il danno da perdita del rapporto parentale come quel danno che va oltre il crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, nel non potere più fare ciò che per anni si faceva e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti familiari. Il suddetto danno consiste: in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell’interesse protetto.

 

Tribunale Cassino, civile Sentenza 5 settembre 2018, n. 966

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI CASSINO

SEZIONE CIVILE

in persona del G.O.T., dr. Claudio Fassari, in funzione di Giudice Unico, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile di 1 grado iscritta al n. 658 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2013 , posta in decisione all’udienza del 23/04/2018, e vertente

TRA

(…) (C.F.: (…), rappresentata e difesa dall’Avv. St.Sa. del Foro di Roma (C.F.: (…)), giusta procura notarile in atti, ed elettivamente domiciliata in Cassino, Via (…) presso lo studio dell’Avv. Ar.Bu.

Attrice

E

(…) (C.F.(…)), rappresentato e difeso dall’Avv. Li.Sa. (C.F.: (…)) ed elettivamente domiciliato presso lo studio di costui, in Cassino, in via (…), giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta

Convenuto

AZIENDA (…),(C.F., Part. I.V.A. (…)), in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. St.Ca. (CF (…)) in virtù di atto deliberativo n. 455 del 3 giugno 2013 e di delega a margine della comparsa di costituzione e risposta, elettivamente domiciliata c/o l’Azienda (…)L. di Frosinone – Ufficio Protocollo Presidio Ospedaliero “Santa Scolastica” Via (…) Cassino

Convenuta

(…) S.p.A. (C.F.: (…)), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.ti Al.De. (C.F.: (…)) e Gi.Fo. (C.F.: (…)) ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Viale (…), giusta delega in calce alla comparsa di costituzione e risposta

terzo chiamata

OGGETTO: Responsabilità professionale

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda di parte attrice va accolta nei termini che seguono.

Convincimento frutto dell’esame degli atti di causa e della attenta considerazione di tutti i pregevoli scritti difensivi depositati dalle difese delle parti in causa.

Come emerge dalla loro lettura la complessità della presente vicenda processuale è costituita, principalmente, dalla diversa valutazione scientifica e connessa rilevanza causale dei fattore/i che hanno determinato il decesso della piccola (…).

Valutazioni scientifiche che, per quel che da qui un momento si esporrà, solo in apparenza sono tra loro confliggenti.

Vicenda processuale “complicata”, peraltro, dal concomitante svolgimento e intervenuta sentenza di assoluzione – nel procedimento penale pendente anche nei confronti del convenuto (…) innanzi al Tribunale di Cassino – con la formula perché il fatto non costituisce reato, ai sensi dell’art. 530 cpv c.p.p., per lo stesso fatto per cui è sorto il presente procedimento.

Decisione di cui si è presa visione ai fini di una valutazione d’insieme degli elementi che compongono la presente vicenda processuale ma a cui questo Giudice non è legato, richiedendosi, peraltro, di decidere aspetti non oggetto di quel giudizio.

Ed invero, l’oggetto della presente controversia è costituito dalla domanda di risarcimento dei danni determinati da sussunta inadempienza contrattuale per responsabilità professionale medica e/o mancato apprestamento dei mezzi idonei da parte della struttura sanitaria per la retta esecuzione della prestazione richiesta dalla paziente.

Come è noto, la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (privata e pubblica) è stata oggetto, nel corso degli anni, di differenti opinioni, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa la sua natura contrattuale o extracontrattuale.

In particolare si è inteso distinguere la responsabilità della struttura sanitaria da quella del singolo medico che, concretamente, con la sua condotta ha provocato lesioni o, nei casi più gravi, la morte del paziente.

È ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso anche dalla dottrina prevalente, che qualifica la responsabilità della struttura sanitaria come responsabilità contrattuale (a titolo esemplificativo si evidenzia la sentenza della Cassazione, Sezione civile III, 3 febbraio 2012, n. 1620 e la sentenza della Cassazione, Sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 5590).

Tale orientamento si basa sulla circostanza che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto atipico: il c.d. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria, che comprende prestazioni primarie di carattere medico – sanitario, ma anche prestazioni accessorie quali vitto, alloggio, assistenza.

La responsabilità del singolo medico, invece, si fonda su un contratto d’opera professionale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. del codice civile, contratto stipulato direttamente con il paziente; in questa circostanza si è sempre in presenza di responsabilità contrattuale del sanitario.

La responsabilità contrattuale (o da inadempimento), disciplinata dall’art. 1218 c.c., come è noto, si distingue dalla responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), ex art. 2043 c.c., a seconda del dovere giuridico violato.

Incorre in responsabilità aquiliana, secondo l’impostazione classica, il soggetto che viola il dovere giuridico di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), dovere che ciascuno è tenuto a rispettare nei confronti della generalità dei consociati.

Nella responsabilità extracontrattuale, disciplinata dall’art. 2043 c.c., la colpa del danneggiante deve essere sempre provata da chi agisce in giudizio quale danneggiato, ovvero da chi pretende il risarcimento, secondo la regola generale per cui chi fa valere un diritto deve provarne tutti i fatti costitutivi (art. 2697 c.c.).

In caso di illecito aquiliano il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine quinquennale.

La responsabilità contrattuale deriva, invece, dalla violazione di un obbligo specifico qualunque ne sia a sua volta la fonte: contratto, illecito o altro fatto idoneo.

In entrambi i casi il rimedio principale è costituito dal risarcimento del danno, anche se è diversa la regola da applicare in tema di onere probatorio.

Con riferimento alla responsabilità contrattuale, il danneggiato dovrà provare solo il danno, gravando sul danneggiante l’onere di provare l’assenza di colpa.

Per la responsabilità contrattuale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine ordinario decennale.

Nel caso in cui, invece, il paziente non abbia stipulato alcun contratto con il medico, ma si sia rivolto ad una struttura sanitaria, sia pubblica che privata, e sia stato curato occasionalmente da un medico, avente un rapporto di lavoro con tale ente, il quale abbia causato un danno al paziente, si è discusso e si discute tutt’ora sulla natura della responsabilità ascrivibile al medico operante in tale contesto.

La nota sentenza della Corte di Cassazione Sez. III, Gennaio 1999 n. 589 ha segnato una svolta, sul dibattito che si era acceso in merito, affermando, per la prima volta, la natura contrattuale della responsabilità sia del medico, sia dell’azienda ospedaliera con la quale il paziente ha concluso il contratto cosiddetto di spedalità.

A sostegno della natura contrattuale della responsabilità del medico si sono susseguite varie pronunce giurisprudenziali tra le quali: Cassazione Civile, sez. III, sentenza del 1 febbraio 2011, n. 2334; Cassazione Civile, sez. III, sentenza del 19 maggio 2011, n. 11005; sentenza del Tribunale di Milano, Sezione V, n. 13574/2013; Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 5590 che parla di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria.

