Sebbene l’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci abbia natura contrattuale, in tema di onere della prova non vale il principio generale di cui all’art. 1218 c.c. All’attore spetta pertanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni addebitate, del patito danno e del nesso di causalità tra le une e l’altro, incombendo su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso e di fornire la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti
Tribunale Bologna, civile Sentenza 19 aprile 2019, n. 959
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA
SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA CIVILE
Il Tribunale, in composizione collegiale, riunito nella Camera di Consiglio del 28 marzo 2019, nelle persone dei seguenti Magistrati:
Dott. Fabio FLORINI – (Presidente)
Dott.ssa Anna Maria ROSSI – (Giudice)
Dott.ssa Rita CHIERICI – (Giudice relatore)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. R.G. N. 15611/2015, promossa da:
(…) S.R.L. CON SOCIO UNICO, in persona dell’Amministratore Unico e legale rappresentante pro-tempore (…);
(…) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del Liquidatore e legale rappresentante pro-tempore (…);
entrambi con il patrocinio dell’Avv. Gi.MU. e nel Avv. Da.PE.
ATTORI
nei confronti di
(…)
CONVENUTO CONTUMACE
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Svolgimento del processo.
Le società (…) S.R.L. CON SOCIO UNICO e (…) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (di seguito rispettivamente denominate (…) e (…)) con atto di citazione adivano il Tribunale di Bologna al fine di far accertare e dichiarare che (…), amministratore unico di (…) dal 12.03.2010 al 13.10.2010, aveva violato i doveri di legge e statutari su di esso gravanti per effetto della carica rivestita, nonché al fine di sentire condannare il convenuto al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi da (…) per effetto di tale condotta.
Le parti attrici esponevano che socio unico della (…) era la (…), oggi in liquidazione, la cui quota di ampia maggioranza era detenuta da (…) S.r.l.; dichiaravano che, sin dal marzo del 2007, l’unica attività svolta da (…) era consistita nella gestione dell’azienda denominata “(…)”, con sede in C. P., operante nel settore dell’intrattenimento danzante notturno, con annessa somministrazione al pubblico di alimenti e bevande.
Le società attrici deducevano che in data 12.03.2010 la carica di amministratore unico della (…) era stata assunta da (…), già dipendente presso la (…) con mansioni di magazziniere e responsabile delle manutenzioni; che questi non si sarebbe mai dovuto occupare, né mai si occupò effettivamente, della concreta amministrazione della società e della gestione dell’attività aziendale, in quanto già dipendente presso la (…); che il locale “(…)” era gestito direttamente dal personale impiegato presso lo stesso, ed in particolare dal direttore, (…), e dalla vice-direttrice, (…), i quali agivano sulla base delle indicazioni direttamente impartite dalla proprietà.
Con riguardo all’operato dell’amministratore, le società attrici riferivano che il (…), nonostante il ruolo assunto solo formalmente, senza aver ricevuto alcun mandato dall’assemblea dei soci e senza averli mai consultati o informati, con rogito notarile del 10.09.2010 aveva ceduto a (…) il ramo d’azienda esercitato sotto l’insegna “(…)”, al prezzo irrisorio di Euro 50.000,00, e ciò al fine di procurare a sé, alla (…) e ad altre persone collegate, un ingiusto profitto. (…) e (…) sostenevano di essere venute a conoscenza di tale cessione a distanza di circa un mese, precisamente in data 6.10.2010, quando ricevettero le seguenti lettere raccomandate: le missive di (…) che, richiamando il suddetto contratto di acquisto di ramo d’azienda, chiedeva di definire i tempi e modi del subentro; la lettera con cui il (…) rassegnava le proprie dimissioni dalla carica di amministratore unico di (…) per motivi personali; la missiva con cui il (…) rassegnava le proprie dimissioni dal rapporto di lavoro subordinato in essere con (…) per motivi personali.
Le parti attrici esponevano che, a seguito della nomina di (…) come nuovo amministratore di (…), la società aveva provveduto a promuovere iniziative giudiziarie volte a far emergere l’invalidità dell’atto di cessione: in particolare, (…) aveva ottenuto dal Tribunale di Piacenza, ai sensi dell’art. 670 c.p.c., il sequestro giudiziario dell’azienda “(…)”, disposto con ordinanza del 15.02.2011, poi confermata in sede di reclamo.
