In tema di società, la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice di merito l’accertamento “aliunde “, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fiondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un ‘attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e la “affectio societatis”, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi. Nell ‘ambito del giudizio di merito l’esistenza di una società di fatto vada provata, in difetto di un contratto scritto, attraverso il ricorso a qualunque mezzo probatorio contemplato dall’ordinamento giuridico, ivi comprese le presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., purché l’accertamento dei tre requisiti sostanziali su cui si fonda la società di fatto avvenga in maniera rigorosa. In proposito, infatti, si è ritenuto di dover tenere distinta, da un lato, la prova del rapporto intercorrente internamente tra i soci e, dall’altro lato, la prova dei rapporti esterni esistenti tra questi ultimi e i terzi: mentre la prima non può che passare attraverso tutti gli elementi essenziali sopra menzionati sui quali si fonda la struttura della società di fatto, per la seconda è al contrario sufficiente che il vincolo sociale venga esteriorizzato per il tramite di comportamenti idonei a far sorgere in capo ai terzi un legittimo affidamento circa l’esistenza di una struttura societaria, con conseguente responsabilità solidale ex art. 2267 e 2297 c.c. dei soci di fatto.

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Tribunale|Lecce|Sezione 2|Civile|Sentenza|29 giugno 2022| n. 1997

Data udienza 28 giugno 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE

SECONDA SEZIONE CIVILE

Il Tribunale di Lecce – Seconda Sezione Civile, in composizione monocratica, in persona del dott. Italo Mirko De Pasquale, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di primo grado iscritta al numero d’ordine 804 del 2018, promossa da:

(…) S.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli dall’avv. (…)

-ATTRICE-

CONTRO

(…) S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. (…)

– CONVENUTA –

avente ad oggetto: altri contratti tipici.

FATTO e DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, depositato il 26.01.2018, la (…) S.r.l. ha convenuto innanzi all’intestato Tribunale la società (…) S.p.a. ai fine di accogliere le seguenti conclusioni,:

“1) accertare e dichiarare che il rapporto contrattuale in essere tra le parti è riconducibile ad una società di fatto, ove occorra con previsione di patto leonino, per tutte le motivazioni di cui al presente atto con ogni conseguenza di legge;

2) in subordine, nella denegata ipotesi di non qualificazione dei rapporti contrattuali intercorsi fra le parti come da punto a) delle conclusioni, accertare e dichiarare che il rapporto contrattuale in essere fra le parti è riconducibile ad una associazione in partecipazione o cointeressenza per tutte le motivazioni di cui al presente atto, con ogni conseguenza di legge;

3) in subordine, nella denegata ipotesi in cui l’III.mo Tribunale dovesse ritenere che i contratti stipulati dalle parti siano riconducibili nello schema affiliazione commerciale – affitto di ramo d’azienda accertare e dichiarare la loro nullità e/o annullabilità e/o inefficacia per tutte le motivazioni di cui al presente atto, con ogni conseguenza di legge;

4) nella denegata ipotesi in cui l’Onorevole Giudicante ravvisasse l’esistenza e la validità del contratto di affiliazione commerciale collegato al contratto di affitto di azienda e/o l’esistenza di un contratto misto generatosi fra le parti, esclusa la ricorrenza di una transazione, dichiarare inefficace e/o nulla e/o annullabile l’accordo sottoscritto dalle parti in data 18.11.2015, avente ad oggetto il rilascio dell’azienda per il 30.11.2016 ed accertare l’applicabilità delle norme imperative, con tutte le conseguenze, previste dalla L. n. 392 del 1978 (ivi compreso il pagamento dell’indennità per la perdita dell’accertamento commerciale) e dalla L. n. 129 del 2004 ed accertare l ‘abuso di diritto e/o di posizione dominante posta in essere (…) e per l’effetto, condannarlo al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi dalla (…);

5) in subordine dichiarare la nullità e/o annullabilità e/o inefficacia di tutti i contratti stipulati inter partes per tutte le ragioni esposte nella parte motiva eventualmente anche per l’abuso del diritto e/o posizione dominante posta in essere dalla convenuta e, per l’effetto, disporre la restituzione di quanto versato dalla (…) ad (…) in esecuzione dei detti contratti, condannando la convenuta a pagare/restituire quanto verrà accertato in corso di causa, oltre agli interessi dovuti per legge, nonché condannarla al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi dalla (…)

6) accertare, in estremo subordine, per le ragioni esposte nel presente atto la risoluzione di tutti i contratti conclusi fra le parti per inadempimento imputabile ad (…) condannare la convenuta al pagamento, ove occorra anche in via equitativa, della somma accertanda in corso di causa, oltre interessi come per legge;

7) condannare al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti e subendi dalla (…) anche per indebita escussione delle fideiussioni in violazione dell’art. 1237 c.c. e mancato pagamento delle merci rimaste in azienda al momento della riconsegna (5/12/2016), con restituzione delle relative somme;

8) Per l’effetto, condannare (…) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese e competenze professionali del presente giudizio, oltre Iva, Cap e rimborso forfetario al 15%, da distrarsi in favore dei sottoscritti procuratori che si dichiarano antistatari” il corsivo è tratto testualmente dalle conclusioni rassegnate nell’atto di citazione.