Continua a parlarsi di natura contrattuale nonostante l’intervento normativo sulla responsabilità del medico, costituito dal Decreto Legge Balduzzi n. 158/2012, convertito in L. n. 189 del 2012.

Originariamente, l’art. 3 del D.L. n. 158 del 2012 prevedeva che: “Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale”.

Tale norma, con il rinvio all’art. 2236 c.c., non si esprimeva sul titolo della responsabilità del singolo medico.

In sede di conversione, il predetto articolo 3 rubricato: “Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie”, al comma 1 del Decreto Legge Balduzzi, nella sua versione attuale, dispone, invece, che: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

Il richiamo espresso all’articolo 2043 c.c., norma dettata in materia di responsabilità extracontrattuale, ha rinfuocalo dubbi circa la qualificazione della natura della responsabilità medica.

L’orientamento giurisprudenziale minoritario ha ripreso vigore ribadendo la natura extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., della responsabilità del medico.

Si segnalano: la sentenza n. 1406/2012 del Tribunale di Varese che sostiene la responsabilità aquiliana del medico e la sentenza n. 9693/2014 del Tribunale di Milano, Sezione I, che afferma la responsabilità extracontrattuale del medico e contrattuale per la struttura sanitaria pubblica o privata.

Distinzione che trova conferma nella nuove norme introdotte sulla responsabilità medica dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli).

Con le nuove norme, da un lato, viene sancita la natura contrattuale della responsabilità della struttura (pubblica o privata che sia) che nell’adempimento delle proprie obbligazioni si avvale dell’opera di esercenti la professione sanitaria (anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa), e dall’altro si riconduce la responsabilità del sanitario nell’orbita dell’illecito aquiliano.

Anche con la nuova normativa viene riaffermata la natura contrattuale della responsabilità del singolo sanitario, precisamente da “contatto sociale”, solidale con la responsabilità della struttura sanitaria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1218 e 1228 c.c..

La responsabilità del medico si espande alla struttura sanitaria dove lo stesso opera e nella cui organizzazione è inserito: l’art. 1228 c.c., infatti, esplica una forma di responsabilità contrattuale indiretta secondo cui: “il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi di questi”.

La struttura sanitaria, pertanto, è responsabile solidamente (Cass. Civ., Sez. III, 28/8/2009, n. 18805; Cass. Civ., Sez. III, 31/03/2015, n. 6436) con il medico in caso di malpractice di quest’ultimo: la stessa per essere esente da responsabilità dovrà dimostrare di aver predisposto in maniera ottimale e tempestiva tutti i servizi richiestigli e di essersi avvalsa, nell’esplicazione degli stessi, di personale idoneo e competente.

Il “contatto sociale qualificato” viene ad esistenza quando il paziente si sottopone ad una prestazione medica, quale visita, cura, trattamento o intervento ai fini della guarigione della malattia di cui è portatore.

Precisamente si incorre nella responsabilità da “contatto sociale qualificato” nel caso in cui il danneggiante è legato al danneggiato da una relazione di fatto poiché sono entrati in contatto, pur non avendo stipulato un contratto; quando il rapporto è qualificato da una norma che attribuisce diritti ed obblighi; inoltre, nell’ipotesi in cui sui soggetti coinvolti gravi un obbligo specifico di condotta, non generico.

In altre parole il medico contrae un’obbligazione contrattuale in virtù della quale si adopera diligentemente e con tutti i mezzi disponibili ai fini della cura e della guarigione del paziente. L’obbligazione del medico, e quella del professionista in generale, non è però di risultato ma di mezzi: allo stesso il paziente non potrà mai rivendicare e pretendere la guarigione ma potrà solo esigere che esplichi la sua attività professionale in modo diligente e quindi in rispetto delle regole della scienza medica.

In concreto qualora si verifichi un caso di mala sanità, il medico sarà responsabile da contratto, prescindendo dalla guarigione o meno del paziente, solo ove abbia esercitato la sua professione in modo negligente per non essersi attenuto alle regole più recenti della tecnica e della scienza medica.

La ripartizione dell’onere probatorio deve, in conseguenza, seguire i criteri fissati in materia contrattuale, dovendo il creditore, che agisce per la risoluzione del contratto o per l’adempimento o per il risarcimento del danno, dare prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitarsi alla allegazione della circostanza dell’inadempimento del debitore e quindi dar prova del danno e del nesso causale fra quest’ultimo e l’inadempimento, competendo al debitore la prova che l’inadempimento non vi sia stato oppure, pur esistendo, lo stesso nella fattispecie non sia stato causa del danno stesso.

Sul piano probatorio, quindi, al paziente basterà dimostrare che, a seguito di prestazioni mediche, ha subito un aggravamento delle sue condizioni psicofisiche o ha constatato l’insorgenza di nuove patologie, mentre il medico sarà onerato della prova relativa alla diligenza della sua specifica opera professionale ed alla riconducibilità degli esiti peggiorativi della salute del paziente ad eventi imprevisti ed imprevedibili.

All’uopo si richiama la sentenza della Corte di Cassazione del 31 gennaio 2014 n. 2185 che dichiara: “In tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente per danni derivanti dall’esercizio di attività di carattere sanitario, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno”.

La Corte di Cassazione, Sezione III, con la recente sentenza 20 marzo 2015, n. 5590, ribadisce che: “In tema di responsabilità civile nell’attività medico – chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto sociale”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, ed allegare la colpa della struttura, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, rimanendo irrilevante, sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio, che si tratti o meno di intervento di particolare difficoltà”.

Il medico sarà, quindi, responsabile qualora il suo operato non si sia esplicato in modo diligente: il livello di diligenza richiesto non è quello generale del pater familias ex art. 1176 c.c. comma 1, ma quello qualificato di cui al comma 2 che deve rapportarsi “alla natura dell’attività esercitata”, nel caso di specie è appunto quella medica.

Ai sensi dell’art. 2236 c.c., inoltre, il medico risponderà dei danni causati al paziente solo in caso di dolo o colpa grave e non in caso di colpa semplice: ciò implica che il grado di diligenza richiesta deve essere valutato anche con riguardo alla difficoltà della prestazione resa. In altri termini, se il caso è di speciale difficoltà, la responsabilità del medico potrebbe assurgere ad una semplice colpa (non grave) così da esimerlo da qualsiasi conseguenza sul piano giuridico.

