Quanto alle (qui) controverse figure (e configurazioni) riferibili alle diverse attività di hosting provider attivo e passivo , con la Sentenza in oggetto il Cosiglio di Stato, ha ribadito che:
– la giurisprudenza unionale distingue due figure di hosting provider: a) quella dell’hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi; b) quella di hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l’altro, l’attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa;
– fermo quanto sopra, si è già evidenziato come non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico;
– esse, però, devono essere coordinate nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso.

Applicando i citati ptincipi, ha annullando Sentenza del Tar Lazio 4335/21 e la sottostante multa dell’Agcom di 1,75 milioni di € irrogata ad una nota piattaforma di secondary ticketing che consentiva la rivendita online dei biglietti di molti concerti.

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Consiglio di Stato|Sezione 6|Sentenza|13 settembre 2022| n. 7949

Data udienza 17 febbraio 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale Sezione Sesta

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5712 del 2021, proposto dalla società St. Inc., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. An., Ga. Ge. e Ma. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Ma. Be. in Roma, via (…);

contro

l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (…);

nei confronti

– dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (…);
– del Ministero dell’interno, del Ministero della economia e delle finanze e della società Tr. Mu. S.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. III-ter, 14 aprile 2021 n. 4335.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e i documenti prodotti;

Vista l’ordinanza della Sezione 2 agosto 2021 n. 4309, con la quale è stata accolta la domanda cautelare presentata dalla parte appellante;

Esaminate tutte le memorie difensive, anche di replica e gli ulteriori atti depositati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2022 il Cons. Stefano Toschei e uditi, per le parti, gli avvocati Ga. Ge. e Ma. Be. nonché l’avvocato dello Stato Fe. Va.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con ricorso (n. R.g. 5712/2021) la società St. Inc. ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. III-ter, 14 aprile 2021 n. 4335, con la quale è stato respinto il ricorso (n. R.g. 4883/2020) proposto da detta società nei confronti dei seguenti atti e provvedimenti: (in via principale) a) la delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (d’ora in poi, per brevità, AGCOM) n. 103/20/CONS del 16 marzo 2020, recante “Ordinanza ingiunzione alla Società St. INC per la violazione dell’articolo 1, comma 545, legge 11 dicembre 2016, n. 232 (legge di bilancio 2017) (Contestazione n. 3/19/DSD)”; (in via conseguenziale) b) il provvedimento del direttore della Direzione sviluppo dei servizi digitali e della Rete di AGCOM del 2 luglio 2019, avente ad oggetto “Contestazione n. 03/19/DSD – Contestazione alla società St. Inc. per la violazione dell’articolo 1, comma 545, legge 11 dicembre 2016, n. 232 (legge di bilancio 2017)”; c) le note del Ministero dell’interno, Dipartimento per la pubblica sicurezza, Servizio della Polizia postale e delle comunicazioni prot. n. 10823/19/03/06/19 del 29 maggio 2019, avente ad oggetto “Esiti attività di monitoraggio in relazione al contrasto del fenomeno del Secondary Ticketing” e prot. 0023222 del 13 novembre 2019, avente ad oggetto “Approfondimenti e precisazioni circa l’attività di monitoraggio effettuata in relazione al contrasto del fenomeno del Secondary Ticketing” (prot. AGCOM n. 489973 del 14 novembre 2019); d) le note della Guardia di finanza, Nucleo speciale beni e servizi, prot. n. 0069433/2019 del 4 giugno 2019 (prot. AGCOM no. 0242107.04-06-2019), avente ad oggetto “Richiesta supporto da parte della Guardia di Finanza per lo svolgimento delle attività di contrasto al fenomeno di “secondary ticketing” e prot. n. 0140794/2019 del 18 novembre 2019 (prot. AGCOM n. 495010 del 18 novembre 2019), avente ad oggetto “Richiesta approfondimenti istruttori a supporto delle attività di contratto al fenomeno di secondary ticketing”, trasmessa anche con nota prot. 0049559/2020 del 30 aprile 2020 “Richiesta di accesso agli atti acquisiti a fascicolo del procedimento sanzionatorio avviato con contestazione n. 03/19/DSD […]”; e) la nota inviata tramite email da AGCOM – Direzione sviluppo dei servizi digitali e della rete prot. n. 48060 del 3 febbraio 2020, avente ad oggetto “Acquisizione Atti – Procedimento sanzionatorio St.” con allegati due screenshot estratti dal sito (omissis); f) la delibera dell’AGCM prot. n. 0026624 del 12 marzo 2020 con la quale l’AGCM, nell’adunanza del 6 marzo 2020, ha espresso ai sensi dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, l’esito del formale concerto sullo schema di ordinanza ingiunzione alla società St. Inc. trasmesso da AGCOM.

2. – Come si evince dalla lettura degli atti di causa (con riferimento ad entrambi i gradi di giudizio) e, in particolare, dalla ricostruzione “in fatto” operata dalla sentenza di primo grado qui oggetto di appello e dal ricorso in appello, le vicende che hanno dato luogo al presente contenzioso possono essere così ricostruite:

– la società St. Inc. è una società statunitense che opera nel settore del secondary ticketing e in particolare gestisce la piattaforma, di c.d. marketplace, (omissis)., sulla quale soggetti privati vendono ad altri soggetti privati biglietti per eventi acquistati sul mercato primario;

– con delibera n. 103/20/CONS del 16 marzo 2020, l’AGCOM ha irrogato nei confronti della suddetta società una sanzione pecuniaria di euro 1.750.000 per avere messo in vendita sulla piattaforma (omissis), nell’arco temporale tra marzo e maggio 2019, biglietti a prezzo maggiore di quello nominale per n. 35 eventi, in violazione dell’articolo 1, comma 545, l. 11 dicembre 2016, n. 232 (recante Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019) e diffidandola, nel contempo, dal “porre in essere ulteriori comportamenti in violazione delle disposizioni richiamate”;

– la società destinataria della suddetta ordinanza proponeva impugnazione dinanzi al TAR per il Lazio chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi (per doverosa sinteticità qui solo indicati per “rubrica”): I) difetto legittimazione passiva- violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, dell’art. 14 Direttiva 2000/31/CE (Direttiva E-Commerce), degli artt. 16 e 17 d.lgs. 70/2003, dell’art. 1 della l. 689/1981 e dell’art. 25 Cost. Violazione dell’art. 10 l. 241/1990. Violazione dei principi del giusto procedimento, proporzionalità, certezza e legalità, nonché dei principi d’imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e irragionevolezza manifeste. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti. Carenza dei presupposti di fatto. Sviamento; II) violazione del giudicato del Consiglio di Stato che qualifica la Piattaforma come “hosting provider passivo”, in quanto non mette in vendita i biglietti e non determina né controlla il prezzo – Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, dell’art. 14 Direttiva 2000/31/CE (Direttiva E-Commerce), degli artt. 16 e 17 d.lgs. 70/2003, dell’art. 1 l. 689/1981 e dell’art. 25 Cost. Violazione dell’art. 10 l. 241/1990. Violazione del principio del “ne bis in idem” e del giudicato del Consiglio di Stato. Violazione dei principi del giusto procedimento, proporzionalità, legalità e certezza del diritto, nonché dei principi d’imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Violazione del principio del legittimo affidamento. Eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e irragionevolezza manifeste. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti. Carenza dei presupposti di diritto. Sviamento. III) La condotta sanzionata ex art. 1, comma 545, l. 232/2016 è solo la vendita senza titolo e non anche la vendita a prezzi maggiorati- St. Inc. (e il gestore della Piattaforma) non vendono i biglietti né quindi ne determinano il prezzo; la legge non prevede sanzione per la vendita a prezzi maggiorati. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, dell’art. 14 Direttiva 2000/31/CE (Direttiva E-Commerce), degli artt. 16 e 17 d.lgs. 70/2003, dell’art. 1 l. 689/1981 e dell’art. 25 Cost. Violazione dei principi del giusto procedimento, proporzionalità, certezza e legalità, nonché dei principi d’imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e irragionevolezza manifeste. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Sviamento. Disparità di trattamento. IV) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, dell’art. 14 Direttiva 2000/31/CE (Direttiva E-Commerce), degli artt. 16 e 17 d.lgs. 70/2003, dell’art. 1 l. 689/1981 e dell’art. 25 Cost. Violazione dei principi del giusto procedimento, proporzionalità, legalità e certezza del diritto, nonché dei principi d’imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e irragionevolezza manifeste. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti. Carenza dei presupposti di diritto. Sviamento. Disparità di trattamento. V) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, dell’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE (Direttiva E-Commerce), degli artt. 16 e 17 del d.lgs. 70/2003, dell’art. 1 l. 689/1981 e dell’art. 25 Cost. Violazione dell’art. 11 l. 689/1981 e dell’Allegato A della Delibera AGCOM 265/15/CONS s.m.i. (“Regolamento AGCOM sulle Sanzioni”). Violazione dei principi del giusto procedimento, proporzionalità, legalità e certezza del diritto, nonché dei principi d’imparzialità, efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost. Eccesso di potere per grave difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e irragionevolezza manifeste. Travisamento ed erronea valutazione dei fatti. Carenza dei presupposti di diritto. Sviamento. Disparità di trattamento;