L’attrice in epigrafe ha dedotto:

che nel periodo tra il 1998-1999, il sig. (…) aveva acquistato dalla procedura Fallimentare aperta dinanzi al Tribunale di Lecce gran parte della catena dei negozi (…) per il tramite di una società denominata (…) e che da questa, a seguito di subentro nella misura del 50% di altri azionisti, era nata (…) s.r.l.; di aver trasferito nel 1998, con scritture private autenticate ad (…) ben tre rami d’azienda e che, quindi, inizialmente non sussisteva una rete commerciale nella quale affiliare l’istante; che nel 1999 il sig. (…) titolare della ditta individuale (…) s.r.l. con sede in (…) alla via (…) aveva stipulato un contratto di affiliazione commerciale con (…) s.r.l. per la gestione di un punto vendita, ubicato in S. D. (B.); che nel corso dello stesso anno aveva sottoscritto un ulteriore contratto di affiliazione commerciale con la convenuta per avviare un nuovo punto vendita E. in T. (T.); che tra il 2006 e il 2012 le parti avevano concluso ulteriori contratti di affiliazione commerciale e di affitto di ramo di azienda; che il giorno 27.11.2012 le parti avevano sottoscritto dapprima un contratto di affiliazione commerciale e, poco dopo, una scrittura privata autenticata denominata “contratto di affitto di ramo di azienda”;

che nel corso degli anni la (…) S.p.a. aveva aperto altri punti vendita di nuova generazione nelle vicinanze; che in data 28.05.2015 il responsabile dell’ufficio tecnico di (…) aveva preannunciato alla società attrice la risoluzione di tutti i contratti in essere, anche quello presso Tal sano;

che l’intimazione di cessare il contratto era stato comportamento consolidato e ripetuto nel tempo da (…) ma senza un effettivo seguito, stante il rinnovo automatico del contratto stesso;

che con lettera raccomandata, consegnata il 4.07.2015, era stato ufficialmente intimato dalla convenuta il rilascio di tutti i beni aziendali entro il 30.11.2015; di aver contestato, con raccomandata del 27.07.2015, il modus operandi di (…) e, facendo leva sulla tardività della disdetta, di aver sostenuto la validità del contratti posti in essere e il rinnovo per ulteriori tre anni dei rapporti contrattuali;

che (…) aveva intimato all’attrice di non opporsi alla riconsegna dei beni, previo avvertimento che, in difetto, avrebbe fatto uso della clausola risolutiva espressa, richiedendo la somma di 100.000,00 Euro a titolo di penale, oltre a 250,00 Euro per ogni giorno di ritardo nella consegna;

che in data 16.09.2015 (…) aveva richiesto l’adeguamento della fideiussione fino ad un importo massimo di 760.000,00 Euro nel termine di 15 giorni intimandole che, in difetto, il contratto sarebbe stato risolto immediatamente;

che l’attrice si era onerata a rilasciare la fideiussione contestando la tardività della disdetta che aveva comportato la proroga dei contratti per altri 3 anni; che (…) aveva negato la prosecuzione dei contratti e aveva chiesto il rilascio del punto vendita per il 30.11.2015 nonostante l’adeguamento della fideiussione; che il legale rappresentante della (…) aveva accettato di prorogare la consegna del ramo d’azienda al 30.11.2016 dietro promessa di permanenza della collaborazione commerciale e contestuale apertura di un nuovo punto vendita a Martina Franca (TA); di aver inviato al sig. (…) legale rappresentante della società (…) richiesta di proroga e le planimetrie dell’immobile sito su (…), ma che, pochi giorni prima della scadenza del contratto di affiliazione commerciale del punto vendita di Talsano, (…) aveva presentato alla (…) una scrittura privata che nulla prevedeva sull’apertura del nuovo punto vendita, ma si limitava a prorogare la validità del contratto di fitto di ramo di azienda e del relativo contratto di affiliazione commerciale fino al termine del 30.11.2016, con l’espressa previsione di rinuncia di parte attrice ad ogni futura pretesa, a nessun titolo e/o ragione, nei confronti (…) S.p.a. in relazione ai precedenti contratti; che la società attrice, ritenendo di essere incorsa in vizio di volontà/errore, aveva promosso ricorso cautelare di urgenza al fine di evitare il rilascio dell’azienda per la data ultima pattuita; che (…) avendo abusato della posizione dominante, aveva impedito all’attrice di proseguire l’attività sino alla decisione del ricorso cautelare;