Alla luce del quadro giuridico sopra ricostruito, ritiene questo Giudice che la responsabilità delle sofferenze denunciate dall’attrice debba essere, unicamente, attribuita all’Azienda U.F. per un duplice ordine di motivi:

a) Insussistenza/mancata prova di una condotta dolosa o gravemente colposa da parte dei sanitari che parteciparono all’intervento operatorio del 16/11/2010;

b) Ritardata esecuzione del parto cesareo e/o apprestamento della sala operatoria nonché ritardato compimento degli interventi post natali.

Relativamente al primo profilo vi è il supporto delle considerazioni espresse dalla C.T.U. che pur nel rilevare una condotta negligente del convenuto, non ha valutato la stessa come dolosa ovvero gravemente colposa.

Ed invero, i C.T.U. Prof. Gi.Sa. e Dott. Lu.Le., sia nell’elaborato principale che nelle note integrative hanno posto l’accento e criticato “la condotta attendista, colposa, che non trova nessuna giustificazione tecnica ….”; concetto ripreso nelle note integrative del 1 marzo 2018, rispondendo ai rilievi critici mossi dai consulenti delle parti, ad eccezione di quello di parte attrice.

Critiche che si sono concentrate nel rilevare come la causa della morte della piccola L. non potesse essere, in alcun modo, ascritta alla ritardata scelta del medico convenuto, Dr. (…) di effettuare il parto cesareo nel pomeriggio del 16/11/2010.

Specie la difesa del medico convenuto ha articolato, con il supporto dei propri consulenti, una serie di obiezioni all’affermazione di responsabilità professionale del proprio assistito, evidenziando che la causa della morte della bambina fosse e sia da ascriversi ad una polmonite congenita intrauterina non prevedibile ed evitabile, insorta tra le 24-48 prima della nascita della piccola.

Di tal che alcun addebito poteva e può muoversi al D.r. (…) nella causazione dell’evento morte.

Aspetto questo, certamente, nodale della vicenda in esame.

L’errore di fondo è che nell’affermare (parte attrice) o nel negare (le difese dei convenuti) la responsabilità professionale del medico convenuto, si è perso o, comunque, non si è voluto considerare la possibilità che la morte della piccola (…) sia stata determinata dal concorso di cause concomitanti o l’una conseguente dell’altra, incidenti nella verificazione del predetto evento.

La concausa, come è noto è la causa che con altre ha concorso a determinare l’evento.

Ed invero un determinato evento, oggetto di disamina sotto il profilo della responsabilità dell’agente (colui che ha agito colposamente), può verificarsi per il concorso di diversi fattori umani, ad esempio la condotta del responsabile e la concomitante condotta del danneggiato stesso, come pure per il concorso tra la condotta umana e fattori naturali.

Il primo caso si ha quando il danneggiato, con il suo comportamento imprudente o illecito, abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso la cui responsabilità sia comunque ascrivibile ad un terzo.

Il secondo si verifica spesso, ma non solo, in ambito di responsabilità sanitaria, quando la condotta colposa omissiva o commissiva del medico si pone in rapporto di causalità in concomitanza di altri fattori naturali, quali le preesistenti condizioni di salute precarie del malato o l’insorgere di ulteriori complicanze o patologie.

In questo caso si afferma che la condotta del medico si sia posta in termini di concausa rispetto al verificarsi del danno subito dal paziente (decesso, peggioramento delle condizioni di salute, lesioni).

La norma di riferimento è l’art. 40 c.p., applicabile anche in sede civile.

Premesso quanto sopra, a ben vedere, sia la C.T.U. svolta nella presente causa sia quella eseguita in sede di incidente probatorio dal Prof. Ol. non hanno escluso la persistenza di altra causa di sofferenza della piccola nascitura ma ne hanno, solo, escluso la sua portata esclusiva dell’evento morte.

D’altro canto le stesse relazioni dei C.T.P. del P.M. e della difesa del Dr. (…) nell’ipotizzare la persistenza brocopolmonite diffusa bilaterale o di una polmonite congenita, quale causa esclusiva della morte della bambina, forzano il dato scientifico acquisito.

Certamente il reperto istologico consente di ipotizzare la sussistenza di una polmonite.

L’origine di simile patologia è, però, controversa così come la sua incidenza sulla causazione morte non è suffragata.

Negli scritti peritali si è sostenuto sia che fosse di origine batterica sia che fosse congenita.

Polmonite di origine batterica ma di cui non si conosce l’agente patogeno.

Polmonite, secondo sempre il reperto istologico, nella sua fase iniziale (si parla di epatizzazione rossa della massa polmonare (vedasi la C.T.U. del Prof. Ol.) e non nel suo stadio finale.

Infezione che per stessa affermazione della Dott.ssa (…) non risulta essere dimostrata in quanto:

– non v’è stato esame della placenta;

– non v’è l’esame culturale del liquido amniotico;

– impossibilità di dimostrare l’origine dei granulociti neutrofili nei bronchi e nei vasi.

Proprio partendo da tale constatazione e quindi di ritenere sussistente l’intervenuta insorgenza della patologia polmonare ipotizzata si era chiesto di accertare l’incidenza causale dell’eventuale ritardo nell’esecuzione del parto cesareo.

Risposta che, purtroppo, non è stata fornita e che non risulta, peraltro, indicata nemmeno nella C.T.U. del Prof. (…).

Dato che avrebbe agevolato il compito di questo Giudice ma che può, però, trarsi dalla lettura degli elaborati peritali.

La ritenuta concorrenza dei su indicati fattori causali – polmonite e ritardo nella esecuzione del parto cesareo – prende spunto dall’accertata presenza di tracce di meconio nelle vie aeree alte della piccola (…).

Si ritiene opportuno evidenziare da subito che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa di parte attrice, non v’è obbiettivo riscontro alla tesi che la polmonite sia stata determinata dal meconio.

Dalla autopsia, infatti, si legge “Condotto laringo-tracheale pervio. Nulla al fascio vascolo-nervoso del collo. Gabbia costale integra. Nulla sui muscoli costali distrettuali. Cavi Pleurici pervi. Polmoni ipoespansi, compatti con superfici lisce e regolari, di colorito rossastro in variegazione grndocardio.igio-giallastra. Strutture ilari pervie. Al taglio le superfici di sezione mostrano parenchima congesto, diffusamente e polifocalmente aumentato di consistenza ed variegazione cromatica sfumata grigio-giallastra. Sacco periocardico pervio. Epicardio liscio e lucente. Cuore di forma e volume nella forma. Nulla nell’endocardio. Apparato valvolare apparentemente indenne. Coronarie normodistribuite, apparentemente pervie. Sangue fluido. Aorta nei limiti della norma per calibro ed elasticità, con intima liscia. Diaframma integro. Cavo peritoneale pervio. Anse intestinali ben svolgibili. All’apertura del piccolo intestino si osserva presenza abbondante di meconio. Peritoneo parietale e viscerale liscio e lucente. Duodeno vuoto, al taglio con mucosa integra. Fegato nei limiti della norma per forma e volume. Nulla alla cistifellea. Nulla al pancreas”.