– il TAR per il Lazio ha respinto il ricorso in quanto (anche qui in estrema sintesi): 1) la società St. è effettivamente il trasgressore al quale va riferita la responsabilità per la realizzazione della condotta illecita contestata, costituendo fonte probatoria idonea a sostenere tale conclusione, in quanto correttamente formata, la relazione della Polizia postale che costituisce il presupposto istruttorio privilegiato su cui (si) fonda il provvedimento inibitorio e sanzionatorio assunto da AGCOM ed in esso ampiamente riprodotto nei contenuti, richiamando analiticamente gli esiti degli accertamenti effettuati dalla Polizia postale (e, in particolare, che: “1) le home page dei siti web (omissis) e (omissis) sono identiche (…), fatta eccezione per la lingua italiana utilizzata su (omissis); 2) i due siti non sono distinti ma, al contrario, esiste una chiara ed evidente correlazione dell’uno rispetto all’altro; 3) i due siti non utilizzano piattaforme diverse e dunque non sono soggetti a regole tecniche diverse, in quanto verosimilmente attingono le informazioni web (contenuti multimediali come ad esempio la categorizzazione degli eventi) dagli stessi server”); 2) tenuto conto del quadro normativo di riferimento emerge che l’attività di rivendita e/o di collocamento dei titoli di accesso alle attività di spettacolo (“secondary ticketing”) svolta al di fuori delle limitate modalità dallo stesso consentite costituisce illecito amministrativo, punito con le sanzioni sopra indicate, costituendo inoltre illecito la rivendita di biglietti a prezzi maggiorati rispetto al valore nominale del titolo. Chiarito ciò e tenuto conto degli orientamenti giurisprudenziali nazionali e unionali delle norme in materia, la posizione di St. non può qualificarsi di hosting provider passivo, in quanto non consistente nella mera “memorizzazione di informazioni”, come pretenderebbe di affermare la società (allora) ricorrente (in quanto: “Reputa il Collegio che la gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite l’articolata gestione imprenditoriale evidenziata nella motivazione del provvedimento, servizi finalizzati – per stessa ammissione della ricorrente – a favorire la conclusione di negozi giuridici che la legge qualifica in linea generale illeciti, escluse le limitate ipotesi sopra indicate, non possa essere considerata neutrale rispetto al disposto normativo, non potendo essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata, come infondatamente argomentato da parte ricorrente” (così, testualmente, a pag. 14 della sentenza qui oggetto di appello); 3) risulta poi correttamente e compiutamente accertato dall’Autorità un ruolo attivo ovvero una condotta di azione consistente nell’attività di promozione delle offerte e di facilitazione dell’incontro tra venditori e acquirenti, con intervento attivo di St. in tutte le fasi della transazione commerciale, con il transito su un proprio conto bancario del valore corrisposto per il biglietto (per riversarlo poi al venditore solo a seguito di precise verifiche); 4) corretta è stata poi l’istruttoria di AGCOM con riferimento al periodo di osservazione e, soprattutto, all’oggetto del comportamento illecito imputato alla società, atteso che l’Autorità ha contestato e sanzionato esclusivamente l’attività di secondary ticketing sulla base dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016 e non la violazione dell’obbligo di riportare il nominativo nei titoli di accesso (come, invece, è stato prospettato dalla società ); 5) anche le censure sulla istruttoria svolta per individuare l’entità della sanzione vanno respinte, in quanto l’Autorità ha fatto corretta applicazione delle linee guida per l’individuazione delle sanzioni pecuniarie, allegate alla delibera 265/15/CONS, accertando puntualmente che l’illecito si è realizzato attraverso “plurime violazioni della stessa norma poste in essere in tempi e con riferimento a titoli per l’accesso ad eventi diversi, così da escludere la ricorrenza dell'”unica sequenza temporale” e di unicità dello scopo” (così, testualmente, a pag. 17 della sentenza qui oggetto di appello) e potendosi così confermare la correttezza, anche nell’entità, della sanzione inflitta.

3. – Propone quindi appello la società St. nei confronti della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. III-ter, 14 aprile 2021 n. 4335, sostenendone la erroneità con riferimento alle seguenti traiettorie contestative:

I) in primo luogo la società appellante ribadisce, dopo averlo già chiarito in primo grado, che è errato affermare, come ha fatto l’Autorità, che nella specie sussista la legittimazione passiva a carico di St. per esserle imputabile uno specifico comportamento (peraltro plurimo) che configura l’illecito contestato e sanzionato, atteso che le circostanze addotte dall’Autorità al fine di dimostrare che la predetta società, alla data dei fatti contestati, risultava essere il domain administrator del dominio (omissis) presso il “(omissis)”, sono prive di fondamento, atteso che la stessa Polizia postale non ha mai affermato come certo tale assunto, tanto è vero che risulta dalla schermata estratta da (omissis) e prodotta dalla Polizia postale che all’epoca dei fatti il domain administrator di (omissis) era la eB. Inc (e non St.). Ad ogni buon conto, precisa l’appellante, “il domain administrator non è qualificabile quale titolare della piattaforma (omissis), ma è semplicemente un contatto tecnico per i nomi a dominio del gruppo (non a caso esso appare sotto la voce “Contatti Tecnici”) e spesso tale qualifica viene assegnata alla capogruppo” (così, testualmente, a pag. 4 della memoria conclusiva). Inoltre, a fronte dell’assenza di documentazione idonea da parte dell’Autorità circa la dimostrazione che St. Inc. fosse titolare della piattaforma (omissis), l’appellante ricorda di avere depositato in entrambi i gradi di giudizio documenti dai quali risulta inequivocabilmente la sua estraneità rispetto alla qualifica di titolare della ridetta piattaforma. Né può assumere rilevanza (circa la titolarità della piattaforma) il comportamento procedimentale tenuto da St., che (a differenza di quanto è stato sostenuto da AGCOM) ha partecipato al procedimento sanzionatorio al solo fine di dimostrare la propria estraneità al ruolo di titolare della piattaforma, tanto che tale partecipazione non ha “sanato” la mancata notifica dell’ordinanza nei confronti del vero titolare della piattaforma (omissis) (Ti.);

II) in secondo luogo va confutata l’interpretazione fatta propria da AGCOM e dal TAR con riferimento alla norma delle legge di Bilancio applicata nella specie, atteso che con essa non è stato affatto introdotto un divieto assoluto di vendita di biglietti sulle piattaforme di secondary ticketing né essa ha introdotto un’autonoma fattispecie di illecito per vendita dei biglietti a prezzo maggiorato, atteso che le disposizioni introdotte (nei commi 545-545-quinquies) “il legislatore da un lato si è preoccupato di garantire all’acquirente del biglietto la certezza di poterlo rivendere sullo stesso sito primario in cui l’ha acquistato, dall’altro ha assicurato al medesimo acquirente la possibilità di rivenderlo anche altrove (per esempio attraverso piattaforme di secondary ticketing), obbligando i soggetti autorizzati a garantire la variazione nominativa del biglietto a titolo gratuito” (così, testualmente, a pag. 7 della memoria conclusiva di parte appellante);

III) va poi ribadito (al contrario di quanto ritenuto dall’Autorità e dal giudice di primo grado e in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato nonché, da ultimo, con l’interpretazione della CGUE, con sentenza del 22 giugno 2021 sulle cause riunite C-682/18 e C-683/18) che la qualifica di hosting provider passivo del gestore della piattaforma (omissis) (Ti.) comporta che quest’ultimo non venda i biglietti ma ospiti gli annunci inseriti dagli utenti, senza modificarli, e conseguentemente, in tale qualità (di hosting provider), non è tenuto a pubblicare e a controllare (senza mutare la stessa natura dell’attività imprenditoriale svolta) il valore nominale (vale a dire il prezzo originario) dei biglietti messi in vendita dagli utenti. Ciò determina che anche St. Inc., se fosse realmente il gestore della piattaforma (omissis) (ma così non è ) o operasse nel mercato italiano (il che altrettanto non è ), sarebbe da qualificare hosting provider passivo – visto che un operatore può essere qualificato hosting provider attivo soltanto in caso di manipolazione dei dati inseriti dagli utenti – per le medesime ragioni e quindi non porrebbe in atto l’attività illecita contestata dall’Autorità, limitandosi a fornire agli utenti uno spazio virtuale dove vengono ospitati gli annunci per la vendita dei loro biglietti, inseriti sotto la esclusiva responsabilità di questi ultimi, senza mai modificare il loro contenuto, dal momento che – in conclusione – il gestore della piattaforma (omissis) è un mero intermediario, che non ha mai la proprietà né il possesso del biglietto. Tra l’altro è ampiamente dimostrato come il (reale) gestore della piattaforma (omissis) ha posto in essere tutte le misure necessarie per garantire il rispetto della normativa così come esitata dopo l’intervento della legge di Bilancio. Inoltre è stato dimostrato che al caso di specie andava applicata la esenzione della responsabilità secondo la previsione di cui all’art. 16 d.lgs. 70/2003. Infatti al momento della notificazione dell’atto di contestazione n. 03/19/DSD, avvenuta in data 9 agosto 2019, gli annunci contestati non erano più online, pertanto non era più presente in piattaforma nulla da rimuovere. Inoltre, nessuna delle segnalazioni degli aventi diritto citate da controparte è stata mai notificata né al gestore della piattaforma (omissis) (Ti.) né a St. Inc. (che in ogni caso nulla avrebbe potuto fare, essendo completamente estranea alla gestione della piattaforma (omissis) e non esercitando alcun controllo su di essa), ma solo ad AGCOM, che ne ha dato notizia a St. Inc. soltanto con la citata contestazione, potendosi facilmente supporre che, laddove la segnalazione di tali annunci (asseritamente illeciti) fosse avvenuta nei termini e nei modi previsti dalla legge e nei confronti del gestore della piattaforma (omissis), quest’ultimo li avrebbe senz’altro rimossi immediatamente;