che in data 5.12.2016 la (…) era stata costretta a riconsegnare l’azienda ad (…) comprensiva di merci pagate dall’attrice per il valore di circa 130.000,00 Euro, e a rinunciare al ricorso cautelare al fine di evitare il fallimento e il pregiudizio irreparabile per i la voratori/di pendenti;

che, successivamente, (…) aveva richiesto l’escussione della fideiussione in precedenza rilasciata da (…) nonostante la restituzione in originale della stessa, avendone ottenuto l’escussione parziale per la somma di 220.000,00 Euro, ed avendo esposto la (…) all’azione esecutiva di (…) che, pur nel regolare adempimento delle obbligazioni contrattuali, nel corso del rapporto la convenuta aveva abusato della propria posizione dominante e/o abuso di dipendenza economica.

La (…) S.p.a., ritualmente costituitasi nel presente giudizio, ha contestato tutto quanto ex adverso dedotto e concluso dall’attrice ed ha eccepito, in via preliminare, la nullità della domanda per la genericità del petitum, ed ha dunque rassegnato le seguenti conclusioni: “ritenute infondate, inconsistenti e temerarie le domande come formulate dall’attrice (…) s.r.l. e ove superata la eccezione di nullità delle stesse:

1) rigettare la domanda principale perché infondata in diritto e in fatto;

2) avuto riguardo alle domande subordinate, previa declaratoria di validità ed efficacia della scrittura privata sottoscritta dalle parti in data 18.11.2015, rigettare tutte le domande perché inammissibili oltre che infondate ed inconsistenti in fatto ed in diritto;

3) condannare l’attrice al pagamento delle spese e competenze di lite anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c. con distrazione in favore del procuratore della convenuta quale anticipatario ex art. 93 c.p.c.”.

Ha dedotto:

che nel 2012 tra le parti erano stati stipulati due contratti diversi, quello di affiliazione commerciale, individuabile come contratto-fine, e quello di affitto di ramo d’azienda, quale contratto-mezzo, costituito dal bene immobile e dai beni mobili del punto vendita in Tal sano;

che per l’affitto d’azienda le parti avevano pattuito ab origine un canone misto commisurato al 4% dei corrispettivi incassati con un minimo garantito di incasso determinato; che a garanzia del puntuale adempimento delle obbligazioni del contratto di affiliazione commerciale nonché per le obbligazioni assunte con il contratto di affitto d’azienda era stata consegnata da parte di (…) una fideiussione bancaria, con la previsione espressa che l’importo di questa sarebbe stato integrato nel termine di 15 giorni da richiesta in tal senso da parte dell’affili ante qualora l’esposizione fosse aumentata;

che nel contratto era stata prevista una penale nel caso di ritardata consegna dell’azienda a seguito della risoluzione del contratto; che l’affittuaria aveva accettato senza riserve tutte le clausole contrattuali, eguali a quelle precedentemente convenute in tutti i rapporti intercorsi tra le parti prima del 2012;

che la locatrice aveva inviato disdetta formale del contratto di affitto di azienda con raccomandata in data 27.05.2015 e che questa era stata tempestiva, stante la scadenza del contratto al 30.05.2015; di aver convenuto, con scrittura privata di natura sostanzialmente transattiva, la proroga di un anno del rilascio dell’azienda da parte dell’attrice, a fronte della rinuncia di (…) ad ogni pretesa in ordine ai contratti di affitto del ramo d’azienda e di affiliazione commerciale.

La causa, istruita documentalmente nonché mediante l’acquisizione di prova testimoniale, all’udienza del 15.03.2022, è stata trattenuta per la decisione sulle conclusioni delle parti – come in atti rassegnate – previa concessione del termine di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti difensivi conclusionali.

Così ricostruiti i termini della controversia, occorre preliminarmente statuire in ordine all’eccezione sollevata dalla convenuta di nullità dell’atto di citazione.

L’eccezione è infondata e, dunque, va disattesa.

