In tema di responsabilità civile, l’esimente del caso fortuito e quella della forza maggiore (invocabili in presenza di circostanze tali da escludere, rispettivamente, la colpa dell’agente o il nesso causale tra la sua condotta e l’evento dannoso) non possono essere invocate dal proprietario di una strada in relazione ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche pur di particolare forza ed intensità, protrattesi per un tempo molto lungo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, allorché sia stato accertato che gli stessi trovano origine nell’insufficienza del sistema di deflusso delle acque meteoriche, realizzato a seguito di lavori di ammodernamento della strada in questione.

Per approfondire il tema oggetto della seguente pronuncia si consiglia la lettura del seguente articolo: La responsabilità della p.a. quale proprietaria delle strade

Corte d’Appello|Reggio Calabria|Civile|Sentenza|16 marzo 2020| n. 239

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Civile, riunita in camera di consiglio nelle persone dei sigg. magistrati:

1) dott. Andrea Pastore Presidente,

2) dott.ssa Silvana Cannizzaro Consigliere,

3) dott. Massimo Sereno Giudice ausiliario rel., ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 492/2011 R.G., introitata in decisione all’udienza collegiale dell’8 luglio 2019 e vertente

TRA

COMUNE DI ROSARNO, (C.F. (…) – P. I.V.A. (…)), in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso, giusta procura in atti, dagli Avv.ti Fr.Gi. e Gi.Do. (p.e.c.: (…) – fax (…)) ed elettivamente domiciliato in Rosarno, Viale (…) Pace, presso l’Avvocatura Civica – Viale (…) Pace;

APPELLANTE

E

Co.Fr., (C.F. (…));

APPELLATO/CONTUMACE

OGGETTO: Risarcimento danni – Appello avverso la sentenza del Tribunale di Palmi n. 51/2011 dell’1/02.02.2011.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Così lo svolgersi del processo di primo grado è compendiato nella sentenza impugnata: “Con atto di citazione notificato l11.1.2006 Co.Fr. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Palmi il Comune di Rosarno, chiedendone la condanna al risarcimento, nella misura di Euro 10.329,13, dei danni arrecati alle colture esistenti su un fondo sito in Rosarno, dallo stesso posseduto, a seguito di un’alluvione causata dall’omessa manutenzione dei sistemi di raccolta e smaltimento delle acque piovane, riversatesi sull’area in occasione delle intense precipitazioni atmosferiche del 13, 14 e 15.11.2004.

Si costituiva il Comune di Rosarno, il quale domandava il rigetto dell’azione, eccependo, in rito, la nullità della citazione per difetto dell’avvertimento di cui all’art. 163, c. 3, n. 7 c. p. c., e negando, nel merito, l’ascrivibilità a sé della responsabilità per il fatto lesivo, al qual riguardo adduceva il carattere eccezionale ed imprevedibile dell’evento meteorologico produttivo dei danni, in conseguenza di cui era stato dichiarato, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, lo stato di emergenza per l’intero territorio della regione Calabria.

Espletata l’istruttoria, all’udienza del 23.9.2010 la causa veniva trattenuta in decisione, con assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.”.

Con la sentenza in epigrafe indicata, il Tribunale di Palmi così statuiva: “Il Tribunale di Palmi, definitivamente pronunciando sull’azione promossa da Co.Fr. nei confronti del Comune di Rosarno, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattese, così provvede:

1) dichiara che i danni subiti da Co.Fr. sono derivati, nella misura del 50%, dalla inadeguata manutenzione della strada nella custodia del Comune di Rosarno;

2) condanna l’ente convenuto al pagamento in favore dell’attore, a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro 4.020,16, oltre interessi al tasso legale dal deposito della sentenza al soddisfo;

3) condanna il Comune di Rosarno alla rifusione delle spese di lite sostenute dall’attore, liquidate in complessivi Euro 1.500,68, di cui Euro 178,68per spese documentate, Euro 827,00 per diritti ed Euro 495,00 per onorari, oltre rimborso forfettario, IVA, CPA come per legge;

4) pone definitivamente a carico del Comune di Rosarno le spese di C.T.U.”.

Avverso tale sentenza proponeva appello il COMUNE DI ROSARNO, con atto di citazione notificato il 26.10.2011, nel quale nel quale venivano esposti sei motivi di gravame.