Dati che negano la massiva inalazione di meconio, come è stato sottolineato dalla Dott.ssa F. la quale ha evidenziato che: “il materiale osservato nei preparati microscopici polmonari è solo in minima parte costituito da meconio”.

Considerazione quella sopra espressa che, certamente, si discosta da quanto ritenuto dai propri C.T.U., Prof Sa. e Dr. Lu.Le. i quali nel negare la preesistenza di una polmonite batterica hanno sottolineato che “la presenza di lamelle cornee e materiale amorfo negli alveoli (distretto anatomico terminale dell’albero tracheo bronco pneumonico) sono riferibili ad una aspirazione profonda del liquido amniotico, già alle 11 del mattino tinto di meconio, nelle vie respiratorie, con mancanza di tutti i reperti di filamenti di fibrina che connotano in maniera massiva i processi flogistici polmonari anche prenatali e neonatali” (cfr. pag 6 delle note integrative).

Asserzione/conclusione che però, si sottolinea ancora, si “scontra” il dato oggettivo rappresentato dall’esame autoptico.

Chiarito tale aspetto, il convincimento della sussistenza di più fattori causali, come si è sopra riportato, si basa e parte dalle conclusioni della C.T.U. a firma del Prof. (…): “Tenendo dunque in considerazione la valenza causale della MAS, unico dato certo della vicenda in questione, non siamo in grado di quantificare e ponderare il ruolo concausale svolto dalla polmonite intrauterina precedente alla nascita, sulla cui genesi vi sono numerosi dubbi interpretativi e sulla cui prognosi quoad vitam non abbiamo alcun elemento di certezza” (cfr. pag. 42 della relazione del Prof. (…)).

Ed invero costui ha riconosciuto la preesistenza della broncopolmonite intrauterina su cui si è “innestata nel corso del travaglio di parto la sindrome da aspirazione di meconio”.

Conclusione che trova, peraltro, riscontro dalle analisi istopatologiche condotte dalla Dott.ssa (…), la quale ha ipotizzato l’esistenza di una broncopolmonite sviluppatasi in ambiente intrauterino, probabilmente preesistente alla nascita: “il nostro caso sembra rientrare tra le polmoniti congenite intrauterine associate a polmonite da aspirazione di liquido amniotico infetto (cfr. pag. 3 della relazione)” da meconio (ndr).

Presenza di meconio unico dato non controverso tra le parti.

La ragione del rilascio di meconio nel liquido amniotico, è secondo la letteratura scientifica, ricollegato a stress fetali: processi patologici come l’ipossia o infezioni.

Processo patologico questo costituito, nel caso in esame, dalla probabile presenza di una polmonite, la cui natura, come si è sopra riportato ed emergente dai diversi elaborati tecnici, non è stata accertata.

Processo morboso insorto nell’arco temporale che va dalle 24-48 che si è aggravato con il passare delle ore.

Processo patologico che si è tradotto in difficoltà/carenza di ossigenazione del feto.

Se è pur vero che – secondo i C.T.P. di parte della Dr. (…) – l’insorgenza di tale patologia non rilevabile ed o evitabile è, però, altrettanto vero che la condizione di ipossia, secondo i C.T.U., prof. Sa. e Dr. Le. è rilevabile mediante l’osservazione cardiotografica.

Al riguardo nella loro relazione integrativa si legge: “Se si interviene tempestivamente, durante la prima fase di insorgenza dell’ipossia, rilevata mediante l’osservazione cardiotocografica, il neonato non presenta danni rilevanti alla nascita, se colposamente non si interviene, la condizione di ipossia passa nella fase della anossia fino all’asfissia ed il neonato presenta gravi danni encefalici o esiti gravi irreversibili che ne determinano l’exitus” (cfr. pag. 8 delle note integrative).

Similarmente ha concluso il Prof. (…) nella propria C.T.U., redatta in sede di incidente probatorio, nel relativo processo penale, evidenziando che nel caso di specie v’era più di un segnale di sofferenza fetale.

Segni di sofferenza fetale, che osservati singolarmente, non costituivano elementi indicativi per un intervento chirurgico, ma “letti” nel loro insieme, dovevano spingere il medico ad intervenire più celermente Segni costituiti

– dall’arresto della dilatazione cervicale e della discesa della parte presentata per ben 15 ore ( vedi partogramma);

– CTG non rassicurante;

– Liquido amniotico tinto

Le opinioni anche sulla significità di tali fattori sono assai diverse, ma quel che ha colpito e colpisce questo Giudice è il tempo trascorso dalla apparizione del primo segnale – che poteva essere, anche, letto come insorgenza di una sofferenza fetale – e l’esecuzione dell’atto chirurgico.

Si è letto che il tracciato “non rassicurante” non è dato che impone e/o suggerisca l’apprestamento di un intervento chirurgico ma il loro susseguirsi – i tracciati – nella mattinata del 16/11/2010 – ben tre: ore 8,00; ore 11,00; ore 13,22 – data, quantomeno, l’esistenza, della sofferenza fetale.

Dato ripetesi che letto in quel contesto non forniva un indicazione univoca per il medico operante, ma data il sorgere del secondo fattore causale, che, a parere di questo Giudice, ha concorso nella produzione dell’evento morte della bambina, costituito dal lasso temporale trascorso, senza soluzione di continuità, prima di procedere all’intervento, che è avvenuto, è bene rammentare, alle 16,30.

Dopo, infatti, i tracciati cardiotocografici non rassicuranti sono seguiti quelli patologici, correndo l’obbligo di evidenziare che il primo di essi quello delle ore 15, 34 del 16/11/2010 è stato rilevato dopo che per un 1,30 l’apparecchio è risultato essere, inspiegabilmente, staccato.

Così come è inspiegabile – se non con problematiche organizzative, strutturali e di programmazione – il lasso temporale intercorso per apprestare la sala operatoria, risultando – dalla documentazione versata in atti – l’inizio dell’atto operatorio verso le 16,30 di quel giorno.

A ciò deve aggiungersi che dall’esame testimoniale è emerso il sorgere di disguidi e incomprensioni che hanno, a loro volta, comportato una lungaggine degli interventi post natali.

I testimoni – (…) e (…) – hanno riferito: di difficoltà nella esecuzione degli interventi necessari per la neonata; della circostanza che si è reso necessario chiedere telefonicamente l’intervento di un altro medico che è sopraggiunto dopo diversi minuti, trovandosi in un altro reparto; di contrasti che si sono verificati tra il medico presente (addetto agli interventi post natali) ed il medico sopraggiunto, in un secondo momento, in ordine agli interventi da eseguire sulla neonata.