Giova premettere che, a norma dell’art. 164 c.p.c., comma 4, la nullità della citazione si produce solo quando il petitum sia stato del tutto omesso o sia assolutamente incerto, oppure quando manchi del tutto l’esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda. Nella valutazione di conformità dell’atto al modello legale, l’identificazione dell’oggetto della domanda va, peraltro, operata avendo riguardo all’insieme di indicazioni contenute dell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi nullità solo quando, a seguito di tale esame, l’oggetto risulti assolutamente incerto. La nullità dell’atto di citazione può essere dichiarata soltanto in situazioni nelle quali l’incertezza investe l’intero contenuto dell’atto, non nel caso in cui risulti possibile individuare una o più domande sufficientemente identificate nei loro elementi essenziali (in tal senso, Cass., sez. I, n. 17023 del 12 novembre 2003 e n. 27670 del 21 novembre 2008).

L’eccezione sollevata dalla convenuta deve essere quindi rigettata, tenuto conto che questo Tribunale ritiene individuabile nell’atto di citazione sia il petitum, inteso sotto il profilo formale come provvedimento giurisdizionale richiesto e, sotto l’aspetto sostanziale come bene della vita di cui si chiede il riconoscimento, sia la causa petendi, desumendo complessivamente dal contenuto dell’atto i fatti costitutivi della domanda proposta dall’attore; si precisa, altresì, che la convenuta ha apprestato adeguate e puntuali difese sulle questioni inerenti il petitum attoreo.

Passando, quindi, al merito della presente controversia, appare opportuno rilevare come la stessa abbia ad oggetto il contratto di affiliazione commerciale e i contratti di affitto di azienda stipulati dalle parti nel 2012 per il P.V. sito in T. via (…)

1. L’attrice ha concluso che i rapporti contrattuali instaurati con (…) dal 1999 fino al 2012, abbiano dissimulato l’esistenza di una società di fatto tra le parti con previsione di patto leonino.

Orbene, costante giurisprudenza è univoca nell’affermare che “in tema di società, la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice di merito l’accertamento “aliunde “, mediante ogni mezzo di prova previsto dall’ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell’esistenza di una struttura societaria, all’esito di una rigorosa valutazione del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fiondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un ‘attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite e la “affectio societatis”, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi” (Cass. n. 896 del 17 gennaio 2020; in senso conforme Cass. n. 8981 del 5 maggio 2016; Cass. n. 5961 dell’11 marzo 2010).

Sotto il profilo più strettamente processuale, poi, la giurisprudenza ha altresì chiarito come “nell ‘ambito del giudizio di merito l’esistenza di una società di fatto vada provata, in difetto di un contratto scritto, attraverso il ricorso a qualunque mezzo probatorio contemplato dall’ordinamento giuridico, ivi comprese le presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., purché l’accertamento dei tre requisiti sostanziali su cui si fonda la società di fatto avvenga in maniera rigorosa. In proposito, infatti, si è ritenuto di dover tenere distinta, da un lato, la prova del rapporto intercorrente internamente tra i soci e, dall’altro lato, la prova dei rapporti esterni esistenti tra questi ultimi e i terzi: mentre la prima non può che passare attraverso tutti gli elementi essenziali sopra menzionati sui quali si fonda la struttura della società di fatto, per la seconda è al contrario sufficiente che il vincolo sociale venga esteriorizzato per il tramite di comportamenti idonei a far sorgere in capo ai terzi un legittimo affidamento circa l’esistenza di una struttura societaria, con conseguente responsabilità solidale ex art. 2267 e 2297 c.c. dei soci di fatto” (Cass., S.U., n. 2243 del 6 febbraio 2015).

Le considerazioni che precedono consentono a questo giudice di rigettare la domanda attorea in quanto la prospettazione di parte attrice non risulta supportata da alcun riscontro probatorio.

Difatti, la (…) ha posto a fondamento della propria domanda di accertamento esclusivamente due elementi che proverebbero la costituzione di una società di fatto: quanto al primo, trattasi di un contratto di affiliazione commerciale, ora franchising, con il quale (…) S.p.a. concedeva a (…) l’utilizzo verso corrispettivo, del know how di (…) nonché del marchio e l’insegna di questa, e si obbligava a rifornire l’affiliato di merce a marchio (…).

Sul punto non può tacersi che il contratto di affiliazione commerciale, è qualificabile come contratto di collaborazione tra imprese le quali rimangono giuri di camente indipendenti l’una dall’altra, senza dar vita ad alcuna struttura associativa, da annoverare nella categoria degli accordi “intuitus personae” atteso che, in virtù dello stesso, il franchisor si impegna a far entrare il franchisee nella propria catena di distribuzione, concedendogli di sfruttare, a determinate condizioni e dietro pagamento di una somma di denaro, brevetti, marchi, denominazione commerciale, know how allo stesso appartenenti.