Con il primo motivo veniva stigmatizzata l’asserita erronea applicazione, da parte del Giudice di prime cure, dell’art. 2051 c.c. alla fattispecie oggetto del presente giudizio, laddove, di contro, avrebbe dovuto individuare l’origine del danno lamentato dall’attore nell’evento imprevedibile ed eccezionale verificatosi nel periodo compreso tra il 13 ed il 15 novembre 2004, costituito dalle forti piogge cadute che hanno generato l’allagamento del fondo di proprietà attorea.

L’eccezionale evento climatico di cui si discetta, del resto – attestato documentalmente attraverso la produzione di pagine di quotidiani locali e di fotografie

– sarebbe stato sostanzialmente approvato dall’attore che non avrebbe mai negato il carattere eccezionale dell’evento alluvionale né avrebbe mai espresso alcuna contestazione in merito, con la logica conseguenza che tale circostanza avrebbe dovuto considerarsi incontroversa e non richiedente specifica dimostrazione da parte dell’Ente appellante, per come erroneamente ritenuto dal Tribunale.

Con il secondo punto di gravame, l’appellante declinava la propria responsabilità

– affermata in sentenza – anche in relazione alla natura “vicinale” della strada (e quindi comunale) che avrebbe favorito l’allagamento del fondo di proprietà attorea.

Difatti, in base all’art. 51 della L. 20.03.1865 n. 2248, le riparazioni e la conservazione della strada vicinale sarebbero a carico di quelli che ne fanno uso per recarsi ai propri fondi, mentre il comune sarebbe tenuto solo ad una determinata quota di concorso nella spesa di riparazione.

Peraltro, per come si evincerebbe dalle fotografie allegate in atti, solo il primo tratto della strada “Zi.” (carrabile ed asfaltata) sarebbe destinato al pubblico transito, mentre l’ultimo segmento, non asfaltato e non carrabile, servirebbe esclusivamente al terreno dell’attore, sicché alcuna responsabilità per custodia avrebbe dovuto essere attribuita al COMUNE DI ROSARNO per i danni lamentati.

Il Tribunale avrebbe quindi errato nel considerare la strada in questione alla stregua di una strada vicinale pubblica quando, di converso, in base alle caratteristiche dalla stessa presentate – secondo la classificazione fornita da autorevole giurisprudenza di legittimità – avrebbe dovuto valutarla come una strada vicinale privata ed escludere qualsivoglia responsabilità in capo al COMUNE DI ROSARNO.

In tal senso si spiegherebbe il madornale errore commesso dal Tribunale di Palmi laddove, citando a supporto l’art. 2 del D. Lgs. 285/1992, ha assimilato la strada vicinale “Zi.” (per sua natura da considerare quale strada vicinale privata) ad una strada comunale.

Con il terzo motivo di appello veniva criticata la CTU versata in atti, in quanto – a detta dell’appellante – non esaustiva, non avendo chiarito né le modalità di accertamento dell’entità del danno né l’idoneità del terreno ad accogliere le colture di tipo analogo a quelle asseritamene danneggiate dall’evento alluvionale, né i criteri in base ai quali è stato stabilito il prezzo unitario delle piantine ivi allocate.

Con il quarto punto di censura si stigmatizzava la mancanza del raggiungimento di alcuna prova in ordine all’entità del danno, posto che nessun documento contabile di acquisto delle piantine sarebbe stato prodotto in atti, né potrebbero considerarsi attendibili le fotografie allegate, dalle quali le piantine sembrerebbero addirittura godere di ottima salute.

Con il quinto motivo di gravame si impugnava la statuizione del primo Giudice anche con riferimento all’asserita sproporzione dell’entità del danno al cui risarcimento era stato condannato il COMUNE DI ROSARNO, che andava necessariamente ridotto in considerazione dell’eccezionalità dell’evento meteorologico che risulterebbe essere un fatto notorio.

Con il sesto ed ultimo motivo si eccepiva la violazione della regola del principio della soccombenza in quanto, pur essendo stata riconosciuta solo parzialmente la responsabilità del Comune appellante, lo stesso era stato condannato alla rifusione totale delle spese di lite, ivi comprese quelle di C.T.U..

Chiedeva quindi, la riforma della sentenza impugnata e la condanna del Sig. Co.Fr. alla restituzione delle somme eventualmente percepite a titolo di risarcimento dei danni, oltre alla rifusione delle spese e competenze di lite relative ad entrambi i gradi di giudizio o, in subordine, la compensazione integrale o parziale delle spese inerenti al primo grado di giudizio.

Benché ritualmente convenuto in giudizio, il Sig. Co.Fr. non si costituiva rimanendo pertanto contumace.

