prestazione contrattuale in capo ai convenuti quale l’individuazione della “data per il rogito”. E’ agevole riscontrare che l’art. 7 del contratto preliminare imponeva tale obbligo in capo alla promittente-venditrice che avrebbe dovuto indicare tale momento con preavviso di almeno 30 giorni.

Vanno invece esaminate congiuntamente i fatti posti a fondamento della domanda di risoluzione giudiziale proposta dall’attrice nonché del recesso dal contratto interposto in via riconvenzionale dai convenuti.

Non si ravvedono gli estremi del grave inadempimento ai fini dell’accertamento della responsabilità contrattuale dell’una o dell’altra parte.

L’attrice non lamenta un fatto specifico ed ulteriore rispetto a quello “posto” a fondamento dell’azione di risoluzione ex art. 1454 c.c. costruendo sugli stessi fatti prima enunciati la presenza, comunque, di un grave inadempimento imputabile ex art. 1455 c.c.

La domanda ha un carattere apodittico in quanto priva di un autonomo fatto costitutivo diverso dal precedente in quanto i convenuti non si sono limitati a rifiutare l’adempimento:

– hanno motivato in modo non abusivo l’eccezione;

– hanno espresso la volontà di addivenire alla conclusione del contratto definitivo a fronte di una riduzione di prezzo commisurata al c.d. “vizio”.

Né d’altro canto rileva l’incessante riferimento a:

– la conoscenza dello spostamento della centrale termica al piano sottotetto in quanto è li suo concreto funzionamento a regime che poteva influire o meno sul godimento dell’immobile compromesso;

– la circostanza che i convenuti siano rimasti un anno all’interno dell’unità Im., in considerazione del titolo giudico obbligatorio, concesso dalla stessa attrice ai fini della loro permanenza. Detenzione qualificata del cespite cessata il 31 luglio 2017 ovvero meno di quindici giorni dopo la ricevuta notificazione dell’atto di citazione.

Questo accertamento “negativo” non comporta in automatico quello “positivo” di responsabilità contrattuale per grave inadempimento in capo all’attrice e, quindi, del conseguente diritto dei convenuti all’esercizio del diritto di recesso e alla richiesta del duplum.

Non è inutile ricordare come la disciplina dettata dall’art. 1385, comma 2, c.c. in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata versata una caparra confirmatoria non deroga affatto alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo in presenza di un inadempimento della controparte rilevante ai sensi degli artt. 1455, 1456 e 1457 cod. civ.; di conseguenza, nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio (Cass. I, Ord.. 10 maggio 2019, n. 12549; Cass. II Ord., 11 febbraio 2020, n. 3273; Cass. 398/1989).

Orbene i convenuti incentrano la loro domanda riconvenzionale attorno ad un allegato grave inadempimento costituito dall’asserito “vizio” dell’immobile compromesso ovvero dalla diminuita godibilità di cui sarebbe affetto a cagione della rumorosità della sovrastante centrale termica.

Tale fatto deve essere correttamente sussunto in termini giuridici e poi esaminato in concreto al fine di poterne determinare l’incidenza sul sinallagma contrattuale con le relative conseguenze.

In primo luogo non si conviene con la difesa spesa dall’attrice circa il suo difetto di legittimazione passiva in virtù della natura condominiale della centrale termica. Si tratterebbe di un’eccezione pertinente qualora i convenuti (in ipotesi) avessero esercitato un’azione reale. Di contro nella fattispecie in oggetto la causa petendi è rappresentata da un rapporto personale costituito dalla promessa di vendita di un bene immobile avente una determinata destinazione d’uso e caratteristiche (intrinseche) di godimento.