Sempre tali testi hanno rappresentato che il medico sopraggiunto ha “intubato” la neonata e che l’altro medico la “estubata” e che infine, la neonata è stata nuovamente intubata dal medico sopraggiunto mentre l’altro medico si è allontanato.

Fatto questo che, certamente, ha inciso sui tempi di esecuzione degli interventi resi necessari per le difficoltà respiratoria riscontrate in sede di parto.

Aspetti quelli qui sopra segnalati che non sono in nessun modo ascrivibili all’azione del Dr. (…) ma attengono ad adempimenti/servizi spettanti alla struttura sanitaria. Ed invero, la predisposizione di misure atte a contrastare l’occorrenza di tali eventi – proprio in ragione dell’alta loro probabilità di verificazione – rientra, a parere di questo Giudice, nelle obbligazioni assunte dalla struttura ospedaliera al momento della conclusione del rapporto contrattuale con il paziente.

Pertanto non pare esservi dubbio che i ritardi sopra esposti abbiano inciso in modo determinante sulla causazione dell’evento in esame, attribuendo alla concorrente concausa naturale costituita dalla polmonite un’incidenza minore.

Considerazione quest’ultima cui si pervien sul rilievo che la polmonite si trovava nella fase iniziale dello stadio di epatizzazione rossa, (stadio intermedio) come riferito dalla Dr. (…), spiegando la ragione dell’assenza di fibrina (cfr. pag. 4 della relazione).

Il che fa ritenere che un tempestivo intervento, senza i ritardi sopra indicati, avrebbe consentito un più efficace azione terapeutica con maggiori possibilità di vita della piccola (…).

Da ciò consegue che del danno derivato ne risponda la struttura sanitaria.

Tale è, anche, l’indicazione che si trae dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità interrogatesi sugli effetti del concorso di cause sotto il profilo della eventuale gradazione della responsabilità in capo a chi abbia determinato colposamente un evento verificatosi anche per via di altre cause.

La Corte di Cassazione, pronunciatasi recentemente in materia di responsabilità medica, è giunta alla considerazione che, in presenza di più cause che abbiano determinato un evento lesivo, non si possa invocare alcuna riduzione di responsabilità, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di cause concorrenti può instaurarsi soltanto in una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (così, ex plurimis, Cass. civ. sez. II 28/03/2007 n. 7577; Cass. civ. sez. lav. 9/04/2003 n. 5539; Cass. civ. 21/07/2011 n. 15991).

In particolare, la sentenza 15991/2011 ha chiarito come non vadano confusi diversi nessi di causalità: quello della causalità materiale, afferente la condotta illecita del medico, e quello della causalità giuridica afferente il danno.

Quanto al primo, la Corte afferma che o il nesso di causa c’è, o manca, senza che sia possibile una graduazione in percentuale.

Pertanto, quand’anche il medico/struttura sanitaria abbia con la propria condotta o omissione fornito un contributo causale, anche solo dell’1% alla produzione del danno, il quale è dovuto, per il resto, al concorso di cause naturali, egli dovrà comunque rispondere per intero.

Negli stessi termini si è pronunciata la sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. III, 13/05/2008, n. 11903, secondo la quale “qualora l’evento dannoso si ricolleghi a più azioni o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41 c.p. – norma di carattere generale, applicabile nei giudizi civili di responsabilità – in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte”.

In particolare, afferma ancora la Corte, in riferimento al caso in cui una delle cause consista in una omissione, la positiva valutazione sull’esistenza del nesso causale tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l’azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’evento dannoso, ovvero a ridurne le conseguenze, e non può esserne esclusa l’efficienza soltanto perché sia incerto il suo grado di incidenza causale” (conformi Cassazione civile, sez. III, 02/02/2010, n. 2360; Cassazione civile, sez. III, 06/05/2015, n. 8995.

Così definiti i termini dell’inadempimento contrattuale e la sua stretta correlazione causale nella produzione dell’evento è necessario soffermarsi sulla conseguente richiesta di risarcimento danni avanzata da parte attrice.

Ed invero si è assai, disquisito il riconoscimento in siffatto contesto, oltre che del danno patrimoniale, anche del c.d. danno non patrimoniale.

Per danno non patrimoniale si definisce il danno conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica ed è categoria omnicomprensiva tale da ricomprende in sé qualsiasi tipo di pregiudizio all’integrità dell’individuo in tutti i suoi aspetti dinamico – relazionali, sia che lo stesso si strutturi come danno fisico alla salute (art. 32 Cost.), che come danno da peggioramento della qualità di vita, sia, ancora, sotto il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona alla serenità e tranquillità familiare (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

Tale definizione rappresenta il frutto di una maturazione del pensiero che si è sviluppato lungo un travagliato iter giurisprudenziale e dottrinale e che ha portato al superamento degli asfittici limiti entro cui la risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona veniva tradizionalmente confinata dall’art. 2059 c.c.

Secondo l’impostazione dottrinale che ha dominato sino agli anni ’70, la tutela risarcitoria risultava esperibile soltanto qualora l’illecito avesse provocato conseguenze economicamente valutabili, restando esclusa la risarcibilità dei danni non patrimoniali in assenza di una condotta penalmente rilevante (art. 2059 c.c.).

Il risarcimento del danno non patrimoniale era cioè inteso come condizionato alla qualificazione del fatto illecito in termini di reato e tra l’altro, all’epoca, la sua nozione non coincideva con quella di danno non patrimoniale come oggi inteso nella sua più ampia eccezione, in quanto ancora comunque ristretta sino a ricomprendere il solo danno morale soggettivo.

Infatti, sempre secondo la prospettiva tradizionale, l’impossibilità di ricondurre la lesione al bene persona al paradigma risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c., traeva fondamento dal fatto che nell’ambito applicativo della richiamata norma non qualsiasi danno potesse essere risarcito ma solo quello produttivo di un’alterazione del patrimonio del danneggiato, e che portava con sé la necessità di ricondurre i danni alla persona entro l’alveo dei danni a carattere non patrimoniale di cui al disposto dell’art. 2059 c.c., con l’inevitabile conseguenza di escludere per gran parte dei casi la tutela risarcitoria dei diritti della personalità, riconoscendola solo nelle ipotesi di reato.

A partire dall’anno 2003 si è assistito ad un ulteriore processo di revisione del sistema del risarcimento del danno non patrimoniale che, a seguito dei noti interventi della Corte di Cassazione è stata per la prima volta sancita una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.