IV) con riferimento poi alla (corretta) quantificazione della sanzione inflitta se ne conferma la evidente sproporzione in quanto l’Autorità, all’atto della sua individuazione, non ha considerato la condotta imputata (e ritenuta illecita) come “unica” a fronte di un’unica (pretesa) violazione della norma, né ha tenuto conto dell’assenza di vendite e di ricavi in molti degli eventi considerati, né la mancanza di precedenti sanzioni a carico di St. Inc.. In ogni caso, non svolgendo attività di messa in vendita né di collocamento dei biglietti, alcuna sanzione può essere irrogata al gestore della piattaforma (omissis) (né tantomeno a St. Inc.). Peraltro i bilanci riferibili all’odierna appellante non sono idonei a dimostrare la capacità di St. Inc. di far fronte al pagamento della sanzione nella entità individuata dall’Autorità “posto che includono l’insieme dei ricavi a livello globale: in realtà, l’attività del sito (omissis) era, ai tempi della contestazione, in perdita (…) e il prorogato stop agli eventi determinato dall’emergenza epidemiologica ha per oltre due anni straordinariamente aggravato la situazione finanziaria del gestore della piattaforma (omissis) e di St. Inc.” (così, testualmente, a pag. 20 della memoria conclusiva di parte appellante).

Concludeva dunque St. Inc. chiedendo l’accoglimento dell’appello e la riforma della sentenza di primo grado, con conseguente annullamento degli atti e dei provvedimenti impugnati, eventualmente previa disapplicazione dell’art. 1, commi da 545-bis a 545-quater, l. 232/2016, ovvero l’adozione di una pronuncia di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia o di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.

4. – Nel silenzio processuale del Ministero dell’interno, del Ministero della economia e delle finanze e della società Tr. Mu. S.r.l. (tutti evocati nel presente grado di giudizio dall’appellante) e con la presenza solo formale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (inserita nell’atto di costituzione depositato dall’avvocatura erariale), si è costituita in giudizio l’AGCOM, sostenendo la correttezza degli atti e provvedimenti impugnati dalla società appellante nonché la puntualità e la condivisibilità delle conclusioni alle quali è giunto il TAR per il Lazio con la sentenza qui oggetto di appello, peraltro in perfetta corrispondenza con quanto ha affermato dalla giurisprudenza nazionale e unionale, sicché la sentenza di primo grado va ritenuta scevra da tutte le contestazioni mosse dalla società appellante nel presente grado di giudizio.

Nello specifico, ricorda l’avvocatura erariale, la delibera n. 103/20/CONS è stata adottata dall’Autorità per la violazione del comma 545 dell’art. 1 l. 232/2016, che vieta la “vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione”, così introducendo il divieto di c.d. secondary ticketing nel nostro ordinamento (vale a dire l’attività di rivendita sul mercato secondario di titoli di accesso a eventi di spettacolo – teatro, musica, sport, cinema – ad un prezzo maggiorato per multipli di quello nominale, che risulta, pertanto, essere fonte di evidenti danni per l’erario e i consumatori stessi) e prevedendo soltanto due ipotesi normative di deroga a tale divieto: A) quella descritta nel comma 545, terzo periodo, del citato art. 1, per la rivendita svolta da a) persona fisica, b) a titolo occasionale, c) senza finalità commerciali e d) per un prezzo pari o inferiore al valore nominale del biglietto; B) quella prevista dal comma 545-quater, del citato art. 1, nel caso in cui l’intermediazione a) sia svolta dai siti internet di rivendita primari, dai box office autorizzati o dai siti internet ufficiali dell’evento; b) sia finalizzata alla rivendita dei biglietti al valore nominale da parte degli utenti; c) a condizione che per l’attività di intermediazione siano addebitati agli utenti unicamente congrui costi relativi unicamente alla gestione della pratica di intermediazione e di modifica dell’intestazione nominale.

Nel caso di specie l’Autorità nel corso del procedimento ha ampiamente dimostrato come St. Inc. abbia violato l’art. 1, comma 545, l. 232/2016 e che dunque il provvedimento con il quale è stata riconosciuta la responsabilità e inflitta la relativa sanzione è legittimo.

Di conseguenza, ad avviso dell’Autorità, il mezzo di gravame proposto va respinto, stante l’infondatezza dei motivi di appello con esso dedotti, tenendo anche conto che, in via preliminare, l’appello deve essere dichiarato inammissibile perché l’atto introduttivo del giudizio di secondo grado ha apertamente violato l’art. 101 c.p.a. attesa l’inosservanza dell’obbligo gravante sull’appellante di dimostrare (e analiticamente di indicare) in concreto il vizio in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado.

Nel corso del processo la Sezione, con ordinanza 2 agosto 2021 n. 4309, ha accolto la domanda cautelare presentata dalla parte appellante, “tenuto conto dei più recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale e unionale riferibili alle questioni di merito sottese al presente contenzioso”.

Le parti hanno depositato ulteriori memorie e documenti confermando le conclusioni già declinate negli atti processuali.

5. – In via preliminare va esaminata e respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’avvocatura erariale.

Secondo il costante orientamento di questo Consiglio, “il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall’art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo; il giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo, infatti, si presenta come revisio prioris instantiae i cui limiti oggettivi sono segnati dai motivi di impugnazione” (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, 30 novembre 2021 n. 7988 nonché, da ultimo, Cons. Stato, Sez. II, 2 febbraio 2022 n. 717).

In ragione del surriferito principio, posto dalla predetta norma codicistica, è imposto alla parte appellante l’onere di rivolgere una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo ovvero, in genere, delle traiettorie contestative formulate nei confronti del provvedimento impugnato in primo grado (cfr. ancora, tra tante, Cons. Stato, Sez. V, 8 aprile 2021 n. 2843 e 26 agosto 2020 n. 5208).

Fermo quanto sopra, ad avviso del Collegio, non sono affatto riscontrabili spie del mancato ossequio a tale onere processuale nell’atto di appello introduttivo del giudizio di secondo grado da parte di St. Inc..

Al contrario di quanto è stato sostenuto dall’avvocatura erariale, nel formulare la relativa eccezione di inammissibilità, appare di palmare evidenza., dalla semplice lettura del ricorso in appello, come ciascuno dei motivi dedotti dalla odierna parte appellante sia stato “confezionato” tenendo in puntuale conto la “risposta” offerta dal giudice di primo grado (nella sentenza qui oggetto di appello) a ciascuna delle censure prospettate da St. Inc. con il ricorso introduttivo di quel giudizio, confutando puntualmente le argomentazioni offerte dal TAR per ritenere infondato quel mezzo di impugnazione.

Peraltro, scorrendo i motivi di appello proposti, non solo nella intestazione numerata di ciascun capitolo di censura ma anche nel contenuto di ciascuna doglianza, emerge costante il riferimento alla posizione espressa dal giudice di primo grado sui singoli motivi di ricorso, confutandola (l’appellante) puntualmente.

Ne consegue che, nei fatti, l’eccezione sollevata dalla difesa della parte appellata si presenta priva di fondamento e, quindi, va respinta.

6. – Passando ora al merito della controversia il Collegio ritiene essenziale, ai fini della decisione del qui proposto appello, svolgere alcune (decisive) considerazioni preliminari.

Merita anzitutto che siano svolte alcune precisazione sui profili normativi che incidono sulla vicenda controversa qui in esame, peraltro tratte (e in buona parte riprodotti prendendo spunto) da un precedente della Sezione noto alle parti (e avendo la Sezione già più volte affrontato il tema principale qui in esame), essendo stato espressamente richiamato negli atti processuali (ci si riferisce all’ordinanza della Sezione 27 gennaio 2022 n. 592, nella quale è espresso il richiamo esplicito ai seguenti precedenti della Sezione, nn. 4359/2019, 1217/2020 e 3851/2021).