Nel corso della trattazione nel presente grado del giudizio non veniva svolta ulteriore attività istruttoria.

Indi, precisate le conclusioni, in epigrafe indicate, all’udienza collegiale dell’8.07.2019, su richiesta dei procuratori di parte appellante, la causa veniva posta in decisione con la concessione dei termini di legge, ex art. 190 c.p.c., per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente occorre dichiarare la contumacia di Co.Fr., il quale, benché ritualmente evocato in giudizio, non si è costituito.

L’appello è destituito di fondamento e va pertanto respinto per le ragioni appresso specificate.

Quanto ai primi due motivi di gravame – che, per ragioni di opportunità pratica, stante anche la loro intima connessione, possono essere trattati unitariamente – si osserva e rileva quanto segue.

Come è noto, ormai da diversi anni la giurisprudenza di legittimità ha delineato un costante e consolidato orientamento nel ritenere concettualmente ed astrattamente configurabile, nei confronti della P.A., la responsabilità per danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. relativamente ai danneggiamenti subiti a seguito dell’utilizzo di strade pubbliche.

Sulla scia di sempre più stringenti critiche dottrinali, si è infatti preso atto che il ritenere non applicabile alla P.A., per tali beni, la responsabilità da custodia, ma solo quella ex art. 2043 c.c., rappresentava un ingiustificato privilegio e, di riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati; viceversa, l’applicazione dell’art. 2051 c.c. si prestava ad una migliore salvaguardia e ad un miglior bilanciamento degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuridico e al sentire sociale.

Più in generale, si è osservato che l’assoggettamento della P.A. alle regole del diritto privato, e la considerazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti quando agisce iure privatorum nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione, risponde ormai ad un’esigenza pienamente avvertita dalla coscienza sociale, ed è un riflesso di una crescita e di una progressiva maturazione della concezione dei rapporti intersoggettivi tra privato e P.A.

Ciò posto, va sottolineato che la norma dell’art. 2051 c.c. contempla quali due unici presupposti applicativi la custodia e la derivazione del danno dalla cosa.

Il primo presupposto, id est la custodia, consiste nel potere di effettiva disponibilità e controllo della cosa.

Custodi sono infatti tutti i soggetti, pubblici o privati, che hanno il possesso o la detenzione della cosa (ex multis, Cass. n. 20317/2005), e custodi sono anzitutto i proprietari.

Quale proprietaria delle strade pubbliche ex art. 16 L. n. 2248/1865 All. F, l’obbligo di relativa manutenzione in capo alla P.A. discende non solo da specifiche norme (art. 14 C.d.S.; per le strade ferrate, art. 8 D.P.R. n. 753/1980; per le strade comunali e provinciali, art. 28 L. n. 2248/1865 All. F; per i Comuni, art. 5 RD n. 2506/1923), ma anche dal generale obbligo di custodia, con conseguente operatività nei confronti dell’ente della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. in caso di omessa prevenzione.

Circa il secondo requisito della custodia, e cioè il nesso causale rappresentato dalla derivazione del danno dalla cosa, si osserva che il danneggiato, secondo la regola generale in tema di responsabilità civile extracontrattuale, è tenuto a darne la prova.

Tale prova del nesso causale va peraltro ritenuta assolta con la dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa (ex alius, Cass. n. 2075/2002 e Cass. n. 2331/2001), in ragione di un processo in atto o una situazione determinatasi, ancorché provocati da elementi esterni (tra le tante, Cass. n. 10641/2002 e Cass. n. 4480/2001), che conferiscano cioè alla cosa quella che in giurisprudenza si è a volte indicata come “idoneità al nocumento”, non richiedendosi viceversa anche la prova dell’intrinseca dannosità o pericolosità (qualità viceversa rilevante per la diversa fattispecie prevista dall’art. 2050 c.c.) della cosa medesima.

Tutte le cose, anche quelle normalmente innocue, sono infatti suscettibili di assumere ed esprimere potenzialità dannose in ragione di particolari circostanze, e in conseguenza di un processo dannoso provocato da elementi esterni (Cass. n. 3041/1997), risultando ormai superata la distinzione tra cose inerti e cose intrinsecamente dannose in quanto idonee a produrre lesione a persone e cose in virtù di connaturale forza dinamica o per l’effetto di concause umane o naturali (ex plunmis, cfr. Cass. n. 14606/2004, Cass. n. 4480/2001, Cass. n. 6616/2000).