Da ciò deriva, peraltro, la influenza “indiretta” del fenomeno rumoroso sulla godibilità del bene e non sulla struttura e idoneità dello stesso a soddisfare l’interesse creditorio ex sé. I convenuti “mistificano” i due aspetti in quanto l’appartamento non aveva alcun “vizio” in senso tecnico inteso quale alterazione fisica dovuta al processo di costruzione o fabbricazione né una mancanza di qualità intrinseca come l’idoneità all’uso. Ciò che lo affettava era costituito dalla diminuita godibilità da rumore presente in una sua stanza con quel che ne segue in termini disfunzionali sul sinallagma contrattuale. Conseguenze, tuttavia, temporanee e parziali e non tali da incidere tout court sull’interesse creditorio e, quindi, legittimare la risoluzione del contratto.

Va ricordato che nella presente fattispecie non trova applicazione la disciplina sulle garanzie edilizie di cui alla compravendita ma quella ordinaria di cui agli artt. 1453 e ss. c.c. compresa, quindi, l’eccezione di inadempimento e l’azione di adempimento.

L’accertamento tecnico eseguito in sede di A.T.P. ha restituito dati tecnico-acustici chiari in ordine all’assenza di rumorosità intollerabile in termini amministrativi assoluti (il citato art. 6-ter). Di converso è emersa la presenza di una rumorosità “aerea” quanto da “vibrazione” suscettibile di essere ricompresa nel concetto di intollerabilità ex art. 844 c.c. secondo la peculiare destinazione del luogo ovvero la camera da letto.

In tema di immissioni, nella specie acustiche, la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 6-ter del d.l. n. 208 del 2008, conv. con modif., dalla I. n. 13 del 2009, al quale non può aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell’art. 844 c.c., con l’effetto di escludere l’accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilità, dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento dell’interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione.

Ed, invero (cfr. Cass. n. 1151/2003), la normativa che fissa per esigenze di carattere pubblico i livelli di accettabilità delle immissioni persegue interessi pubblici, ed opera nei rapporti cd. verticali fra privati e la pubblica amministrazione, al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete.

Se il superamento dei limiti di rumore stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che disciplinano le attività produttive è, senz’altro, illecito, in quanto, se le emissioni acustiche superano la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela di interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione esse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino, – ancor più esposto degli altri, in ragione della contiguità dei fondi, ai loro effetti dannosi – devono, per ciò solo, considerarsi intollerabili, ex art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico (Cass. II, Ord. 1 ottobre 2018, n. 23754; Cass. n. 1069/2017).

Qualora nei rapporti fra privati dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice che tenga conto delle particolarità della situazione concreta (conf. Cass. n. 17281/2005). Si tratta di un limite di tollerabilità relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante della zona, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), per cui la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata (Cass. 17051/2011; Cass. 3438/2010).

Senza considerare che il complesso di suoni, di origine varia spesso non identificabile, continui e caratteristici della zona si quali si innestano di volta in volta rumori più intensi (prodotti da voci, veicoli, eccetera), tutti elementi che devono essere valutati in modo obiettivo in relazione alla reattività dell’uomo medio, prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate dalle immissioni (condizioni fisiche o psichiche, assuefazione o meno alla rumorosità (Cass. II, 5 novembre 2018, n. 28201; Cass. 38/1976).

Questi principi pretori (elaborati per altri fini) sono determinanti per escludere la sussistenza di un inadempimento grave, tale da giustificare la risoluzione del contratto ex art. 1455 c.c. e, quindi, a legittimare il recesso. L’interesse creditorio dei convenuti è stato “incrinato” in quanto i risultati dell’A.T.P. (in modo assai puntiglioso) restituiscono uno stato dei luoghi:

– assai migliorato a far dato dal giungo 2016 dopo l’esecuzione di una serie di opere edilizie sulle tubazioni nonché di insonorizzazione all’interno della centrale termica;

– con una persistente componente di rumorosità emendabile con degli interventi emendativi di natura tecnica ed economica contenuta rispetto al valore e all’entità del contratto preliminare (peraltro su un corpo di fabbrica di natura comune).