In linea generale, l’hosting provider è figura disciplinata dal d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, che ha dato attuazione alla direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

La nozione di “servizi della società dell’informazione” ricomprende i servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, mediante attrezzature elettroniche di trattamento e di memorizzazione e a richiesta individuale di un destinatario dei servizi stessi (art. 2, lett. a), della suddetta direttiva).

Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa.

Si distinguono, ai sensi del decreto in esame, tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa, a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità :

a) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14);

b) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15);

c) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16).

In relazione a tale ultima attività la giurisprudenza eurounitaria distingue due figure di hosting provider, e quindi:

A) quella di hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi;

B) quella di hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l’altro, l’attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa (cfr. sul punto, C.G.U.E. 7 agosto 2018, punti 47 e 48; nonché, anche, Cass. civ., Sez. I, 19 marzo 2019 n. 7708).

Nei precedenti sopra richiamati la Sezione ha già evidenziato come non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico. Esse, però, devono essere coordinate nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso.

Approfondendo il ruolo degli internet providers è opportuno riflettere sulla circostanza per la quale, se per un verso viene riconosciuta l’importanza di dette figure sia dal punto di vista economico (in quanto essi intermediano la maggior parte delle attività imprenditoriali che hanno luogo in rete) che dal punto di vista socio-culturale (perché essi consentono la circolazione e l’accesso all’informazione), per altro verso, da più parti si lamenta che gli illeciti telematici avvengano proprio in virtù dell’attività svolta dagli intermediari di internet, che devono dunque essere coinvolti nella responsabilità o almeno nelle operazioni di prevenzione e rimozione di tali illeciti.

Per quanto concerne, dunque, il regime delle responsabilità imputabili in capo agli internet service providers, tenuto conto della normativa attualmente in vigore nel nostro ordinamento (nazionale e unionale), la scelta operata dal legislatore europeo e, conseguentemente, nazionale è stata quella di affiancare alle normative già esistenti – vale a dire la disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c. e, più in generale, le ordinarie regole della responsabilità civile – alcune norme speciali, ad alto contenuto tecnico, sulla specifica responsabilità dei prestatori di servizi nella società dell’informazione.

Tali norme, secondo la prospettazione accolta anche dalla giurisprudenza civile (cfr., tra le molte, Cass. civ., Sez. I, 19 marzo 2019 n. 7708 e 7709), dettano il criterio di imputazione della responsabilità della colpa, che viene ad essere dotato di un contenuto di specificità, e, ad un tempo, conformato e graduato dalla legge, finendolo per calibrarlo con le specifiche caratteristiche che contraddistinguono le varie tipologie di attività professionale svolta dai prestatori dei servizi internet.

Secondo tale orientamento (pienamente condiviso dal Collegio), va esclusa la responsabilità in caso di mancata manipolazione dei dati memorizzati; in tale contesto si valorizza peraltro la varietà di elementi idonei a delineare la peculiare figura dell’hosting provider attivo, comprendente attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti pubblicati dagli utenti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione. Trattasi all’evidenza, anche dinanzi all’evoluzione tecnologica, di indici esemplificativi e che non debbono essere tutti compresenti. Ciò che rileva è che deve trattarsi, in ogni caso, di condotte che abbiano in sostanza l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti, il cui accertamento in concreto non può che essere rimesso al giudice di merito.

Quando tali caratteristiche non si rinvengono nell’attività del soggetto agente e dunque quest’ultima assume un carattere maggiormente “neutro”, ci si trova al cospetto della figura del c.d. hosting provider passivo.

7. – Chiariti, come sopra, i profili normativi più generali disciplinanti la figura riconnessa all’attività dell’hosting provider, occorre ora affrontare la questione più strettamente collegata alla vicenda qui in esame sia in punto di diritto che in punto di fatto.

Per come si è già più sopra accennato, nel caso di specie AGCOM, nell’indagare sull’attività svolta nell’arco temporale marzo-maggio 2019 con riferimento al sito (omissis), (in quanto numerose società operanti nel settore della vendita nel mercato primario di titoli ed eventi musicali nonché associazioni di categoria avevano denunciato comportamenti sleali e comunque illegittimi operati con riferimento a detto sito, indicando St. Inc. come autore di tali comportamenti) e, in particolare, concentrando la propria indagine su 35 episodi in occasione dei quali sul richiamato sito web erano stati messi in vendita titoli di accesso ad attività di spettacolo senza essere titolare dei sistemi per la loro emissione (quindi, ancor più chiaramente, erano stati messi in vendita sul sito web (omissis) biglietti ad un prezzo maggiorato rispetto al prezzo nominale dei medesimi biglietti messi in vendita sui siti di vendita primari autorizzati), ha individuato St. Inc. quale soggetto autore di comportamenti violativi dell’art. 1, comma 545, l. 11 dicembre 2016, n. 232, così come modificato dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145, il quale dispone che: “Al fine di contrastare e fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire pubblico, la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione è punita, salvo che il fatto non costituisca reato, con l’inibizione della condotta e con sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché, ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, secondo le modalità stabilite dal comma 546, con la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, con l’oscuramento del sito internet attraverso il quale la violazione è stata posta in essere, fatte salve le azioni risarcitorie. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di concerto con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, effettua i necessari accertamenti e interventi, agendo ovvero su segnalazione degli interessati e comminando, se del caso, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente comma. Non è comunque sanzionata la vendita ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da una persona fisica in modo occasionale, purché senza finalità commerciali”.

A fronte della surriprodotta disposizione normativa, AGCOM ha:

a) dedotto che le condotte illecite punibili ai sensi della normativa sono: 1) la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di biglietti effettuata da soggetto diverso dai titolari; 2) la vendita ad un prezzo superiore a quello nominale;

b) ritenuto che St. Inc. abbia violato il (surrichiamato) divieto di (ri)vendere biglietti (già emessi) a prezzi superiori rispetto al valore nominale del biglietto stesso.

Nello specifico, essendo utile riportare le conclusioni alle quali è giunta l’Autorità per come testualmente espresse nel provvedimento sanzionatorio impugnato, l’AGCOM ha affermato che all’esito dell’istruttoria svolta (con il contributo della Polizia postale e della Guardia di finanza) nei confronti dei comportamenti contestati a St. Inc.;

A) “Con riferimento alle contestazioni relative alla: 1) messa in vendita sul sito web di titoli di accesso ad attività di spettacolo senza essere titolare dei sistemi per la loro emissione (contestazione n. 1 di contestazione e accertamento 03/19/DSD) e alla 2) messa in vendita, attraverso il rimando dal social (omissis) al sito web della società, di biglietti per eventi ad un prezzo maggiorato rispetto al prezzo nominale dei medesimi biglietti messi in vendita sui siti di vendita primari autorizzati (contestazione n. 37 di contestazione e accertamento 03/19/DSD), si ritiene che esse non debbano essere presi in considerazione a fini della sanzione. Da un lato, infatti, il punto 1 della contestazione, relativo alla messa in vendita di titoli di accesso senza essere titolare di sistemi per la loro emissione è uno degli elementi costitutivi delle condotte contestate di cui ai successivi punti da 2 a 36. sul punto 37 della contestazione si ritiene che la promozione sul social network (omissis) non sia autonomamente sanzionabile, ma sia piuttosto un elemento suscettibile di incidere sulla gravità della lesione per il fatto di amplificare la diffusione delle proposte di vendita”:

B) “Diversamente, si è accertata la sussistenza delle violazioni relative alla messa in vendita, a prezzi maggiorati rispetto al prezzo nominale dei medesimi biglietti messi in vendita sui siti di vendita primari autorizzati, e dunque in violazione di legge, dei biglietti relativi ai 35 eventi di diversi artisti, così come riportati ai punti 2-36 di contestazione e accertamento 3/19/DSD e indicati al paragrafo 1 del presente provvedimento”.

In disparte le conclusioni alle quali è giunta l’Autorità con riguardo alla individuazione del tipo di sanzione inflitta e dell’entità della somma oggetto dell’ingiunzione di pagamento, profili entrambi del provvedimento sanzionatorio impugnati contestati, quanto alla loro legittimità, da parte della società appellante, il Collegio deve preliminarmente e pregiudizialmente (come è anche ovvio) sciogliere i nodi contestativi mossi dalla società appellante circa la legittimità della contestazione nella sua essenza e, in particolare, sotto due principali aspetti (così sintetizzando al massimo l’arco contestativo proposto dall’appellante), peraltro già suggeriti all’Autorità da St. Inc. nel corso dell’istruttoria:

1) la carenza di legittimazione passiva si St. Inc., non essendo a lei riferibile la titolarità e la gestione del sito subhub.it, essendole invece riferibile il diverso sito subhub.com, non coinvolto nell’indagine dell’Autorità né protagonista di comportamenti violativi della normativa di settore;

2) il ruolo effettivamente riferibile a St. Inc. (o dell’effettivo soggetto gestore del sito web subhub.it) nelle attività oggetto di indagine e l’essenza dell’attività svolta nella realizzazione dei comportamenti contestati, non riconducibile ai comportamenti ritenuti sanzionabili, ai sensi dell’art. 1, comma 545, l. 232/2016, da AGCOM.