La derivazione del danno dalla cosa può essere peraltro offerta dal danneggiato anche per presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato anomalo, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che avrebbe normalmente evitato il danno (cfr. Cass. n. 2308/2007 e Cass. n. 3651/2006).

La norma di cui all’art. 2051 c.c. non richiede, invero, altri e diversi presupposti applicativi, ulteriori rispetto alla prova da parte del danneggiato della sussistenza dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa.

In particolare, al danneggiato non può farsi carico della prova dell’insidia o trabocchetto, trattandosi di fattispecie estranee alla responsabilità ex art. 2051 c.c., che tantomeno possono pertanto considerarsi indici tassativi ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A.: così facendo, infatti, si opererebbe un’interpretazione della norma contraria al suo tenore letterale e sostanziale, aggravando la posizione probatoria del danneggiato al fine di limitare le ipotesi di responsabilità della P.A. e creare un ingiustificato privilegio a suo favore.

Né è necessaria, d’altro canto, la dimostrazione dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e quindi per il medesimo inevitabili, giacché è al custode che incombe la prova del fortuito (Cass. n. 2075/2002).

Nel porre infatti una responsabilità presunta a carico del soggetto che si trova in una data relazione con la cosa, la norma determina un’inversione probatoria rispetto alla regola generale in tema di illecito extracontrattuale posta dall’art. 2043 c.c.: l’onere della prova incombe cioè, diversamente che nella detta ipotesi generale, in capo non già al danneggiato, bensì a chi si trova nella particolare situazione che gli attribuisce i poteri di disponibilità e controllo sulla cosa.

La responsabilità ex art. 2051 c.c. integra quindi un’ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva, che trova piena giustificazione in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa attribuisce al custode (cfr. in particolare Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 15042/2008, Cass. n. 5308/2007, Cass. n. 5307/2007, Cass. n. 20827/2006, Cass. n. 15384/2006, Cass. n. 15383/2006, Cass. n 21684/2005, Cass. n. 376/2005, Cass. n. 5236/2004, Cass. n. 10641/2002).

Non rileva, quindi, la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa.

Ne consegue che, in aderenza al disposto letterale della norma, tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità (rilevante non già ad escludere la colpa, bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l’eccezionalità del fattore esterno, sicché anche un’utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass. n. 5326/2005, Cass. n. 15429/2004, Cass. n. 472/2003, Cass. n. 12219/2003; Cass. n. 5578/2003; Cass. n. 472/2003).

Acutamente è stato osservato che rileva solo “il fatto della cosa”, non già “il fatto dell’uomo”, poiché la responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia, e solo lo stato di fatto, non già l’obbligo di custodia, può assumere rilievo nella fattispecie.

Il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla struttura della normativa; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacché il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito, non l’assenza di colpa, tanto che la dottrina parla al riguardo di “rischio da custodia”, più che di “colpa nella custodia”.

Il fortuito – che va inteso nel senso più ampio comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. n. 1279/2008, Cass. n. 24739/2007, Cass. n. 5326/2005, Cass. n. 11264/1995, Cass. n. 1947/1994) – esclude così il nesso causale e non già la colpa, essendo suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Infatti, la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione di custodia intercorrente tra questi e la cosa dannosa, ed il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (id est il caso fortuito), che attiene non ad un comportamento del responsabile come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c., ma alle modalità di causazione del danno.

Pertanto e con riferimento all’onere della prova, all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà invece provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

Tuttavia, se la custodia presuppone il potere di governo della res, e cioè il potere di controllare la cosa, di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonché di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno (cfr. Cass. n. 7403/2007), certamente l’esistenza della custodia non può essere a priori esclusa in relazione alla natura demaniale del bene.

E’ ben noto, peraltro, che l’Ente proprietario (o gestore) della strada si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, salvo che dia la prova che l’evento dannoso era imprevedibile e non tempestivamente evitabile o segnalabile (Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 12/4/2013, n. 8935; Cass. Civ. 18753/2017; Cass. Civ. 11526/2017; Cass. Civ. 7805/2017; Cass. Civ. 1677/2016; Cass. Civ. 9547/2015; Cass. Civ. 1896/2015).

In ogni modo, sia nell’ipotesi che la fattispecie rientri nell’art. 2043 c.c., sia che rientri – come nel caso che ci occupa – nell’art. 2051 c.c., è rilevante l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poiché esso incide sul nesso causale.

Invero, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, si da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito.

La colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 comma 1 c.c. sul punto, sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.

Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.