L’eccezione di inadempimento o l’azione ex art. 2932 c.c. con annessa riduzione del prezzo potevano essere astrattamente legittime e coltivate. Non la risoluzione del contratto poiché il limitato godimento del bene (peraltro emendabile) non poteva essere sussunto nel conetto di inidoneità assoluta all’uso e, quindi, lesivo in modo definitivo dell’interesse contrattuale.

L’assenza di una responsabilità contrattuale rilevante ex art. 1455 c.c. da ambo le parti comporta il rigetto delle domande condannatorie fondate su tale assunto e la regolamentazione dei soli rapporti restitutori ex art. 1458 e 2033 c.c. Tanto la domanda di accertamento di ritenzione della caparra (peraltro inammissibile ex sé poiché accostata alla domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c.) sia quella di restituzione del duplum sono infondate.

Nel caso, peraltro, limitati alla sola restituzione della somma di Euro 30.000,00 versata dai parte dei convenuti nella vigenza del contratto preliminare. I convenuti non hanno formulato expressis verbis una condctio indebiti; purtuttavia, si ritiene aderente alle regole di cui all’art. 112 c.p.c. ritenere inclusa nella domanda, più ampia, di condanna contrattuale ex art. 1385 comma secondo c.c. quella (ridotta) di restituzione della sola somma prestata indebitamente ob causam finitam.

La IM.SE. s.r.l. va condannata alla restituzione della somma di Euro 30.000,00 in favore di An.Tr. e Gi.Ot., oltre interessi legali dal 9 novembre 2017 (giorno della domanda) al soddisfo.

La domanda di condanna alla restituzione della somma Euro 9.630,60 per le opere extra capitolato è infondata e va respinta.

Difetta il relativo fatto costitutivo.

In primo luogo nel contratto era espressamente previsto che il rapporto giuridico con la “impresa esecutrice” avrebbe riguardato unicamente il promissario acquirente essendo la attrice coinvolta unicamente per gli aspetti amministrativi ed edilizi di coordinamento con gli altri lavori del cantiere (art. 14 doc. 1 fasc. TR. ATP).

Il contratto di prestazione d’opera o di appalto sarebbe stato concluso unicamente tra il promissario acquirente e l’appaltatore.

In concreto poi la stessa attrice produce delle fatture emesse da un soggetto diverso da sé quale legittimato attivo al pagamento del corrispettivo. Né l’attrice ha allegato o dimostrato di aver pagato a sua volta (quale adempimento del terzo) la somma dovuta dai convenuti e rispetto ai quali vorrebbe esercitare una sorte di regresso o azione di ingiustificato arricchimento.

Naturalmente la somma non può essere richiesta a titolo risarcitorio (neanche prospettato in atti) attesa l’assenza di una responsabilità contrattuale riconosciuta in capo ai convenuti.

La domanda di risarcimento da deprezzamento dell’immobile è infondata e va respinta.

De iure risulta inconfigurabile proprio per l’assenza di responsabilità contrattuale dei convenuti e quindi di un illecito contrattuale dal quale isolare le eventuali conseguenze pregiudizievoli allegate dalla parte attrice. L’assenza di un danno-evento comporta ex sé l’impossibilità di configurare e liquidare quello conseguenza.

La domanda di condanna al pagamento della “indennità di occupazione” dal marzo 2016 e al 31 luglio 2017 è infondata e va respinta.

Questo Tribunale non ignora l’orientamento citato dalla parte attrice sul sostanziale riconoscimento in capo alla promittente venditrice di una somma di denaro dal promissario acquirente qualora questo sia inadempiente ed il contratto venga risolto. La c.d. retroattività della risoluzione del contratto sarebbe in grado di rendere priva di titolo (con tale fictio giuridica) la detenzione qualificata del cespite che era stata concessa dalla posseditrice-promittente.