Quanto al secondo, trattasi del contratto di affitto di ramo di azienda, per il quale le parti hanno pattuito la corresponsione di un canone misto, con una componente fissa ed una variabile legata alla dinamica dell’azienda.

Orbene, non può tacersi che, seppur tali contratti presentino un collegamento funzionale, tale per cui l’affitto di ramo d’azienda rappresenti un mezzo per realizzare il contratto di affiliazione commerciale, quale contratto fine, questi non realizzino un unico schema negoziale; tale collegamento, infatti, non può assurgere a prova dell’esistenza della struttura societaria, non essendo rinvenibili quegli elementi richiesti dalla norma e/o elaborati dalla giurisprudenza, per configurare la fattispecie: un fondo comune, la partecipazione dei soci di fatto agli utili e alle perdite dell’attività e la c.d. affectio societatis.

L’insufficienza del compendio probatorio con riguardo ai presupposti sostanziali comporta pertanto il rigetto della domanda attorea.

2. Non si rileva come i rapporti contrattuali possano essere ricondotti nello schema dell’associazione in partecipazione ovvero della cointeressenza, atteso che, a norma dell’art. 2549 c.c. il contratto di associazione in partecipazione appartiene alla categoria dei contratti di scambio, e, ai sensi di tale articolo, viene integrata la fattispecie del contratto di associazione in partecipazione ogniqualvolta l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.

Rilevante è quindi il sinallagma, costituito dalla partecipazione agli utili (e quindi al rischio d’impresa, di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite), a fronte di un determinato apporto dell’associato; la divisione delle perdite non viene considerata dalla legge quale elemento imprescindibile per la configurazione della fattispecie, avendo le parti possibilità di derogare a ciò. Nel caso in esame, si ritiene che l’attrice non abbia neppure provato l’esistenza eli uno degli elementi richiesti dall’art. 2549 c.c., ed in particolare non ha fornito prova dell’esistenza dell’apporto, quale elemento centrale del contratto eli associazione in partecipazione, caratteristica senza la quale il contratto non sussiste. A diverse conclusioni non può pervenirsi in relazione al rapporto eli cointeressenza, quale delineato dall’art. 2554 c.c. o di cointeressenza “impropria”, parimenti non priva di carattere sinallagmatico, laddove è prevista una partecipazione agli utili, ma non alle perdite, pur sempre in corrispettivo di un determinato apporto (cfr. Cass., n. 3442 del 8 giugno 1985).

Ricostruita in tal modo la necessaria qualificazione dei rapporti giuridici, si ritengono infondate le domanda di nullità, annullabilità, inefficacia dei contratti dedotti in causa. Pertanto, le domande vanno rigettate ritenendo questo giudicante che il nomen iuris dei contratti in questione sia conforme alla reale volontà delle parti e risponda alla sostanza giuridica.

Ad abundantiam, per quanto riguarda la controversa qualificazione del contratto di affitto di ramo di azienda e l’accertamento della nullità per patti contrari alla legge ex artt. 79, 27 ss. e 34 1. n. 392/1978, occorre ricordare che la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. El, n.15210 del 19 luglio 2005) ha precisato che la concessione del godimento di un locale adibito ad esercizio commerciale può integrare affitto di azienda, ovvero locazione di immobile munito di pertinenze, a seconda che – sulla base della effettiva e comune intenzione delle parti, in relazione alla consistenza del bene ed a ogni altra circostanza del caso concreto – oggetto del contratto sia un’entità organica e capace di vita economica propria (della quale l’immobile configura una mera componente, in rapporto di complementarità ed interdipendenza con gli altri elementi aziendali) oppure in via principale l’immobile medesimo (seppur dotato di accessori), come entità non produttiva.

Secondo questo Tribunale la vicenda in esame rappresenta una cessione di ramo di azienda; la forma giuridica del rapporto che le parti hanno inteso adottare, peraltro in sede di atto notarile, è, infatti, elemento decisivo. Del resto, oltre alla qualificazione formale, anche il contenuto del contratto conferma la stessa ricostruzione giuridica. Si legge infatti nel testo che: “è espressamente previsto e deciso tra le parti che la natura giuridica del rapporto scaturito dal presente contratto non è di locazione o sublocazione immobiliare, bensì di affitto di ramo di azienda in oggetto. Solo le norme relative ai contratti di affitto di ramo di azienda andranno pertanto applicate al presente contratto. Inoltre, le eventuali lacune che si dovessero ravvisare nel presente contratto non potranno essere colmate mediante applicazione, nemmeno per analogia, del contratto di locazione o sublocazione di immobile, ma solo ricorrendo alla normativa sui contratti di affitto di azienda”.