In questa ottica, la diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo: in questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un apporto concorrente.

Sul punto, (cfr. Cass. civ., sez. III, 24 febbraio 2011, n. 4476) la Corte di Cassazione ha chiarito che: “..potendo essere la responsabilità esclusa solo dalla prova del fortuito, nel quale può rientrare anche la condotta della stessa vittima, nella valutazione dell’apporto causale da quest’ultima fornito alla produzione dell’evento, il giudice deve tenere conto della natura della cosa e delle modalità che in concreto e normalmente ne caratterizzano la fruizione”.

Orbene, l’appellante sostiene che alcuna responsabilità possa essergli attribuita in riferimento alla eziologia del danno subito dal Sig. Co.Fr., sia perché le abbondanti piogge, in seguito alle quali è scaturito l’allagamento del terreno dell’attore, sarebbero da attribuirsi ad un evento eccezionale integrante gli estremi della forza maggiore o del caso fortuito, sia perché l’attore medesimo avrebbe dovuto approntare tutte le opere idrauliche necessarie affinché l’acqua riversatasi sulla strada vicinale privata, limitrofa alla sua proprietà, non tracimasse su quest’ultima.

Le prospettazioni del COMUNE DI ROSARNO non convincono tuttavia questa Corte, la quale ritiene che il Tribunale di Palmi abbia adottato la propria decisione seguendo un percorso logico-giuridico corretto, con motivazione esaustiva, giunta al termine di un’analisi oggettiva e compiuta delle emergenze istruttorie.

Quanto alla invocata esclusione del nesso di causalità tra la res (strada “Zi.”) ed il danno, da attribuirsi – secondo le prospettazioni dell’appellante – esclusivamente alle piogge eccezionali che sarebbero cadute nei giorni 13, 14 e 15 novembre 2004, tali da costituire un evento del tutto imponderabile in grado di determinare ex se solo l’evento per cui è causa, questo Collegio la considera priva di pregio.

Sul punto si richiama costante ed univoca giurisprudenza di legittimità (cfr., di recente, Cass. Civ. Sez. VI, Sent. n. 18856 del 28/07/2017) con la quale è stato ribadito il principio in forza del quale il caso fortuito e la forza maggiore costituiscono fattori idonei a recidere il nesso causale fra la condotta del custode e l’evento dannoso provocato dalla cosa che il custode stesso ha l’obbligo di mantenere e controllare ex art. 2051 CC., e tuttavia essi non possono dirsi integrati da un intensa ed improvvisa precipitazione atmosferica che, allagando una strada comunale, ha provocato gravi danni a terzi.

Tale impostazione, del resto, è stata seguita proprio da questo Collegio in un provvedimento decisorio che ha regolato una fattispecie del tutto simile a quella per cui è causa, intervenuto a seguito della sentenza n. 26545/2014 del 17.12.2014, resa dalla III Sez. Civile della Corte di Cassazione – con cui è stata disposta, tra l’altro, la cassazione con rinvio di una pronuncia emessa da questa Corte di Appello in diversa composizione – la quale, richiamando altri provvedimenti di analogo tenore (Cass. Civ. sent. n. 5267 dell’11.05.1991; Cass. Civ. sent. n. 5133 del 22.05.1998), ha stabilito che: “In tema di responsabilità civile, l’esimente del caso fortuito e quella della forza maggiore (invocabili in presenza di circostanze tali da escludere, rispettivamente, la colpa dell’agente o il nesso causale tra la sua condotta e l’evento dannoso) non possono essere invocate dal proprietario di una strada in relazione ai danni cagionati da precipitazioni atmosferiche pur di particolare forza ed intensità, protrattesi per un tempo molto lungo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, allorché sia stato accertato che gli stessi trovano origine nell’insufficienza del sistema di deflusso delle acque meteoriche, realizzato a seguito di lavori di ammodernamento della strada in questione”.

L’orientamento che precede sostiene, in linea di principio, che un fenomeno di pioggia intensa e persistente, tale da assumere i connotati di una pioggia definita “alluvionale”, non costituisce un evento di forza maggiore idoneo, di per sé, ad escludere la responsabilità dell’Ente proprietario della strada se questa non abbia tenuto in buono stato di manutenzione la strada.

La Suprema Corte chiarisce, peraltro, che per “caso fortuito” deve intendersi un avvenimento imprevedibile, imponderabile, tale da configurarsi come fattore determinante in modo autonomo dell’evento.

Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria, anche se non frequente, non è, quindi, sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto, volendo, può essere prevista in base alla comune esperienza.