Si tratta di un orientamento non condivisibile in chiave strutturale per la semplice constatazione che la detenzione qualificata dell’immobile non può considerarsi ora per allora abusiva ed indebita. Va ricordato che viene a costituirsi non di fatto ma per mezzo di un negozio accessorio (solitamente un comodato, locazione, ecc.) al contratto preliminare di compravendita. Negozio che è collegato in modo unico e unilaterale solitamente (e sicuramente nel caso de quo) alla perdurante efficacia del contratto preliminare. La perdita di efficacia di questo (risoluzione) per inadempimento del promissario acquirente non determina una retroattività nell’inefficacia del primo il quale viene a perdere unicamente la sua funzione essendo funzionalizzato al primo. Il meccanismo di interdipendenza tra contratti collegati comporta che la risoluzione priva retroattivamente di effetti il contratto preliminare ma non lo elimina come fatto storico (diversamente sarebbe assimilabile alla nullità) sicché dal momento in cui viene pronunciata (se costitutiva) o dal momento di verificazione del fatto risolutorio (se dichiarativa) può predicarsi il venir meno della causa del contratto accessorio e quindi delle legittimazione contrattuale all’occupazione del bene compromesso.

Sotto questo profilo l’obbligo di restituire il bene non deriva dall’effetto retroattivo della restituzione che involge ciò che è stato prestato in dipendenza del contratto (la somma a titolo di caparra in questo caso). Esso deriva dalla perdita di funzione del comodato che è venuta meno (inefficacia sopravvenuta) dal momento in cui il contratto preliminare ha perso la sua funzione concreta: in questo caso dalla

costituzione nel presente giudizio dei convenuti dalla quale il giudice ha dovuto trarre il c.d. mutuo dissenso o contro-volontà al mantenimento del vincolo.

Il fondamento del diritto a ricevere la c.d. indennità non potrebbe che ricostruirsi in chiave risarcitoria come danno emergente (perdita di occasioni favorevoli) o lucro cessante rispetto ad effettive possibilità di messa a reddito dello stesso. Ebbene il risarcimento del danno deriva da una ipotesi di responsabilità accertata in capo al danneggiante che in questo caso – come ripetuto più volte – risulta insussistente.

Le spese di lite.

La regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91 c.p.c.), ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92, comma 2, c.p.c.); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorché quest’ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento. (Cass. III, 22 febbraio 2016, n. 3438).

Nel concetto di spese di lite rientrano tanto quelle defensionali tanto quelle tecniche sostenute nella fase di merito e in quella cautelare le quali debbono essere considerate ai fini della liquidazione secondo i criteri dell’art. 91 c.p.c. (non superfluità, ecc.).

Può predicarsi una soccombenza reciproca parziale in quanto le parti sono rimaste soccombenti nelle reciproche domande principali. Purtuttavia l’attrice ha visto la reiezione di una molteplicità di domande (sia principali che accessorie) tali da poterla fa ritenere soccombente in modo parziale.

Le spese vanno, pertanto, compensate per la metà e mentre la residua metà va posta a carico della IM.SE. s.r.l..

Esse vanno liquidate al netto della dimidiazione in Euro 5.429,13 per anticipazioni non imponibili, Euro 3.887,50 per compensi, oltre spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A.

P.Q.M.

il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni domanda o eccezione avversa

– prende atto della intervenuta risoluzione del contratto preliminare stipulato tra la IM.SE. s.r.l., da un lato, e An.Tr. e Gi.Ot., dall’altro, il 18 novembre 2013;

– rigetta tutte le domande proposte dalla IM.SE. s.r.l.;

– rigetta la domanda di recesso e condanna al duplum proposta da An.Tr. e Gi.Ot.;

– condanna la IM.SE. s.r.l. alla restituzione della somma di Euro 30.000,00 in favore di An.Tr. e Gi.Ot., oltre interessi legali dal 9 novembre 2017 al soddisfo;

– condanna la IM.SE. s.r.l. alla refusione della metà delle spese di lite sostenute da An.Tr. e Gi.Ot. e liquidate (al netto) in Euro 5.429,13 per anticipazioni non imponibili, Euro 3.887,50 per compensi, oltre spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Milano il 21 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2020.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.