In base ai nuovi orientamenti espressi dalla Suprema Corte a partire dalla sentenza del 2003 ed ancor più compiutamente con le note sentenze in composizione plenaria del 2008, la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., quale unica norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia eccezione, riporta il sistema della responsabilità civile nell’ambito del criterio bipolaristico delineato dal nostro codice civile e per il quale sarebbero individuabili due sole categorie di danno risarcibile: il danno patrimoniale da fatto illecito, che si connota tradizionalmente per il suo carattere di atipicità postulato dell’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. e nel cui ambito applicativo rientra la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante; v’è poi il danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) la cui disciplina codicistica è connotata da chiari elementi di tipicità, essendo tale pregiudizio risarcibile solo nei casi predeterminati dalla legge, oltre che nei casi in cui l’evento di danno consista nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti.

A mezzo di tali decisioni si è giunti all’esplicito riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale anche nell’ambito della responsabilità di natura contrattuale.

Tali decisioni hanno portato in primo luogo ad abbandonare definitivamente la tradizionale ripartizione in tre categorie, quella del danno biologico, del danno esistenziale e del danno morale, di tutti quei pregiudizi che toccano gli aspetti areddituali della persona, in favore di un’unica categoria omnicomprensiva di danno, quella del danno non patrimoniale, destinata a ricomprenderli tutti e nella quale le singole voci di danno rimangono del tutto assorbite, entro il limite segnato dall’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno.

Il secondo importante aspetto sul quale è andata ad incidere la ricostruzione monistica operata dalle sez. Unite della Suprema Corte è stato quello di andare a parificare la tipologia dei danni risarcibili in campo di illecito e di inadempimento contrattuale, giungendo ad ammettere in via definitiva la risarcibilità del danno non patrimoniale anche in presenza di un illecito di natura contrattuale, o, più in generale, delle obbligazioni.

Ed invero con la sentenza n. 26972 risalente all’11 novembre 2008, le sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione giungono definitivamente ad ammettere la risarcibilità del danno non patrimoniale anche nell’ambito della responsabilità contrattuale, per l’ipotesi in cui l’inadempimento violi contemporaneamente i diritti e doveri derivanti dal contratto ed i valori costituzionali primari della persona umana.

Nella sentenza del 2008 le sezioni Unite della Cassazione, dando pur sempre atto della mancanza in tema di responsabilità contrattuale, di una norma “analoga” a quella di cui all’art. 2059 c.c., dettata in materia di fatti illeciti, giungono di fatto alla sua applicazione anche in materia contrattuale, traendo argomenti dalla lettura costituzionalmente orientata della richiamata norma.

Il ragionamento delle Sezioni Unite trae, infatti, abbrivio dal rilievo per cui “dalla semplice inclusione di un diritto inviolabile della persona in una norma di rango costituzionale, deriverebbe la necessità di una sua tutela sul piano civilistico e questa tutela dovrebbe necessariamente risolversi nel risarcimento del danno non patrimoniale eventualmente patito dal titolare del diritto medesimo, costituendo, detto risarcimento, la forma minima concepibile di sua tutela quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale”.

Il sistema del risarcimento del danno non patrimoniale, nella valorizzata lettura dell’art. 2059 c.c., in combinato disposto con l’art. 2 Cost., viene quindi ad abbracciare tutte le possibili manifestazioni che tale lesione assume nel tradursi in danno ed indipendentemente dall’ambito contrattuale o extracontrattuale in cui tale lesione si è prodotta.

A tal fine le sez. Unite valorizzano l’argomento secondo cui l’obbligazione può corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore (art. 1174 c.c.), e per tale via giungono ad affermare che la funzione in concreto del contratto, che deve essere stimata alla stregua della relativa causa in concreto, ben può essere quella protettiva di interessi di natura esistenziale del creditore della prestazione stessa.

Da ciò consegue che se l’inadempimento contrattuale abbia comportato, in concreto, la lesione anche di diritti inviolabili della persona, ben potrà aprirsi per il danneggiato la via del risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento, in quanto ne rappresenti una sua conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.).

Nel ragionamento seguito dalla Cassazione risulta di immediata evidenza come la stessa intenda porsi in linea con quell’indirizzo ormai da tempo invalso in giurisprudenza che accoglie una nozione di causa contrattuale in concreto, e che ha portato al definitivo superamento della tradizionale impostazione che ravvisava nella causa l’astratta funzione economico sociale del contratto.

Per tale via, le sez. Unite attribuiscono valenza generale all’art. 1218 c.c., il cui ambito applicativo viene oggi a ricomprendere non solo il danno patrimoniale ma anche quello non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato la lesione di diritti inviolabili della persona.

L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona.

Contestualmente la Cassazione, in composizione plenaria, restituisce un’interpretazione particolarmente ampia del disposto dell’art. 1223 c.c., a norma del quale il risarcimento del danno da inadempimento o da ritardo contrattuale, deve comprendere sia la “perdita subita” che il “mancato guadagno”, in quanto ne siano “conseguenza immediata e diretta.

Le sez. Unite della Cassazione giungono così a conferire un più ampio contenuto all’art. 1223 c.c., sul presupposto che tra le “perdite subite” e le “mancate utilità” debbono intendersi ricompresi, sia i pregiudizi patrimoniali che quelli non patrimoniali, purché conseguenti alla lesione di un diritto della persona costituzionalmente garantito.

In base all’ampia interpretazione dell’art. 1223 c.c. offerta dalla Corte a sez. Unite, il termine “perdita” è quindi oggi idoneo a ricomprendere nel suo campo di applicazione la privazione di qualsiasi cosa o svantaggio, anche se privo del carattere della pecuniarietà, così come le “mancate utilità” altro non sono che un dover essere costretti ad agire altrimenti, un non poter più fare e quindi richiamano entro il suo raggio di azione tutte quelle fattispecie che precedentemente rientravano nella categoria del c.d. danno esistenziale.

Posto che l’art. 1223 c.c. riconosce risarcibile tanto la perdita subita dal creditore, quanto il guadagno che lo stesso non ha conseguito, purché siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o del ritardo, le sez. Unite avvertono la necessità di attribuire al termine “perdita” una “valenza differente” da quella che si è soliti attribuirle.

Nessuno può dubitare infatti che l’esecuzione anche tardiva di un contratto, possa arrecare, primariamente, una perdita pecuniaria per il creditore, ma al pari non può negarsi come da quello stesso fatto il creditore possa anche ritrarre una perdita non economicamente valutabile, perché, ad esempio conseguente, al peggioramento di “beni” quali la sua qualità di vita o l’onore, ed anche a tale diverso danno dovrà riconoscersi adeguata tutela in via risarcitoria.

Ricostruito nei termini sopra esposti l’iter che ha portato a riconoscere la risarcibilità – anche nell’ipotesi di responsabilità contrattuale – del c.d. danno non patrimoniale deve ritenersi legittima e fondata la richiesta avanzata da parte attrice di vedersi riconoscere, anche, tale voce di danno.