In corso di causa le parti attrici davano atto che il Tribunale di Piacenza, con sentenza n. 140/2016 del 14.03.2016, aveva definito la causa di merito, dichiarando l’annullamento dell’atto di cessione dell’azienda in questione.
Le società attrici rilevavano che, nonostante l’atto di vendita stipulato dal (…) contenesse la dizione di “ramo d’azienda”, dallo stesso si deduceva la dismissione dell’intero complesso aziendale di proprietà di (…), che veniva privata dell’unico cespite posseduto e della sola attività esercitata.
Esse adducevano, inoltre, la sussistenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare la mancanza di un mandato assembleare conferito all’amministratore e la collusione dello stesso con la parte acquirente, al fine di porre in essere un atto di disposizione a danno della società: rilevavano, principalmente, che era stato concordato il prezzo di vendita di Euro 50.000,00, ritenuto del tutto irrisorio, considerando che la (…) aveva acquistato l’azienda “(…)” nel marzo 2007 al prezzo superiore di Euro 200.000,00, operando poi ingenti investimenti nell’azienda, al fine della completa messa in sicurezza dei locali; a sostengo di ciò richiamavano la perizia di stima effettuata in data 15.10.2010, asseverata innanzi al Tribunale di Piacenza, da cui emergeva che il valore complessivo dell’azienda poteva essere prudenzialmente stimato in Euro 403.600,00, di cui Euro 303.600,00 per interventi strutturali su impianti, attrezzature e arredi, ed Euro 100.000,00 per avviamento commerciale (doc. 31).
Emergevano, poi, ulteriori elementi che evidenziavano l’assoluta mancanza di conoscenza della realtà aziendale da parte dell’amministratore e, nel contempo, l’assenza di un mandato assembleare: nell’atto di cessione veniva citato soltanto uno dei due contratti di locazione aventi ad oggetto i locali dell’azienda (oltretutto quello relativo ai locali di servizio); non veniva riportato l’elenco dei beni strumentali trasferiti; veniva espressamente esclusa l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato relativi al ramo d’azienda, quando invece erano in corso sei contratti a tempo indeterminato con altrettanti dipendenti (oltre a trenta contratti di ingaggio a tempo determinato).
Premesso ciò in merito alla ricostruzione dei fatti, le parti attrici rilevavano come il (…) avesse agito in difetto del potere di rappresentanza, stante la violazione dei limiti legali previsti dall’art. 2479 comma 2, n. 5 c.c; evidenziavano, inoltre, che trattandosi di limitazioni legali al potere degli amministratori, le stesse erano opponibili ai terzi anche in assenza della prova di una loro partecipazione dolosa, in quanto era insussistente ab origine il potere di rappresentanza.
Le società attrici ritenevano, dunque, che il (…), ponendo in essere tale atto di cessione non autorizzato, avesse violato il vincolo fiduciario con (…), al fine di perseguire un interesse proprio e/o di terzi; deducevano anche che il convenuto aveva agito in conflitto di interessi in quanto, un mese dopo l’atto di cessione, aveva assunto la carica di Presidente del C.d.A. della società A. S.r.l., avente ad oggetto la gestione del locale “4zero4”, diretto concorrente di “(…)”; tale situazione di conflitto, secondo le parti attrici, era non soltanto conosciuta, ma anche condivisa dalla (…).
Infine, le due società rilevavano come la condotta posta in essere dall’amministratore avesse cagionato ingenti danni patrimoniali a (…).
Si riferivano, innanzitutto, alle spese sostenute per il pagamento delle competenze maturate dal custode giudiziario e dal di lui ausiliario, nonché alle competenze legali e agli altri oneri relativi alle iniziative giudiziarie che (…) aveva dovuto promuovere, al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia, nei propri confronti, dell’atto di cessione del 10.09.2010.
In secondo luogo, evidenziavano come il sequestro giudiziario avesse inciso sulle capacità reddituali dell’azienda e sul suo valore complessivo, non permettendo nemmeno di effettuare i costanti interventi di ammodernamento e rinnovamento dell’offerta di intrattenimento di cui l’azienda necessitava, determinandone così un inevitabile declino.
Nel presente giudizio (…) non si costituiva e veniva dichiarato contumace.