Par d’uopo rammentare che oggetto della cessione, oltre al locale commerciale sono, altresì, il Marchio ‘(…) e le attrezzature di cui all’elenco firmato dalle parti contraenti e dal notaio (…) Sulla base di questi elementi non può obiettarsi che la concessione del locale ad uso commerciale costituisce una mera componente del più ampio programma negoziale concordato tra le parti: la possibilità di avvalersi del marchio e dei segni distintivi del centro commerciale e, quindi, del suo avviamento, sono aspetti fondamentali e caratterizzanti l’intera vicenda in esame. Di conseguenza, la concessione delle “mura” è complementare ed interdipendente con gli altri elementi aziendali indicati.

Inoltre, giova ricordare che “la locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto di azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – l’immobile concesso in godimento – che assume una posizione di assoluta ed autonoma centralità nell’economia contrattuale, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi che, legati materialmente o meno ad esso, assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sui piano funzionale in una posizione di coordinazione – subordinazione, mentre, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, cosi che oggetto del contratto risulta proprio il complesso produttivo unitariamente considerato, secondo la definizione normativa di cui all’art. 2555 c.c.” (v. in tal senso, Cass. sez. in, n. 20815 del 26 settembre 2006).

Tanto premesso è necessario per escludere l’applicabilità della legge 392/1978 “Equo canone. Disciplina delle locazioni di immobili urbani”; nonché per rigettare la richiesta di (…) di percepire l’indennità di avviamento commerciale. Questa ultima, difatti, è stata esclusa dalle parti nello stesso contratto, ove al Punto 10, lettera g, è espressamente previsto che l’affittuaria si obbliga a “rinunciare sin d’ora a qualsiasi previsione e richiesta di indennizzo per l’avviamento commerciale”.

4. L’attrice ha eccepito che la condotta di (…) pur essendo conforme al contrattuale, diverga dall’interesse sotteso all’operazione economica, configurando nella specie un abuso di diritto e/o un abuso di posizione dominante; richiede, pertanto, la pronuncia di nullità, annullabilità ed inefficacia dei contratti di affiliazione commerciale e affitto di ramo di azienda. Occorre dunque verificare se tali abusi si siano mai verificati, giacché in mancanza di essi non può sussistere la nullità contrattuale di cui viene chiesto l’accertamento.

La giurisprudenza di legittimità si sofferma sul c.d. abuso di diritto statuendo che ricorra tale condizione “quando il titolare di un diritto soggettivo, lo eserciti con modalità irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale… Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare l’autore al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso” (Cass. sez. III, del 18 settembre 2009, n. 20106).

Il principio generale del divieto di abuso di diritto è accolto anche nel diritto dell’Unione e la giurisprudenza europea ne subordina l’applicazione al ricorso di un elemento oggettivo e di un elemento soggettivo. L’accertamento del primo richiede un insieme di circostanze dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa, l’obiettivo da essa perseguito non è stato raggiunto. L’accertamento del secondo richiede un insieme di circostanze dalle quali risulti che lo scopo essenziale dell’operazione è il conseguimento di un vantaggio indebito. Spetta al giudice comune verificare, conformemente alle norme nazionali in materia di onere della prova, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto dell’Unione, se sussistano gli elementi costitutivi di una pratica abusiva (in termini, CGUE C 423/15, C-155/13eC 110/99).

Nel caso di specie, l’attrice ritiene essersi verificato l’abuso di diritto nel recesso effettuato da E.I. dai contratto di affiliazione commerciale e di affitto di ramo di azienda.

Come affermato dalla giurisprudenza nazionale, “qualora un contratto preveda il diritto di recesso ad nutum, in favore di una delle parti, il giudice di merito non può esimersi dal valutare se l’esercizio di tale facoltà sia stato effettuato nel rispetto delle regole di correttezza e di buona fede, a cui deve improntarsi il comportamento delle parti. La mancanza della buonafede in senso oggettivo, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c., nella formazione e nell’esecuzione del contratto, può rivelare, infatti, un abuso del diritto, ossia un esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito. Tale sindacato deve essere esercitato in chiave di contemperamento degli interessi delle parti, secondo una prospettiva anche di equilibrio economico” (Cass., sez. II, n. 10324 del 29 maggio 2020; conf. Cass., sez. III, n. 20106 del 18 settembre 2009).