È certamente vero, in astratto, che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito, ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito.

In sintesi, per escludersi il risarcimento del danno bisogna dimostrare che le piogge siano state da sole causa sufficiente dei danni nonostante la più scrupolosa manutenzione e pulizia, da parte del proprietario della strada, delle opere di smaltimento delle acque piovane.

Il che equivale, in sostanza, a dimostrare che le piogge siano state così intense (e quindi eccezionali) che gli allagamenti si sarebbero verificati nella stessa misura pure se vi fosse stata detta scrupolosa manutenzione e pulizia.

Di contro, perché si possa parlare di risarcimento danni è però necessario che il danneggiato dimostri che il sistema di deflusso delle acque piovane non sia stato realizzato a regola d’arte, e che, quindi, la formazione della “piena” sia stata proprio causata dal comportamento colpevole dell’Ente proprietario.

Se si riesce a fornire tale prova (come, del resto, è avvenuto nella fattispecie che ne occupa), non rileva il fatto che la causa scatenante sia stata un’improvvisa e imprevedibile alluvione, perdurata anche per più giorni e dal carattere dell’eccezionalità.

Infatti, in questi casi, il danneggiante non può invocare il cosiddetto caso fortuito, ossia l’unica ipotesi in cui non opera la responsabilità oggettiva del custode di una cosa (in questo caso, la strada) per i danni cagionati da quest’ultima.

La Corte di Cassazione, in definitiva, nel chiarire i concetti di caso fortuito e forza maggiore (intendendo, per caso fortuito, quell’evento imprevedibile ed inevitabile che esclude la responsabilità pur non facendo venire meno il nesso di causalità e per forza maggiore quell’impedimento che derivi da cause esterne e che non sia imputabile all’agente) afferma “…che la possibilità di invocare il fortuito o la forza maggiore sussiste solo se il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un’efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento.”.

Da quanto sopra ne deriva che se il COMUNE DI ROSARNO avesse adottato l’ordinaria diligenza nella realizzazione dei lavori atti a garantire, nella strada vicinale pubblica “Zi.”, un normale deflusso delle acque meteoriche, anche in caso di piogge eccezionali ed abbondanti, come quelle cadute in quella determinata zona nei giorni 12, 13 e 14 novembre 2004, i danni lamentati dal Sig. Co.Fr. non si sarebbero verificati o, quanto meno, avrebbero avuto conseguenze meno disastrose.

Relativamente, poi, alla dedotta natura di “strada vicinale privata” della strada “Zi.”, sufficiente ad escludere qualsivoglia responsabilità in capo all’Ente appellante nella genesi del danno subito dal Sig. Co.Fr., si osserva quanto segue.

Dalla documentazione prodotta in atti dallo stesso Comune appellante, si evince in modo obiettivo ed incontestabile che la strada “Zi.” è stata classificata “strada vicinale soggetta a pubblico transito” con provvedimento del Commissario Prefettizio n. 71 del 2.9.1965 e che la stessa – per espressa ammissione del C.T.P. del COMUNE DI ROSARNO – “è manutentata dal comune”.

Risulta, inoltre, dalle fotografie allegate alla C.T.U., che la strada per cui è causa è pressoché inglobata nel tessuto urbano di Rosarno, conducendo a diverse abitazioni, ed è per un lungo tratto asfaltata (salvo il breve tratto finale – che costeggia la proprietà

del Co.Fr. – che si presenta sterrato), nonché munita in parte di pubblica illuminazione.

L’ausiliario del Giudice, nella sua relazione peritale (le cui valutazioni sono ritenute da questa Corte, al pari del Tribunale di Palmi, logicamente ineccepibili, chiare, organiche, analitiche e congruenti) ha altresì affermato che la strada vicinale “Zi.”, nella parte adibita a pubblico transito, era, all’epoca dei fatti di causa, totalmente priva dei sistemi di regimazione delle acque di scolo nonché affatto mantenuta per come avrebbe dovuto, di talché, presentandosi anche in leggero declivio e raccogliendo presumibilmente anche le acque piovane provenienti dalla soprastante strada provinciale, sarebbe stato necessario creare apposite sistemazioni idrauliche in grado di far defluire dette acque al fine di evitare di arrecare danni a terzi.

Evidenziava, inoltre, che pari responsabilità nella produzione dei danni era da attribuire alla mancanza di sistemazioni idrauliche superficiali nel fondo dell’attore.