L’istruttoria si svolgeva con l’escussione dei testi indicati dalle parti attrici in relazione al ruolo effettivamente ricoperto dal (…) nella gestione dell’azienda, all’insussistenza di qualsiasi volontà della società di cedere l’azienda a terzi e ai pregiudizi conseguiti al protratto stato di custodia giudiziaria.
Infine, all’udienza del 17.05.2018 le parti attrici precisavano le conclusioni, chiedendo la concessione dei termini per il deposito degli scritti conclusionali ex art. 190 c.p.c.
Motivi della decisione.
La domanda proposta da (…) S.r.l. CON SOCIO UNICO, ai sensi dell’art. 2476, co. 1 c.c., non può essere accolta.
Sulla base delle allegazioni e produzioni di parte attrice, risulta che effettivamente il (…) aveva posto in essere l’atto di cessione d’azienda, agendo in difetto del potere di rappresentanza, così violando un obbligo specifico determinato dalla legge, ed in particolare dall’art. 2479 c.c., relativo alla manifestazione della volontà della società.
L’art. 2479, comma 2, n. 5 c.c., infatti, riserva alla competenza dei soci “la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci”.
Si ritiene che l’atto posto in essere dall’amministratore rientri nella previsione di tale disposizione, poiché, essendo “(…)” l’unica attività esercitata dalla (…), la cessione dell’azienda a terzi ne avrebbe comportato il completo svuotamento e il venir meno dell’oggetto sociale, con conseguente necessità di liquidazione e successiva cancellazione dell’impresa. Infatti, secondo l’interpretazione dominante in dottrina e in giurisprudenza, per attribuire autonomia alla previsione del n. 5 dell’art. 2479 comma 2, rispetto al n. 4 che contempla le modificazioni dell’atto costitutivo, si deve ritenere che la modifica dell’oggetto sociale avvenga, in questo caso, in modo appunto “sostanziale”, come prevede la norma, senza la necessità che l’atto costitutivo sia modificato formalmente ai sensi dell’art. 2480 c.c..
Nonostante la correttezza dei rilievi di responsabilità evidenziati da parte attrice, nei termini sopra indicati, si deve rilevare che non è stato accertato quale sia il danno causato alla società per effetto della condotta posta in essere dal (…).
Infatti, ai sensi dell’art. 2476 c.c., per promuovere l’azione di responsabilità, non è sufficiente la sussistenza di una condotta inadempiente degli obblighi che gravano sull’amministratore, ma è necessario un quid pluris, cioè il danno risarcibile.
Al riguardo, si è sostenuto in giurisprudenza che
“Sebbene l’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci abbia natura contrattuale, in tema di onere della prova non vale il principio generale di cui all’art. 1218 c.c. All’attore spetta pertanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni addebitate, del patito danno e del nesso di causalità tra le une e l’altro, incombendo su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso e di fornire la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti” (Corte App. Milano 6.6.2012, in Società, 12, 972, in merito all’art. 2392 c.c., assimilabile all’art. 2476 c.c.; Cass. civ. n. 19742/2018).
Pertanto, chi promuove la suddetta azione deve allegare e provare sia l’esistenza di un danno concreto, consistente nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, sia la sussistenza del nesso di causalità tra tale danno e il fatto dell’amministratore inadempiente.
La (…) non ha assolto tale onere probatorio, in quanto nessun danno concreto è stato dimostrato.
Innanzitutto, nell’atto di citazione la società attrice includeva nel danno risarcibile le spese relative alle azioni legali che la (…) era stata costretta ad intraprendere al fine di far dichiarare l’inefficacia dell’atto di cessione d’azienda.
Tuttavia, la stessa parte attrice, nella memoria conclusionale, dà atto che la sentenza del Tribunale di Piacenza n. 140/2016 ha posto tali spese a carico della convenuta soccombente, (…), in solido con il terzo intervenuto, (…) S.p.a..
Nessun danno, dunque, è derivato alla società, per effetto delle iniziative giudiziarie. Si reputa, inoltre, irrilevante che detta sentenza sia stata appellata e che, quindi, la Corte d’Appello di Bologna possa nel prosieguo riformarla, in quanto da ciò non deriva la sussistenza di un danno attuale e concreto, ma soltanto la mera possibilità di un ipotetico danno futuro, non risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Il danno patrimoniale, infatti, ai sensi della norma citata, è composto dal danno emergente e dal lucro cessante.