8. – Quanto alla prima delle due traiettorie contestative sviluppate dall’appellante e come sopra sintetizzate, deve segnalarsi che St. Inc. ribadisce con forza (anche in questo secondo grado di giudizio) che l’Autorità, pur essendole stato rappresentato nel corso del procedimento sanzionatorio la sua estraneità alla titolarità del sito internet (omissis), in quanto “St. Inc. gestisce il sito (omissis) e non il sito (omissis) (gestito da eB. Ma. GmbH) e, che il sito oggetto di contestazione (omissis) è un dominio di primo livello ed è completamente separato e distinto dal sito (omissis). I due siti hanno infatti una home page diversa e sono soggetti a regole diverse e ovviamente sono gestiti da società diverse (eB. Ma. Gmbh per (omissis) e St. Inc. per (omissis))” (così, testualmente, al punto 3.1, pag. 15, del provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado), ha erroneamente ritenuto di attribuirle la responsabilità della violazione contestata.

Nello specifico l’Autorità ha chiarito nel corpo dell’ordinanza ingiunzione che le contestazioni sollevate da St. Inc. in merito al difetto di legittimazione passiva non avevano fondamento per le seguenti plurime ragioni (riprese testualmente, per la più parte, dalle pagg. 16-18 dell’ordinanza ingiunzione):

– “la notifica alla Società St. Inc. è stata effettuata a seguito di puntuali verifiche effettuate dalla Guardia di finanza la quale, sulla base di specifiche banche dati, ha individuato St. Inc. come la società destinataria di contestazione 3/19/DSD”;

– “Anche la Polizia postale, nella sua Relazione, ha confermato il corretto riferimento alla società St. Inc., fornendo importanti elementi tecnici a supporto di tale posizione. Innanzitutto, la Polizia postale ha rilevato che 1) le home page dei siti web (omissis) e (omissis) sono identiche (…), fatta eccezione per la lingua italiana utilizzata su (omissis); 2) i due siti non sono distinti ma, al contrario, esiste una chiara ed evidente correlazione dell’uno rispetto all’altro 3) i due siti non utilizzano piattaforme diverse (…) e dunque non sono soggetti a regole tecniche diverse, in quanto verosimilmente attingono le informazioni web (contenuti multimediali come ad esempio la categorizzazione degli eventi) dagli stessi server (…). Ancora, nella Relazione si legge che nessun sito web nella rete Internet può avere uno stesso nome a dominio (St.) e contestualmente gli stessi contenuti, le stesse grafiche, gli stessi servizi, fatta eccezione per i siti facenti capo ad una stessa entità . Solo in tal caso è possibile avere lo stesso nome a dominio (St.) anche se con domini di primo livello differenti ((omissis) e (omissis))”

– “D’altronde, se come ritenuto dalla Società fossimo davvero in una situazione in cui due siti con lo stesso nome a dominio di secondo livello (St.), ma con differenti domini di primo livello ((omissis) e (omissis)), fossero gestiti da società completamente estranee tra di loro, saremmo verosimilmente in presenza di una violazione del diritto da parte di uno dei due siti web nei confronti dell’altro (grafiche, contenuti, tipologia di servizio identiche in due siti gestiti da società diverse), essendo i nomi a dominio e i rispettivi domini di primo livello, marchi registrati”;

– “La Polizia postale precisa che l’ID (identificativo Fa.) è univoco per ogni pagina di Fa., il che equivale a dire che se fossero stati due siti web diversi o comunque soggetti a regole diverse, avrebbero dovuto avere necessariamente un ID Fa. diverso (enfasi aggiunta). Infine, si evidenzia che anche il St. viene caricato sulle home page dei due siti attraverso un unico URL”;

– la “Società St. Inc. (…), durante tutto il procedimento, ha prodotto la memoria e risposto alle richieste fornendo dettagli specifici sulle attività e dati quantitativi (inclusi dati finanziari ed economici) relativi alle attività contestate e poste in essere su (omissis), inclusi i numeri delle transazioni e i valori delle commissioni incassate per la vendita di biglietti relativi agli eventi contestati con atto 3/19/DSD. È del tutto evidente che se la Società fosse stata estranea alla gestione del sito in questione non avrebbe avuto accesso a simili informazioni”.

Pare al Collegio che, nonostante gli approfondimenti istruttori diligentemente svolti dall’Autorità tramite la Polizia postale e la Guardia di finanza, l’AGCOM nella motivazione del provvedimento sanzionatorio (nella parte dello stesso dedicata ad esprimere le ragioni che militavano per la reiezione delle contestazioni opposte nel corso del procedimento da St. Inc.) non sia stata in grado di fornire una dimostrazione inconfutabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, circa la riconducibilità alla odierna appellante della proprietà e, soprattutto, della gestione della piattaforma internet ((omissis)) grazie alla quale sarebbero state commesse le violazioni contestate.

In particolare, pare al Collegio, che gli esiti istruttori si siano compendiati in supposizioni e ipotesi (accompagnate addirittura, in alcuni casi, dall’incerta – sotto il profilo probatorio – espressione “verosimiglianza”) che al massimo possono costituire indizi della sovrapponibilità delle due piattaforme internet in questione ((omissis) e (omissis)) e soprattutto circa la loro riconducibilità ad un unico soggetto decisionale (e gestorio), ma non raggiungere quel grado di inoppugnabile certezza che richiede l’imputabilità di un comportamento illecito dal quale discende un intervento sanzionatorio (peraltro rilevante, sia sotto il profilo dell’immagine che sotto il profilo – prettamente – delle conseguenze economiche).

L’appellante ribadisce, invece, a dimostrazione della propria estraneità alla vicenda contestata, la non riferibilità (ad essa) della figura di domain administrator, che costituirebbe la prova principe della legittimazione passiva sussistente in capo a St. Inc. (poiché essa “alla data dei fatti contestati risultava essere il “domain administrator” del dominio (omissis) presso il (omissis)”, così nel provvedimento impugnato), per il tramite dei seguenti non indifferenti elementi:

– attraverso uno screenshot riproducente i “contatti tecnici” del sito internet subhub.it si può leggere che, all’epoca dei fatti contestati, il domain administrator era eB. Inc.;

– nell’atto di Accordo generale con gli utenti (depositato nel corso del giudizio di primo grado), è indicato come soggetto titolare del rapporto contrattuale con i venditori e acquirenti italiani per l’utilizzo della piattaforma (omissis) la Ti. S.L., mentre per St. Inc. è ritagliata la competenza relativamente (e soltanto) per gli eventi riferiti agli Stati Uniti;

– nell’informativa sulla “privacy” per gli utenti, è indicata Ti. S.L. quale titolare del trattamento dei dati;

– nella pagina internet che ospita le “Informazioni su St.”, è indicato nella eB. Ma. GmbH il soggetto deputato a fissare le regole di funzionamento della piattaforma internet (omissis).

Orbene, ad avviso del Collegio, tali elementi (portati dall’appellante a sostegno della tesi relativa alla propria carenza di legittimazione in ordine all’avvio e alla conclusione della procedura sanzionatoria) meritavano ulteriori approfondimenti e comunque imponevano specifiche espressioni di insufficienza, per dimostrare infondata la tesi della carenza di legittimazione passiva propugnata da St. Inc., da parte dell’Autorità nel provvedimento sanzionatorio, attesa la rilevanza delle conseguenze che sarebbero derivate dalla individuazione della predetta società (in termini di immagine e in termini di sofferenza economica), quale responsabile del comportamento illecito contestato.

Ritiene dunque il Collegio che, dagli atti prodotti in entrambi i gradi di giudizio dalle parti controvertenti, non emerge nitida, come avrebbe dovuto correttamente avvenire, la posizione di St. Inc. quale legittimato passivo dell’esercizio del potere di vigilanza e sanzionatorio espresso nella specie da AGCOM.

9. – Ma quel che si presenta, ad avviso del Collegio, più evidente all’esito dello scrutinio sulla res controversa è la insussistenza del comportamento illecito, laddove si vogliano applicare le norme nazionali disciplinanti la materia in una proiezione interpretativa maggiormente aderente alla disciplina unionale e alla interpretazione che di essa, anche in epoca recente, a mostrato di voler fare propria la Corte di giustizia UE (nello specifico attraverso la sentenza della Grande Sezione, 22 giugno 2021, espressa nelle cause riunite C682/18 e C683/18).