Rebus sic stantibus non possono non condividersi le conclusioni a cui è giunto il Tribunale di Palmi laddove ha affermato che la normativa invocata dall’Ente appellante (L. 2248/1865, secondo cui incomberebbe ai privati proprietari dei terreni contigui alle strade vicinali l’obbligo manutentivo delle stesse) andasse coordinata con quella, più recente, introdotta dal D. Lgs. 285/1992 che, assimilando le strade vicinali a quelle comunali, prevede per gli Enti proprietari (nello specifico, in base all’art. 14, comma 4, i comuni) l’obbligo di manutenzione di dette strade, ed ha attribuito conseguentemente una pari responsabilità delle parti in causa – dimidiando l’importo quantificato a titolo di danno dal C.T.U. – proprio in virtù dell’accertamento dell’omissione dell’obbligo manutentivo facente capo ad entrambe le parti in virtù della particolare natura della strada vicinale “Zi.”.

Sulla natura pubblica o privata di una strada si evidenzia, in proposito, una recente sentenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 10 ottobre 2018, n. 5820) con la quale il massimo organo di giustizia amministrativa – seguendo un consolidato orientamento giurisprudenziale – ha chiarito che l’iscrizione delle pubbliche vie comporta una presunzione di pubblicità, superabile con la prova contraria sulla base dei criteri individuati dalla giurisprudenza civile e amministrativa (tra cui, Cassazione Civile, Sez. Un., 23/12/2016, n. 26897; Cons. di Stato sez. IV, n. 1515 del 19.3.2015; Cons. di Stato sez, VI, n. 4952 dell’8.10.2013; Cass. Civ. n. 21125 del 19.10.2015).

La giurisprudenza sopra richiamata chiarisce, in primis, che l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù.

Inoltre, tra i vari principi ricavabili dalla sentenza in esame, vi è anche quello secondo cui “una strada rientra nella categoria delle vie vicinali pubbliche” se sussistono i requisiti “della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via (oltre che dell’esistenza di un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico)”.

Infatti l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patrìam, l’asservimento del bene da parte del proprietario all’uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.

Valga, quanto sopra, a rafforzare la bontà e correttezza della determinazioni assunte con la pronuncia oggetto di impugnazione.

Relativamente al terzo ed al quarto motivo di censura, anch’essi da trattare congiuntamente, si osserva e rileva quanto segue.

Come poco sopra accennato, le conclusioni a cui è giunta la C.T.U. versata in atti sono pienamente condivisibili e non si prestano ad alcuna censura di sorta.

Ciò anche per quanto riguarda la determinazione del costo delle singole piantine, già indicato nella relazione peritale d’ufficio e ribadito nei chiarimenti resi dal C.T.U. in data 26.05.2008, stabilito in Euro 0,05.

Parte appellante, infatti, male interpretando un passaggio della succitata consulenza tecnica, dove il Dott. Agr. Tr. – per la verità, in maniera poco chiara – scrive: “come dichiarato dall’attore al tempo li allevava direttamente sul terreno”, ha ritenuto che il prezzo fosse stato determinato in base a quanto riferito dal Sig. Co.Fr., mentre, detta frase va riferita solo alla circostanza relativa alla piantumazione delle piantine nel terreno e non anche al loro prezzo unitario di mercato.

Tant’è che, nei successivi chiarimenti, dopo avere spiegato tecnicamente le ragioni per cui è più conveniente la coltura in contenitori anziché direttamente sul terreno, ribadisce che: “il prezzo di mercato, medio tra le diverse specie di piantine del tipo a strappo è di Euro 0,05.”.

Inoltre, quanto alla eccepita mancata specificazione della idoneità del terreno di proprietà attorea ad accogliere le colture di tipo analogo a quelle danneggiate e della conseguente necessità di procedere ad un accertamento della natura dello stesso, sollecitata dal COMUNE DI ROSARNO, il C.T.U. riferisce espressamente, nei chiarimenti, che tale istanza non abbia più “…alcun senso né tecnico né scientifico,

tanto più dopo quasi quattro anni e che, comunque, in un settore della serra danneggiata, per come si evince dalle fotografie n. 7 e 8, allegate alla C.T.U., aveva rilevato la presenza di “…colture già in atto allevate direttamente sul terreno che presentavano uno sviluppo lussureggiante”, di talché è facile dedurre che la natura del terreno di proprietà dell’attore si prestasse perfettamente alla coltivazione delle piantine in serra.