Danno che viene indicato da parte attrice nella misura di Euro 448.058,15; somma già rivalutata e risultante dalla somma del danno patrimoniale da e/o perdita rapporto parentale per Euro 300.000,00 ed Euro 81.600,00 per danno biologico di natura psichica e/o similare.

Valutazione che è stata formulata sulla base dei rilievi esposti dal C.T. di parte attrice, Prof. Ar.Ca.

Tale quantificazione è stata decisamente contestata dalle difese dei convenuti e nonché dalla difesa della chiamata Compagnia di Assicurazione, rilevando la genericità della stessa e l’assenza di valore di prova di siffatta valutazione fondata, unicamente, su una relazione peritale di parte.

Su tale specifica richiesta – danno da perdita parentale – la giurisprudenza di legittimità ha, in più occasioni, (v. per tutte Cass. 10107 del 2011) evidenziato che il danno da lesione del rapporto parentale è ontologicamente diverso da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), e si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso dal diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., l’uno e l’altro peraltro, definitivamente trasmigrati – non come autonome categorie di danno, ma come entità descrittive della conformazione che l’unitaria figura del danno non patrimoniale di volta in volta assume in concreto – nell’area normativa dell’art. 2059 cod. civ. (Cass. civ. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828; Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233; Cass. civ. sez. un. 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), dopo che per anni, come si è sopra già evidenziato, avevano trovato copertura nell’ambito dell’art. 2043 c.c., in combinato disposto con i diritti fondamentali costituzionalmente tutelati (confr. Cass. civ. sez. un. 22 maggio 2002, n.7490). La giurisprudenza di legittimità (Cass. civile 8828/2003) ha sottolineato come: “l’interesse fatto valere nel caso di danno da morte di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.”.

La giurisprudenza di legittimità ha efficacemente descritto il danno da perdita del rapporto parentale come quel danno che va oltre il crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, nel non potere più fare ciò che per anni si faceva e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti familiari. Il suddetto danno consiste: “in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell’interesse protetto” (Cass., n. 2557/11).

La giurisprudenza di legittimità (tra le altre, da Cass. 8 luglio 2014, n. 15491; Cass. 23 settembre 2013, n. 21716) è intervenuta per delimitare i contorni tra il danno da lesione del rapporto parentale e danno morale evitando duplicazioni risarcitorie così come sancito dalle pronunce a Sezioni Unite del 2008.

Tali pronunce hanno chiarito che la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario concetto di danno non patrimoniale è ammessa, quando però sia evidente la diversità del bene od interesse oggetto di lesione (Cass. 9 giugno 2015, n. 11851; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).

Duplicazioni risarcitorie si hanno, pertanto, solo allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, mentre non vi è alcuna duplicazione risarcitoria quando il giudice valuta i diversi e molteplici pregiudizi negativi sul valore persona causalmente derivanti dal fatto illecito e incidenti sulla persona del danneggiato provvedendo alla loro integrale riparazione. In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva allora non già il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).

Poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita viene percepita e quella che si proietta, in modo dinamico, sul futuro accompagnando dolorosamente l’esistenza della persona che l’ha subita, sono componenti dello stesso danno non patrimoniale quel pregiudizio dovrà essere tendenzialmente liquidato unitariamente. In presenza di una liquidazione del danno morale che sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040; Cass., 16/9/2008, n. 23275) non può liquidarsi un ulteriore somma a tale titolo.

Il danno non patrimoniale, tuttavia, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato.

Occorre, avere riguardo agli elementi di fatto acquisiti al processo, quali l’intensità del vincolo parentale, la situazione di convivenza e ogni ulteriore utile circostanza, quali le abitudini di vita, l’età della vittima e dei parenti superstiti.

Occorre, peraltro, considerare che la prova del danno non patrimoniale da morte dello stretto congiunto può essere data anche a mezzo di presunzioni (v. Cass., 31/05/2003, n. 8827; Cass., 31/05/2003, n. 8828; Cass., 19/08/2003, n. 12124; Cass., 15/07/2005, n. 15022; Cass., 12/6/2006, n. 13546), che in argomento assumono anzi “precipuo rilievo” (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).

Le presunzioni valgono a facilitare l’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova contraria (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).

A tale stregua, la presunzione solleva la parte che ex art. 2697 c.c. sarebbe onerata di provare il fatto previsto, che, come posto in rilievo in dottrina, deve considerarsi provato ove provato il “fatto base” (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).

Anche nella giurisprudenza di legittimità si è, con riferimento alla prova per presunzioni semplici, sottolineato che, nel dedurre dal fatto noto quello ignoto il giudice di merito incontra il solo limite del principio di probabilità (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).

Non occorre cioè che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire la esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessità assoluta ed esclusiva (in tal senso v. peraltro Cass., 6/8/1999, n. 8489; Cass., 23/7/1999, n. 7954; Cass., 28/11/1998, n. 12088), ma è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza (v. Cass., 23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n. 13169; Cass., 13/11/1996, n. 9961; Cass., 18/9/1991, n. 9717; Cass., 20/12/1982, n. 7026), basate sull’id quod plerumque accidit (v. Cass., 30/11/2005, n. 6081; Cass., 6/6/1997, n. 5082).

In presenza di tale allegazione il giudice deve quindi ritenere, sulla base della presunzione fondata essenzialmente sulla base della tipicità di determinati fatti in base alla regola di esperienza di tipo statistico, provati gli effetti che da tale fatto normalmente derivano, avendo riguardo ad una “apparenza” basata sul tipico decorso degli avvenimenti.

Incombe alla parte a cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria idonea a vincerla, con valutazione al riguardo spettante al giudice di merito (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546).

Costituendo un mezzo di prova di rango non inferiore agli altri, in quanto di grado non subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque non “più debole” della prova diretta o rappresentativa, ben possono le presunzioni assurgere anche ad unica fonte di convincimento del giudice (v. Cass. , Sez. Un.,11/11/2008, n. 26972; Cass. , Sez. Un.,24/3/2006, n. 6572. Cass. ,12/6/2006. n. 13546, Cass., 6/7/2002, n. 9834), costituendo una “prova completa” (v. Cass., 12/6/2006, n. 13546. E già Cass., 22 luglio 1968, n. 2643).

Pertanto, tenuto conto dei principi sopra richiamati deve ritenersi concretamente sussistente nei confronti della Sig.ra (…) madre della piccola (…) il danno da perdita del rapporto parentale posta l’intensità del vincolo parentale e il pregiudizio recato dalla perdita delle relazioni interpersonali.