Con particolare riferimento al diritto di recesso dal contratto di franchising, l’art. 3, comma 3 della L. n. 129 del 2004 prevede che l’affiliante deve garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. La norma predetermina quindi la durata minima del contratto di franchising col fine di riequilibrare la disparità di potere contrattuale che può manifestarsi nella fase successiva alla stipulazione del contratto, per ovviare al pericolo che il franchisee, per il fatto di aver effettuato investimenti nella fase iniziale del rapporto, accetti condizioni contrattuali gravose da parte del franchisor, il quale minacci di recedere anticipatamente dal contratto, o di non rinnovare il contratto stesso. Il contratto, perciò, dovrà avere una durata sufficiente per ammortizzare gli investimenti del franchisee. In particolare, nei contratti di franchising a tempo determinato le parti non possono recedere liberamente, salvo che tale possibilità non sia espressamente prevista nel contratto.

Quanto riportato è necessario per considerare legittimo ed efficace il recesso esercitato da (…) dal contratto di affili azione commerciale, considerato che, come riferito da entrambe le parti all’interno del contratto di affiliazione commerciale (Parte 2, punto 4) e come sottolineato nelle comunicazioni intercorse tra esse e allegate al presente giudizio, il rapporto commerciale de quo succede ad un precedente rapporto di affiliazione commerciale per il medesimo punto vendita, tale per cui nessun nuovo investimento è stato posto a carico dell’affiliato; inoltre, il contratto stipulato nel 2012 è stato successivamente prorogato fino al raggiungimento dei tre anni, consentendo di realizzare una durata conforme alla previsione di legge ed idonea ad ammortizzare gli investimenti precedentemente effettuati dall’affiliato nel punto vendita.

Ritiene questo giudicante che non vi sia stata una eventuale deviazione dell’esercizio del diritto in questione rispetto allo scopo allo stesso attribuito dalle disposizioni di legge; lo scopo del diritto di recesso “ad nutum” è quello di porre fine ad una relazione contrattuale normalmente entro un termine di preavviso, senza bisogno di motivare o giustificare tale decisione. Di conseguenza, i giudici non possono valutare le ragioni che hanno condotto la parte a recedere, dal momento che, così facendo, trasformerebbero la nozione del recesso “ad nutum” in recesso “per giusta causa”, e ciò sarebbe contrario alle norme di legge. Anche in relazione al lamentato esercizio di diritto di recesso da parte della convenuta dal contratto di affitto di azienda, occorre rilevare che la giurisprudenza tende a distinguere la fattispecie della locazione di immobili aduso diverso da quello abitativo, soggetta alla L. n. 392 del 1978 art. 27 e ss., e la fattispecie dell’affitto di azienda o ramo di azienda, alla quale non si applica la suddetta normativa. La conseguenza è che nell’affitto di ramo di azienda il recesso è ammesso secondo le modalità e i tempi previsti nel contratto.

Corre l’obbligo di rimarcare che il dettato contrattuale (punto 4) riconosceva alla proprietaria il diritto di recedere in qualsiasi momento dal presente contratto, per qualsiasi motivo o causa, dandone comunicazione scritta all’affittuaria con almeno sei mesi di preavviso. Considerato che la decorrenza del contratto di affitto di ramo di azienda era stata stabilita di comune accordo per il 1/12/2012, dalla missiva versata in atti dalla stessa parte attrice si evince che il recesso esercitato da (…) mediante raccomandata giunta a conoscenza di (…) il 29/05/2015, non risulta essere tardivo, in quanto pienamente esercitato nel rispetto dei termini stabiliti dalle parti contrattuali, atteso che la scadenza del contratto era stata prevista per il 30/11/2015.

Ne consegue che né il recesso esercitato dalla convenuta, né la successiva risoluzione possono considerarsi contrari a buona fede, in quanto esercizio che facoltà espressamente previste dalle pattuizioni contrattuali.

Pertanto, giuste premesse, non si ritiene indicato alcun motivo che possa far ritenere o anche solo sospettare l’abuso del diritto da parte del convenuto.

La mera circostanza che questi abbia esercitato la facoltà di recedere dal contratto non può di certo dirsi contraria allo scopo per cui il diritto in questione è attribuito dalla normativa nazionale e sovranazionale, risultando, invece, pienamente conforme all’obiettivo perseguito e, perciò, sicuramente legittimo, essendo il recesso liberamente esercitatale e non subordinato ad alcuna motivazione, ma alla sola limitazione di carattere temporale, come visto rispettata. Nel prospettare l’esercizio di un diritto altrui come illegittimo solo perché contrario al proprio interesse, senza specificare a quale deviazione dal fine tipico conduca l’atto risolutivo, si incorre in una evidente petizione di principio.

Non sussiste, pertanto, alcuna violazione del divieto di abuso di diritto ed alcuna violazione degli obblighi di correttezza e buona fede, sulla quale possa anche solo teoricamente fondarsi la pretesa risarcitoria.