E’ proprio la Corte di giustizia UE, nella appena citata sentenza del 22 giugno 2021, a tracciare (come segue) il quadro delle disposizioni del diritto unionale qui rilevanti (e, in particolare, le norme recate dalla direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, c.d. direttiva sul diritto d’autore e dalla direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno, c.d. direttiva sul commercio elettronico), in quanto plasticamente applicabili alla vicenda che sottende la controversia qui in esame:

– se è vero che il considerando 59 della direttiva sul diritto d’autore stabilisce che “In particolare in ambito digitale, i servizi degli intermediari possono essere sempre più utilizzati da terzi per attività illecite. In molti casi siffatti intermediari sono i più idonei a porre fine a dette attività illecite. Pertanto fatte salve le altre sanzioni e i mezzi di tutela a disposizione, i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di chiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti. Questa possibilità dovrebbe essere disponibile anche ove gli atti svolti dall’intermediario siano soggetti a eccezione ai sensi dell’articolo 5. Le condizioni e modalità relative a tale provvedimento ingiuntivo dovrebbero essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri”;

– e, di conseguenza, l’art. 3 della surrichiamata direttiva prevede che “Gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente” e i successivo art. 8 puntualizza che “1. Gli Stati membri prevedono adeguate sanzioni e mezzi di ricorso contro le violazioni dei diritti e degli obblighi contemplati nella presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie a garantire l’applicazione delle sanzioni e l’utilizzazione dei mezzi di ricorso. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive. 2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie a garantire che i titolari dei diritti i cui interessi siano stati danneggiati da una violazione effettuata sul suo territorio possano intentare un’azione per danni e/o chiedere un provvedimento inibitorio e, se del caso, il sequestro del materiale all’origine della violazione, nonché delle attrezzature, prodotti o componenti di cui all’articolo 6, paragrafo 2. 3. Gli Stati membri si assicurano che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi”;

– è altrettanto vero che, la direttiva sul commercio elettronico, in qualche modo temperando e calibrando le conseguenze derivanti dalle previsioni dei considerando recati dalla direttiva sul diritto d’autore, puntualizza che: a) (considerando 41) “La direttiva rappresenta un equilibrio tra i vari interessi in gioco e istituisce principi su cui possono essere basati gli accordi e gli standard delle imprese del settore”; b) (considerando 42) “Le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”; c) (considerando 43) “Un prestatore può beneficiare delle deroghe previste per il semplice trasporto (“mere conduit”) e per la memorizzazione temporanea detta “caching” se non è in alcun modo coinvolto nell’informazione trasmessa. A tal fine è, tra l’altro, necessario che egli non modifichi l’informazione che trasmette. Tale requisito non pregiudica le manipolazioni di carattere tecnico effettuate nel corso della trasmissione in quanto esse non alterano l’integrità dell’informazione contenuta nella trasmissione”; d) (considerando 44) “Il prestatore che deliberatamente collabori con un destinatario del suo servizio al fine di commettere atti illeciti non si limita alle attività di semplice trasporto (“mere conduit”) e di “caching” e non può pertanto beneficiare delle deroghe in materia di responsabilità previste per tali attività “; e) (considerando 45) “Le limitazioni alla responsabilità dei prestatori intermedi previste nella presente direttiva lasciano impregiudicata la possibilità di azioni inibitorie di altro tipo. Siffatte azioni inibitorie possono, in particolare, essere ordinanze di organi giurisdizionali o autorità amministrative che obbligano a porre fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell’informazione illecita o la disabilitazione dell’accesso alla medesima”; f) (considerando 46) “Per godere di una limitazione della responsabilità, il prestatore di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni deve agire immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitare l’accesso alle medesime non appena sia informato o si renda conto delle attività illecite. La rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime devono essere effettuate nel rispetto del principio della libertà di espressione e delle procedure all’uopo previste a livello nazionale. La presente direttiva non pregiudica la possibilità per gli Stati membri di stabilire obblighi specifici da soddisfare sollecitamente prima della rimozione delle informazioni o della disabilitazione dell’accesso alle medesime. (…)”; g) (considerando 48) “La presente direttiva non pregiudica la possibilità per gli Stati membri di chiedere ai prestatori di servizi, che detengono informazioni fornite dai destinatari del loro servizio, di adempiere al dovere di diligenza che è ragionevole attendersi da loro ed è previsto dal diritto nazionale, al fine di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite. (…)”.

A fronte delle surriprodotte premesse normative l’art. 14 della direttiva sul commercio elettronico, occupandosi partitamente della figura dell’hosting, dispone che:

– “1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”;

– “2. Il paragrafo 1 non si applica se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore”;

– “3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca una violazione o vi ponga fine nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime”.

Il successivo art. 15 stabilisce poi che: “Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”.

10. – In occasione della sentenza della Corte di giustizia UE del 2021, sopra citata, nel fare applicazione del suindicato quadro normativo, al fine di verificare la compatibilità di una norma tedesca con le norme del diritto unionale, la Corte ha scolpito alcuni principi utili ad indirizzare l’interprete (nella specie il giudice di un Paese membro) nella lettura correttamente orientata della norma interna di settore con le previsioni recate dal diritto eurounitario di riferimento.

In particolare (e per quanto strettamente interessa il caso di specie) la Corte UE ha chiarito che:

– dai considerando 3 e 31 della direttiva sul diritto d’autore risulta che l’armonizzazione da questa effettuata è intesa a garantire, in particolare nell’ambiente elettronico, un giusto equilibrio tra, da un lato, l’interesse dei titolari dei diritti d’autore e dei diritti connessi alla protezione del loro diritto di proprietà intellettuale, garantita dall’articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, dall’altro, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utenti dei materiali protetti, segnatamente della loro libertà di espressione e d’informazione, garantita dall’articolo 11 della Carta, nonché dell’interesse generale (cfr. sentenze dell’8 settembre 2016, GS Media, C160/15, punto 31, e del 29 luglio 2019, Pelham e a., C476/17, punto 32 e giurisprudenza ivi citata);

– ne consegue che, ai fini dell’interpretazione e dell’applicazione della direttiva sul diritto d’autore, e in particolare del suo articolo 3, paragrafo 1, tale giusto equilibrio deve essere ricercato, tenendo conto anche della particolare importanza di internet per la libertà di espressione e d’informazione, garantita dall’articolo 11 della Carta (cfr., in tal senso, sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media, C160/15, punto 45)

– va poi riferito che, come la Corte UE ha più volte dichiarato, la nozione di “comunicazione al pubblico”, ai sensi di detto articolo 3, paragrafo 1, combina due elementi cumulativi, ossia un atto di comunicazione di un’opera e la comunicazione di quest’ultima a un pubblico, e implica una valutazione individualizzata (cfr. sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C392/19, punti 29 e 33 e giurisprudenza ivi citata). Ai fini di una tale valutazione è necessario tener conto di svariati criteri complementari, di natura non autonoma e interdipendenti fra loro. Poiché tali criteri possono essere presenti, nelle diverse situazioni concrete con intensità molto variabile, occorre applicarli sia individualmente sia nella loro reciproca interazione (così nella sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C392/19, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). Tra tali criteri la Corte ha, da un lato, messo in evidenza il ruolo imprescindibile del gestore della piattaforma e il carattere intenzionale del suo intervento. Esso realizza infatti un “atto di comunicazione” quando interviene, con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento, per dare ai suoi clienti accesso a un’opera protetta, in particolare quando, in mancanza di detto intervento, tali clienti non potrebbero, in linea di principio, fruire dell’opera diffusa (cfr., in tal senso, sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C610/15, punto 26 e giurisprudenza ivi citata);

– a questo punto deve specificarsi che il gestore di una piattaforma internet (con le caratteristiche riconducibili – anche – alla vicenda qui in esame, con esplicito riferimento ad una piattaforma di hosting) svolge – indubbiamente – un ruolo imprescindibile nella messa a disposizione di contenuti potenzialmente illeciti effettuata dai suoi utenti in tanto che, senza la fornitura e la gestione di una siffatta piattaforma, la libera condivisione su internet di tali contenuti sarebbe impossibile o, quantomeno, più complessa (cfr., in argomento, la sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C610/15, punti 36 e 37). Nondimeno, come emerge da numerosi precedenti giurisprudenziali della Corte di giustizia UE (cfr., ad esempio, la sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C392/19, cit. e la sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C610/15, cit.), il carattere imprescindibile del ruolo svolto dal gestore di una piattaforma di condivisione di una piattaforma di hosting e di condivisione di file non è l’unico criterio di cui occorre tener conto nell’ambito della valutazione individualizzata da compiere, ma deve, al contrario, essere applicato in combinazione con altri criteri, in particolare quello del carattere intenzionale dell’intervento del suddetto gestore. Infatti, ove la mera circostanza che l’utilizzo di una piattaforma sia necessario affinché il pubblico possa effettivamente fruire dell’opera, oppure che esso agevoli soltanto tale fruizione, conducesse automaticamente a qualificare l’intervento del gestore di detta piattaforma come “atto di comunicazione”, qualsiasi “fornitura di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione” costituirebbe un atto del genere, il che è tuttavia escluso espressamente dal considerando 27 della direttiva sul diritto d’autore, il quale riprende, in sostanza, la dichiarazione comune in merito all’articolo 8 del TDA”;

– pertanto, è alla luce tanto della rilevanza del ruolo che un intervento siffatto del gestore di una piattaforma svolge nella comunicazione effettuata dall’utente della medesima, quanto del carattere intenzionale di tale intervento che occorre valutare se, tenuto conto del contesto specifico, detto intervento debba essere qualificato come “atto di comunicazione”;