Quanto alla stima dei danni, è ovvio che, essendo intervenuta la C.T.U. a distanza di quasi quattro anni dal sinistro, la quantificazione degli stessi è avvenuta in maniera probabilistica sulla base di una ricostruzione a posteriori effettuata dall’ausiliario del Giudice tenendo conto dei luoghi di causa e delle dimensioni della serra dove l’attore aveva sistemato le piantine del vivaio, nonché anche con l’ausilio delle numerose fotografie scattate nell’immediatezza dell’accaduto (che rendono bene l’idea dei danni) ed allegate alla consulenza tecnica di parte prodotta dal Sig. Co.Fr., successivamente asseverata in udienza dal Geom. La.Fr., sicché la mancata allegazione delle fatture di acquisto delle piantine non può ritenersi essenziale al fine della dimostrazione del danno patito, comunque altrimenti ricostruito.

Per quanto sopra, il quinto punto di censura è da ritenersi assorbito.

Relativamente al sesto ed ultimo motivo di gravame, valgano le considerazioni appresso esplicitate.

Come si è potuto sin qui apprezzare, il primo Giudice ha accolto solo in parte l’istanza proposta dal Sig. Co.Fr., attribuendo a quest’ultimo una corresponsabilità nel determinismo causale dell’evento danno e condannando, tuttavia, il convenuto COMUNE DI ROSARNO all’integrale rimborso delle spese di lite.

L’appellante censura tale decisione, deducendo la palese violazione della regola della soccombenza e del principio di causalità e sostenendo che, in ragione del parziale accoglimento della domanda attorea, il Tribunale avrebbe dovuto quanto meno compensare le spese di lite.

Tale censura è priva di pregio.

Ed invero, l’art. 92 c.p.c., al comma 2, prevede la possibilità (non l’obbligo) di una compensazione integrale o parziale delle spese di lite in caso di soccombenza reciproca, nel senso che il Giudice “può” – e non “deve” – compensare in tutto o in parte le spese di giudizio laddove si verifichi tale ipotesi, potendo decidere anche di condannare integralmente alla rifusione delle stesse la parte che ha dato maggiormente impulso al giudizio.

Tale criterio va quindi individuato nel più generale principio di causalità.

Occorre cioè procedere alla individuazione della parte cui siano eventualmente imputabili in prevalenza, per avervi dato causa, agendo o resistendo alle altrui pretese infondatamente, gli oneri processuali ricollegabili all’attività svolta per la istruzione e decisione delle varie domande proposte, o dei vari capi dell’unica domanda, o anche dell’unica domanda che sia risultata solo in parte fondata. (Cfr. Cass. Civ. Sent. Sez. III Sent. n. 3438 del 22.02.2016; in senso conforme anche Cass. Civ., sez. III, Sent. n. 15483 dell’11.06.2008, secondo cui: “la parte soccombente, ai fini delle spese processuali, va identificata alla stregua del principio di causalità sul quale si fonda la responsabilità del processo, in quella che, lasciando insoddisfatta una pretesa riconosciuta fondata o azionando una pretesa riconosciuta infondata, abbia dato causa alla lite, ovvero nel caso di lite necessaria – quando, cioè, il bene richiesto non possa essere ottenuto se non con lo strumento necessario ed insostituibile del processo – con quella che ha tenuto nel processo un comportamento rivelatosi ingiustificato”.

Ed è proprio alla fattispecie sottoposta all’attenzione di questo Collegio che si attaglia perfettamente la pronuncia sopra riportata, laddove si osserva che, nonostante il tentativo operato in via stragiudiziale dal Co.Fr., con lettera protocollata in data 06.12.2004, per ottenere il ristoro dei danni subiti in dipendenza dell’allagamento dei propri terreni, nella totale inerzia del COMUNE DI ROSARNO, è stato infine costretto a ricorrere all’Autorità Giudiziaria per far valere le proprie pretese risarcitone.

Non rimane, quindi, che rigettare l’appello.

Nessuna statuizione va adottata sulle spese di lite del presente grado, stante la mancata costituzione in giudizio dell’appellato Co.Fr..

P.Q.M.

La Corte di Appello di Reggio Calabria, Sezione Civile, uditi i procuratori di parte appellante, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal COMUNE DI ROSARNO, con atto di citazione notificato in data 26.10.2011, disattesa ogni contraria domanda, eccezione e difesa, così provvede:

1) Dichiara la contumacia di Co.Fr.;

2) Rigetta l’appello;

3) Nulla sulle spese.

Così deciso in Reggio Calabria l’11 novembre 2019.

Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2020.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.