Ne consegue che laddove il danneggiato abbia, come nella specie, allegato il normale rapporto relazionale tra genitore e figlio e lo sconvolgimento conseguente al grave lutto familiare, incombe al danneggiante/convenuti dare la prova contraria idonea a vincere la presunzione della sofferenza interiore, così come dello “sconvolgimento esistenziale” che dalla perdita del rapporto parentale secondo l’id quod plerumque accidit per lo stretto congiunto normalmente discendono (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).

Si ritiene opportuno di dover rimarcare che l’interesse di rilievo costituzionale oggetto di tutela risarcitoria dal punto di vista non patrimoniale è la perdita del rapporto parentale, non la sofferenza per tale perdita (che, ovviamente, è in esso insita).

Quindi, seppure il dolore sia sempre sconfinato e indicibile, dal punto di vista del risarcimento (che va, per quanto possibile, a compensare, si ripete, non il dolore, ma la perdita di un rapporto, che presuppone un suo diverso stadio di sviluppo, approfondimento e implicazioni con il trascorrere del tempo) non è possibile trattare la perdita di un bambino in procinto di nascere in maniera uguale alla perdita di un bambino già nato (considerato che qui non si discute della perdita della vita in sé, in relazione alla quale nessuna differenza sarebbe ipotizzabile, al di fuori dei casi in cui la legge altrimenti interviene per dirimere drammatiche situazioni di conflitto).

Posto quanto sopra non pare possa esservi dubbio che l’istruttoria esperita ha provato che

– l’attrice è la madre della piccola deceduta;

– per l’attrice era il primo parto;

– il travaglio è stato lungo;

– circa, cinque ore dopo essere nata la piccola (…) è deceduta; Il danno non patrimoniale subito dalla madre in conseguenza della prematura scomparsa della prima figlia deve reputarsi, quindi, estremamente rilevante atteso il dolore incommensurabile che una tale perdita determina in colei che per nove mesi ha portato in grembo la propria piccola per poi perderla inaspettatamente.

Ritiene questo Giudice che il criterio – base per la liquidazione del danno non patrimoniale possa fondarsi sulle cc.dd. “tabelle del Tribunale di Milano”, riconosciute da Cass. Sez. Un. 12408/2011, come un valido punto di riferimento.

Le tabelle di Milano 2018 individuano per la morte di un figlio la forbice da 165.960,00 a 331.920,00 per ciascun genitore.

Nel caso in esame occorre considerare che la vittima era, appena nata e ciò costituisce generalmente motivo di spasmodico dolore per i genitori che considerano “fisiologica” la propria premorienza rispetto ai figli.

Tale dolore è acuito dal fatto che L. doveva essere la primogenita e la sua perdita è avvenuta in modo improvviso, drammatico e del tutto inaspettato.

Tenuto conto dell’intensità del vincolo parentale nonché di tutti gli altri elementi e considerazioni sopra evidenziate, ritiene il Giudice che il danno non patrimoniale si attesti sul valore minimo indicato nelle tabelle e cioè pari Euro 165.960,00.

Sulla somma ottenuta vanno aggiunti – trattandosi di obbligazione di valore – gli interessi c.d. da lucro cessante, siccome riferiti ad autonomi presupposti, avendo la rivalutazione funzione pienamente reintegratoria del patrimonio del soggetto leso, i secondi funzione correlata alla mancata disponibilità della somma di danaro. Questi ultimi che, in considerazione della nuova disciplina della determinazione del relativo tasso, si ritiene possano essere individuati nella misura di quelli legali, nelle varie epoche di riferimento, vanno computati – al fine, però, di evitare indebiti effetti locupletativi ed in ossequio al consolidato indirizzo della Suprema Corte (cfr. la nota pronuncia delle sez. un. n. 1712 del 1995; nonché di recente Cass. n. 492 del 2001)- sulla predetta somma da devalutare, alla data del sinistro (16-11-2010) e via via rivalutata anno per anno sempre sulla base degli indici ISTAT fino alla data di pubblicazione della presente sentenza, con esclusione degli interessi sugli interessi; da tale ultima data, divenuto il debito di valuta, saranno dovuti gli interessi, sempre al tasso legale, sulla somma così determinata, fino all’effettivo soddisfo.

La somma all’attualità ammonta ad Euro 179.770,14.

Oltre a tale danno parte attrice ha anche chiesto il riconoscimento un ulteriore importo di Euro 81.600,00 a titolo di danno biologico di natura psichica.

Voce di danno astrattamente liquidabile, come si è sopra anticipato, secondo la decisione del Supremo Collegio, Sez. III, del 08/05/2015 n 9320 , evidenziando che “in materia di responsabilità civile, il principio della “omnicomprensività” della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l’impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non esclude, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione sebbene facenti capo al medesimo soggetto”.

Nel caso in esame, anche all’esito della lettura degli elaborati di parte attrice, però, si ritiene che la sofferenza ivi descritta rientri in quel dolore conseguenza compreso nella voce di danno da perdita parentale e non sia effetto distinto e ulteriore a quest’ultimo.

Si è tenuto conto di tale sofferenza nel riconoscere a parte attrice un danno rilevante.

In aggiunta si rileva che non v’è alcuna allegazione specifica – certificazione medica – né v’è nessuna testimonianza che conforti tale domanda di danno alla salute distinto da quello costituito dalla perdita della piccola (…).

Non viene nemmeno indicato e quantificato la percentuale di invalidità causata all’attrice

Pertanto tale voce di danno non risulta essere supportata e quindi non può essere accolta.

Le spese seguono la soccombenza.

Le spese del presente giudizio sono liquidate nella misura indicata in dispositivo, applicando i valori medi previsti dalla tabella allegata al D.M. n. 55 del 2014, tenendo conto del minore importo per cui sono state accolte le domande, seguono la soccombenza dei convenuti nei confronti dell’attrice, precisandosi che le spese in favore di parte attrice devono liquidarsi con distrazione in favore dell’Avv. St.Sa., dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa eccezione, deduzione ed istanza così provvede:

1. in accoglimento della domanda introduttiva del presente giudizio, accerta e dichiara dovuto alla Sig.ra (…) il ristoro del danno subito a seguito del decesso della piccola (…); condanna la parte convenuta, Azienda (…) al ristoro del citato danno in favore della parte attrice, quantificato nella misura di Euro 179.770,14. oltre interessi legali dal deposito della sentenza, sino al soddisfo;

2. condanna, sempre, la (…) a rifondere a parte attrice le spese di lite, che in base ai vigenti parametri liquida in complessive Euro 13.430,00 per compensi, oltre il rimborso di IVA e CPA e spese generali, in favore del procuratore dichiaratosi antistatario, nonché Euro 1056,00, quali spese documentate di iscrizione al ruolo e rifusione delle spese eventualmente anticipate per la C.T.U. poste a carico di parte attrice.

Dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c.

Così deciso in Cassino il 3 settembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 5 settembre 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.