– conseguentemente, al fine di stabilire se il gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file intervenga nella comunicazione illecita di contenuti protetti, effettuata da utenti della sua piattaforma, con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento per dare agli altri internauti accesso a siffatti contenuti, occorre tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione di cui è causa e che consentono di trarre, direttamente o indirettamente, conclusioni sul carattere intenzionale o meno del suo intervento nella comunicazione illecita di detti contenuti;

– costituiscono, a tal riguardo, elementi pertinenti, in particolare: a) il fatto che il suddetto gestore, anche se sa o dovrebbe sapere che, in generale, contenuti protetti sono illecitamente messi a disposizione del pubblico tramite la propria piattaforma da utenti di quest’ultima, si astenga dal mettere in atto le opportune misure tecniche che ci si può attendere da un operatore normalmente diligente nella sua situazione per contrastare in modo credibile ed efficace violazioni del diritto d’autore su tale piattaforma; b) il fatto che detto operatore partecipi alla selezione di contenuti protetti comunicati illecitamente al pubblico; c) che esso fornisca sulla propria piattaforma strumenti specificamente destinati alla condivisione illecita di siffatti contenuti o che promuova scientemente condivisioni del genere (il che può essere attestato dalla circostanza che il suddetto gestore ha adottato un modello economico che induce gli utenti della sua piattaforma a procedere illecitamente alla comunicazione al pubblico di contenuti protetti sulla medesima);

– per contro, la mera circostanza che il gestore sia al corrente, in via generale, della disponibilità illecita di contenuti protetti sulla sua piattaforma non è sufficiente per ritenere che esso intervenga allo scopo di dare agli internauti l’accesso a tali contenuti. La situazione è tuttavia diversa nel caso in cui tale gestore, seppur informato dal titolare dei diritti del fatto che un contenuto protetto è illecitamente comunicato al pubblico tramite la propria piattaforma, si astenga dall’adottare immediatamente le misure necessarie per rendere inaccessibile tale contenuto;

– inoltre, il semplice fatto che il gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file persegua un fine di lucro non consente né di constatare il carattere intenzionale del suo intervento nella comunicazione illecita di contenuti protetti, effettuata da taluni suoi utenti, né di presumere un carattere siffatto. Invero, il fatto di fornire servizi della società dell’informazione a scopo di lucro non significa affatto che il fornitore di siffatti servizi acconsenta a che questi ultimi siano utilizzati da terzi per violare il diritto d’autore. A tal riguardo, in particolare dall’impianto sistematico dell’articolo 8 della direttiva sul diritto d’autore, segnatamente dal paragrafo 3 del medesimo, in combinato disposto con il considerando 27 di detta direttiva risulta che non si può presumere che meri fornitori di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o effettuare una comunicazione e altri intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare il diritto d’autore compiano essi stessi un atto di comunicazione al pubblico, benché essi agiscono, in generale, a scopo di lucro (cfr., in argomento, la sentenza dell’8 settembre 2016, GS Mediam nella causa C160/15).

11. – Chiarito tutto quanto sopra (per come riportato) la Corte di giustizia UE (nella pronuncia qui ampiamente richiamata) si è poi diretta ad approfondire la specifica tematica (di fondamentale rilievo per la definizione del contenzioso qui in esame per quanto concerne il profilo dell’hosting provider) avente ad oggetto i presupposti e le modalità di accertamento della responsabilità rimessa (in capo) al gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file e quindi la individuazione delle ipotesi al ricorrere delle quali costui possa essere esonerato, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sul commercio elettronico, dalla (sua) responsabilità per i contenuti protetti che utenti comunicano illecitamente al pubblico tramite la sua piattaforma.

Preliminarmente la Corte osserva come sia necessario, preventivamente, esaminare se il ruolo svolto da tale gestore sia neutro, vale a dire se il suo comportamento sia meramente tecnico, automatico e passivo, che implica la mancanza di conoscenza o di controllo dei contenuti che memorizza, o se, al contrario, detto gestore svolga un ruolo attivo idoneo a conferirgli una conoscenza o un controllo dei suddetti contenuti (cfr., quale precedente di riferimento, la sentenza del 12 luglio 2011, L’Oré al e a., C324/09, punto 113 e la giurisprudenza ivi citata).

In secondo luogo, ad opinione della Corte, va aggiunto che non può – in via generale – escludersi che la condizione di esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sul commercio elettronico, sia soddisfatta per il solo motivo che il suddetto gestore sia consapevole del fatto che la sua piattaforma sia utilizzata anche per condividere contenuti che possono violare diritti di proprietà intellettuale e che esso è quindi astrattamente al corrente della messa a disposizione illecita di contenuti protetti sulla sua piattaforma. Infatti, dal tenore letterale, dall’obiettivo e dall’impianto sistematico dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sul commercio elettronico nonché dal contesto generale in cui esso si inserisce, emerge che le ipotesi contemplate da tale articolo 14, paragrafo 1, lettera a), ossia quella in cui il prestatore dei servizi di cui trattasi sia “effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita” e quella in cui un siffatto prestatore sia “al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione”, si riferiscono ad attività e informazioni illecite concrete sicché, perché la condizione di esonero non possa trovare applicazione, occorre che il carattere illecito dell’attività o dell’informazione risulti da una conoscenza effettiva oppure deve essere manifesto, vale a dire che esso deve essere concretamente dimostrato o facilmente identificabile.

A tal proposito, prosegue la Corte, occorre rilevare che l’articolo 14, paragrafo 1, costituisce, come emerge dai considerando 41 e 46 di detta direttiva, l’espressione dell’equilibrio che la medesima mira a instaurare tra i vari interessi in gioco, tra i quali figura il rispetto della libertà di espressione, garantito dall’articolo 11 della Carta. Pertanto, da un lato, ai prestatori dei servizi di cui trattasi non può, conformemente all’articolo 15, paragrafo 1, della suddetta direttiva, essere imposto un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Dall’altro lato, in applicazione dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva sul commercio elettronico, detti prestatori, non appena siano effettivamente al corrente di un’informazione illecita, devono agire immediatamente per rimuovere tale informazione o per disabilitare l’accesso ad essa, nel rispetto del principio della libertà di espressione. D’altronde è solo con riferimento a contenuti concreti che un siffatto prestatore può adempiere detto obbligo.

In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, l’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sul commercio elettronico deve essere interpretato nel senso che per essere escluso, in forza di tale disposizione, dal beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto da detto articolo 14, paragrafo 1, il gestore della piattaforma deve essere al corrente degli atti illeciti concreti dei suoi utenti relativi a contenuti protetti che sono stati caricati sulla sua piattaforma.

12. – Quanto alle (qui) controverse figure (e configurazioni) riferibili alle diverse attività di hosting provider attivo e passivo la Sezione (come si è riferito precedentemente nell’ambito della motivazione di questa sentenza e che qui si richiama solo per comodità espositiva) è già intervenuta in materia con orientamento condiviso dal Collegio (cfr., in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3851/2021, cit. nonché Sez. VI, 17 febbraio 2020 n. 1217 e, prima ancora, Sez. VI, 25 giugno 2019 n. 4359), tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia UE (riferibile all’epoca ma che, per tutta evidenza, trova puntuale conferma nella decisione del 22 giugno 2021 sopra ampiamente richiamata) e quindi ha (già ) avuto modo di chiarire che:

– la giurisprudenza unionale distingue due figure di hosting provider: a) quella dell’hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi; b) quella di hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l’altro, l’attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa (cfr. Corte giust. UE, 7 agosto 2018, cit. nonché, in ambito nazionale, Cass. civ., Sez. I, n. 7708/2019, cit-);

– fermo quanto sopra, la Sezione ha già evidenziato come non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico;

– esse, però, devono essere coordinate nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso.

Ebbene, nel caso in esame, tenuto conto di quanto è emerso nel corso dell’istruttoria procedimentale che ha condotto all’adozione dell’ordinanza ingiunzione impugnata in primo grado e in virtù di quel che si legge nella motivazione di tale ultimo provvedimento, si presenta oggettivamente molto debole (ad avviso del Collegio) la considerazione dell’attività del gestore della piattaforma internet subhub.it quale provider attivo (secondo i parametri normativi sopra delineati e cristallizzati sia nella interpretazione della giurisprudenza unionale che in quella nazionale).