La prima voce fa riferimento a quel danno immediato che si realizza con la perdita di valori economici già presenti nel patrimonio del danneggiato.
Il lucro cessante consiste, invece, nella mancata acquisizione da parte dello stesso di tali valori, purché sussista un pregiudizio economicamente valutabile e apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità (Cass. civ. n. 23304/2007). È evidente, dunque, come non possa essere riconosciuto il risarcimento di un danno solamente potenziale e remoto, come viene prospettato nel caso di specie da parte attrice.
Ad analoghe conclusioni si giunge in merito alle spese del custode giudiziario Dott. (…) e del di lui ausiliario, che sono state poste a carico dalla (…) S.p.a..
In secondo luogo, la (…) adduceva che il sequestro giudiziario, protrattosi per quasi cinque anni, aveva inciso profondamente sulle capacità reddituali dell’azienda, ciò in quanto: aveva provocato le dimissioni del personale e aveva reso difficile reperirne altro; aveva determinato un allontanamento dei clienti, venendo meno la riservatezza richiesta per tale tipo di attività; aveva provocato il blocco totale degli investimenti, non permettendo di porre in essere interventi di ammodernamento e rinnovamento.
Anche in tal caso, tuttavia, non è stata fornita alcuna prova concreta del danno lamentato.
I testi escussi su richiesta di parte attrice, infatti, si sono limitati a confermare che durante il periodo di custodia giudiziaria era difficile reperire nuovo personale e che numerosi clienti avevano smesso di frequentare il locale, ma senza circostanziare in alcun modo tali affermazioni. Non è stato fornito, infatti, nessun dato specifico che permettesse di quantificare, anche solo presuntivamente, l’effettiva consistenza di tale perdita di clientela, al fine di poter determinare il danno.
Ciò vale anche con riferimento alle presunte dimissioni da parte del personale assunto presso l’azienda “(…)” e alla difficoltà di reperirne di nuovo, circostanze che, tra l’altro, parte attrice avrebbe potuto provare anche documentalmente.
L’ipotetico pregiudizio che sarebbe derivato dal sequestro giudiziario non emerge neppure dai bilanci sociali prodotti. Non si rileva, infatti, nessuna consistente differenza tra i ricavi precedenti al 2011, anno del sequestro, e quelli successivi; al contrario gli utili sono andati progressivamente ad aumentare fino al 2013, subendo un calo solo a partire dal 2014.
Non vi è alcuna prova, tuttavia, che tale decremento dei ricavi sia ricollegabile al sequestro giudiziario, in quanto avvenuto a distanza di tre anni dallo stesso.
Pertanto, data la mancanza di prova di un depauperamento del patrimonio sociale, si ritiene che non possano essere accolte le domande proposte da (…).
Del tutto infondata risulta, inoltre, l’azione proposta da (…), ai sensi dell’art. 2476, comma 6, c.c.
L’azione individuale di responsabilità spettante al socio, infatti, presuppone che i danni dallo stesso subiti non siano solo il mero riflesso di quelli cagionati alla società, ma siano una conseguenza immediata e diretta del comportamento dell’amministratore (Trib. Roma 22.10.2018; in merito all’art. 2395 c.c., assimilabile al 2476, comma 6, c.c.; Cass. civ. n. 8458/2014).
(…), invece, non ha allegato, né tantomeno provato, alcun danno diretto nei propri confronti, limitandosi ad associarsi all’azione proposta da (…). Ciò è evidente non soltanto nel corpo dell’atto di citazione, ma anche nelle conclusioni dello stesso, in cui si chiede il risarcimento del danno solo a vantaggio di (…).
Per quanto esposto, le domande proposte da (…) S.R.L. A SOCIO UNICO e da (…) SRL IN LIQUIDAZIONE nei confronti del convenuto devono essere respinte.
In ragione della mancata costituzione in giudizio del convenuto (…), non si provvede sulle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale di Bologna, in composizione collegiale, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa o assorbita, così provvede:
-respinge le domande proposte da (…) SRL A SOCIO UNICO e (…) SRL IN LIQUIDAZIONE nei confronti di (…);
-nulla sulle spese.
Così deciso in Bologna il 28 marzo 2019.
Depositata in Cancelleria il 19 aprile 2019.