In particolare emergono alcuni dubbi sulla configurazione dell’attività svolta dal predetto gestore in termini non neutri, ma attivi (come ha ritenuto l’Autorità ) in quanto:

– l’appellante ha sostenuto che l’attività del gestore della suddetta piattaforma si compendia: a) nell’ospitare gli annunci inseriti dagli utenti, senza modificarli e, comunque, senza venderli; b) e quindi, quale hosting provider passivo “non è tenuto a pubblicare e controllare (…) senza mutare la stessa natura dell’attività imprenditoriale svolta”, il valore nominale (prezzo originario) dei biglietti messi in vendita dagli utenti” (così, testualmente, a pag. 9 della memoria conclusiva)

– al contrario l’Autorità ha ritenuto di rinvenire nel gestore della piattaforma (oltre a quanto già in precedenza riferito nell’ambito della presente sentenza) le attività proprie dell’hosting provider attivo, perché : a) svolge un complesso di attività di ottimizzazione e di promozione delle offerte di vendita dei biglietti per eventi, durante il processo di vendita realizzato da coloro che pongono in vendita tali biglietti; b) la piattaforma incassa una commissione su ciascuna vendita e, dal momento che essa è calcolata in percentuale sul prezzo finale, il gestore della piattaforma ha tutto l’interesse a far convergere acquirenti e venditori su prezzi di vendita inflazionati o comunque superiori al prezzo nominale del titolo, in modo da massimizzare il ricavo unitario incassato dalla piattaforma su ciascuna vendita conclusa; c) fornisce supporto agli utenti con diverse modalità (email, modulo di contatto online, chat e, in modalità outbound, via telefono). Inoltre, per garantire il buon esito della transazione, è previsto un sistema di fornitura di biglietti sostitutivi/rimborso/credito utilizzabile per un futuro acquisto nel caso in cui i biglietti acquistati non siano consegnati in tempo, non siano validi per l’ingresso o siano diversi da quelli acquistati. Se l’evento viene anticipato o posticipato, viene offerta la possibilità di rimborso in favore dell’utente; d) le somme versate dagli utenti acquirenti non sono trasferite agli utenti venditori al momento della vendita del biglietto ma sono trattenute su un conto dedicato al gestore della piattaforma.

Appare evidente da quanto sopra che l’Autorità, all’esito dell’istruttoria svolta, ha disegnato un profilo di hosting provider attivo decisamente lontano da quello descritto dalla giurisprudenza unionale e da quella nazionale, accompagnando l’utilizzo di tale nozione con una serie di elementi che non configurano un ruolo attivo nella transazione commerciale ma, semmai agevolativo con servizi “di contorno” (o ancillari), sicuramente utili ma non decisivi nella realizzazione della singola transazione commerciale.

Ma quel che qui maggiormente rileva è la circostanza che non è affatto dimostrato che il gestore della piattaforma, nella specie, fosse a conoscenza del comportamento illecito dell’utente venditore, né che da tale comportamento detto gestore abbia consapevolmente voluto trarre vantaggio, elementi entrambi indispensabili per poter configurare la fattispecie di punibilità, per come ha chiarito la Corte di giustizia UE nella sentenza del giugno 2021 (della quale sopra si è ampiamente detto) e quindi per poter escludere l’applicabilità della esenzione di cui all’art. 14 della direttiva sul commercio elettronico. In altri termini, nel caso di specie, non si rinvengono tutti i presupposti previsti dalla normativa unionale per poter procedere a sanzionare il gestore della piattaforma.

Né può interpretarsi la normativa nazionale in modo non armonizzato rispetto a quella unionale e, soprattutto, non tenendo conto dei criteri applicativi delle disposizioni che sono state dettate in materia (ci si riferisce, in particolare, alle già e più volte richiamate direttive 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, c.d. direttiva sul diritto d’autore e 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno, c.d. direttiva sul commercio elettronico) per come indicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, non soltanto dalla pronuncia del 2021, ma anche dai numerosi precedenti in quella sentenza richiamati.

13. – Se l’Autorità ha voluto richiamare espressamente nel provvedimento sanzionatorio la previsione recata dall’art. 1, comma 545 l. 145/2018, nella parte in cui, modificando la l. 232/2016, ha disposto che la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione sia “punita, salvo che il fatto non costituisca reato, con l’inibizione della condotta e con sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché, ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, secondo le modalità stabilite dal comma 546, con la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, con l’oscuramento del sito internet attraverso il quale la violazione è stata posta in essere, fatte salve le azioni risarcitorie (…)”, essa però non poteva farne attuazione non tenendo conto dei parametri di applicazione della norma nazionale per come doverosamente interpretata in senso eurounitariamente orientato.

Ne deriva, dunque, che appare debole e incompleta l’affermazione dell’Autorità (sempre espressa nel provvedimento sanzionatorio impugnato) che vuole assegnare alla norma nazionale surrichiamata la funzione di vietare: “1) la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di biglietti effettuata da soggetto diverso dai titolari; 2) la vendita ad un prezzo superiore a quello nominale” (così al punto 3, pag. 14 del provvedimento sanzionatorio).

Se tali comportamenti sono censurati dalla normativa nozionale, essi però possono essere puniti solo se e nella misura in cui (in applicazione dell’interpretazione della normativa eurounitaria) l’hosting provider non solo ospiti le proposte di vendita (nella specie, di biglietti) sulla piattaforma da esso gestita ma si adoperi anche in modo da controllare (effettivamente ed efficacemente) l’attività di vendita, financo manipolando i dati forniti dagli utenti (e, in particolare, il valore nominale dei biglietti), acquisisca la proprietà e comunque entri in (giuridico) possesso del prodotto da vendere (i biglietti degli utenti venditori) e sia, conclusivamente (dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il gestore della piattaforma), a perfetta conoscenza dell’illecito che viene perpetrato dall’utente venditore (mettendo in vendita biglietti ad un prezzo maggiorato rispetto a quello di vendita da parte dell’entità originariamente autorizzata alla vendita) senza intervenire in alcun modo per evitarlo. Tali circostanze non si sono verificate con riguardo al caso in esame, atteso che l’Autorità non ha contestato che il comportamento del gestore della piattaforma (omissis) fosse caratterizzato anche dai seguenti comportamenti (invero contrastanti con il quadro impeditivo all’applicazione dell’esenzione sulla responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva sul commercio elettronico, per come interpretato dalla Corte di giustizia UE nella sentenza del 2021): a) pubblicizzazione sulle proprie pagine web dei singoli eventi al fine di facilitare l’incontro tra domanda ed offerta tra gli utenti venditori; b) messa in opera di un software automatico attraverso il quale fosse possibile indicare all’utente venditore, quali fossero i dati di interesse disponibili e il prezzo medio a cui i biglietti per lo stesso evento erano offerti dagli altri utenti; c) la messa in campo di una attività di intermediazione nel pagamento consistente nel trattenere il prezzo del biglietto versato dall’utente acquirente all’utente venditore fino a quando il biglietto sarebbe stato consegnato all’acquirente, al dichiarato scopo di tutelare quest’ultimo da eventuali frodi.

14. – Tutte le caratteristiche del fatto qui in esame come sopra descritte e la corretta lettura della norma nazionale alla quale l’Autorità intendeva dare applicazione (in una interpretazione eurounitariamente orientata) costituiscono elementi che militano per l’accoglimento dell’appello, la riforma della sentenza di primo grado e l’annullamento del provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti dell’appellante.

La pregiudiziale eurounitaria e le questioni di costituzionalità proposte dalla parte appellante possono, di conseguenza, non essere scrutinate, stante il sopra rappresentato esito della controversia, per mancanza di specifico rilievo nel presente contenzioso.

15. – In ragione delle suesposte osservazioni, si presentano fondati i motivi di appello dedotti, di talché va accolto l’appello proposto e va dunque riformata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. III-ter, 14 aprile 2021 n. 4335, con l’accoglimento del ricorso presentato in primo grado (n. R.g. 4883/2020) ed il conseguente annullamento del provvedimento AGCOM di cui alla delibera 120/20/CONS del 16 marzo 2020.

Va precisato che la presente decisione è stata assunta tenendo conto dell’ormai consolidato “principio della ragione più liquida”, corollario del principio di economia processuale (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015 n. 5 nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014 n. 26242), che ha consentito di derogare all’ordine logico di esame delle questioni e tenuto conto che le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663 e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021 n. 6209 e 18 luglio 2016 n. 3176), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

In applicazione del principio della soccombenza processuale, di cui all’art. 91 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a., l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni va condannata a rifondere le spese del doppio grado di giudizio in favore di St. Inc., nella misura complessiva di Euro 10.000,00 (euro diecimila/00), oltre accessori come per legge. Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi con riferimento alle altre parti intimate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, sull’appello indicato in epigrafe (n. R.g. 5712/2021), lo accoglie e, per l’effetto, riforma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. III-ter, 14 aprile 2021 n. 4335, accogliendo il ricorso presentato in primo grado (n. R.g. 4883/2020) e annulla il provvedimento AGCOM di cui alla delibera 120/20/CONS del 16 marzo 2020.

Condanna l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in persona del rappresentante legale pro tempore, a rifondere le spese del doppio grado di giudizio in favore di St. Inc., in persona del rappresentante legale pro tempore, nella misura complessiva di Euro 10.000,00 (euro diecimila/00), oltre accessori come per legge.

Spese del doppio grado di giudizio compensate con riferimento alle altre parti processuali.

Ordina che la sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Sergio De Felice – Presidente

Oreste Mario Caputo – Consigliere

Dario Simeoli – Consigliere

Stefano Toschei – Consigliere, Estensore

Davide Ponte – Consigliere

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Avv. Umberto Davide

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