Passando all’analisi della sussistenza di un abuso di dipendenza economica a danno dell’attrice occorre preliminarmente richiamare parte della normativa.

In tema di abuso di dipendenza economica, l’art. 9 della L. n. 192 del 1998 dispone quanto segue: “1. È vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.

2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

3. Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo”.

Il divieto, seppur elaborato in materia di subfornitura, è applicabile ad ogni rapporto commerciale che presenti condizioni ingiustificatamente gravose cui è sottoposta un’impresa (cliente o fornitrice) che si trova in uno stato di dipendenza economica rispetto ad un’altra, la quale abusi di tale situazione, imponendo condizioni eccessivamente squilibrate a proprio vantaggio (sulla generale applicabilità della figura dell’abuso di dipendenza economica anche ad altre categorie contrattuali cfr. Cass., S.U., n. 24906 del 25 novembre 2011)

La mera imposizione di condizioni contrattuali non equilibrate non comporta tuttavia una dipendenza. Se infatti l’impresa che si afferma lesa dal comportamento della propria controparte contrattuale può scegliere di operare con terzi, allora non subisce una vera e propria dipendenza, potendo di fatto sottrarsi alle condizioni contrattuali inique. La dipendenza economica implica l’assenza di reali alternative per l’impresa svantaggiata costretta non solo a subire le condizioni contrattuali inique e a sottostare ad ogni pretesa del contraente forte, ma anche ad operare con esso a causa della mancanza di alternative sul mercato.

Venendo al caso in esame, va precisato che il rapporto di affiliazione scaturisce da una forma di collaborazione fra imprenditori che lascia inalterata l’autonomia e l’indipendenza dei due soggetti, sicché il rischio di impresa continua a gravare in capo all’affiliato (Trita Napoli, 20/10/2006, n. 10501; Trita Roma, sez. XI, 05/04/2006, n. 8148).

La scelta di costituire il rapporto di franchising è da ricollegare alla libera determinazione della società attrice, che peraltro già conosceva la realtà del marchio (…) avendo sottoscritto con essa, fin dal 1999, diversi contratti di franchising, circostanza per altro confermata dalla stessa attrice.

L’attrice, di fatto, non ha né allegato, né dimostrato la propria impossibilità di reperire sul mercato delle alternative rispetto all’affiliazione commerciale con la convenuta. Inoltre, dalla ulteriore analisi della questione, è stato possibile rilevare che le “imposizioni contrattuali gravose” che parte attrice lamenta essere causa di dipendenza economica, siano in realtà clausole standard comunemente utilizzare all’interno dei contratti di franchising. Una potenziale posizione di favore del franchisor è connaturale al contratto stesso di franchising, ma ciò non vale di per sé a determinare una mancata tutela del franchisee, tenuto conto che la L. n. 129 del 2005 impone espressamente al franchisor, almeno 30 giorni prima della firma del contratto, consegnare al franchisee tutte le informazioni specifiche relative alla rete e al rapporto commerciale che si intende instaurare. Era pertanto onere del franchisee esaminare con attenzione il contenuto dell’intero testo contrattuale prima della stipula del contratto e muovere nel contesto di tale fase di due diligence tutte le osservazioni che ritenesse opportune.

In tema di abuso di posizione dominante questo Tribunale rileva l’erroneità ed infondatezza della domanda proposta come “abuso di posizione dominante”, in assenza di qualsivoglia elemento introdotto dal franchisee a supporto della stessa, in termini di mercato rilevante ed altri profili antitrust eventualmente rilevanti.

A tali ragioni consegue il rigetto della domanda di nullità, annullabilità ed inefficacia dei contratti di affili azione commerciale e affitto di ramo di azienda e di restituzione di quanto versato per l’esecuzione di detti contratti perché infondata.

5. Per quanto attiene alla scrittura privata sottoscritta tra le parti in data 18.11.2015 avente ad oggetto il rilascio dell’azienda, l’attrice ha dedotto che questa, oltre ad essere annullabile ai sensi dell’art. 1972 c.c. perché riferita a contratti illeciti, sia affetta da errore ed estorta con minaccia e violenza e che tale scrittura non abbia natura transattiva in quanto si sostanzia nella volontà abdicati va da parte del solo affittuario ed affiliato.

Tanto premesso in fatto, ed avendo già statuito sulla liceità dei contratti in questione, l’esame delle difese rispettivamente svolte dalle parti impone al Tribunale di precisare, sotto il profilo qualificatorio, che tale scrittura ha sostanzialmente natura di transazione, in quanto ha ad oggetto reciproche pretese delle parti per la risoluzione di ogni questione controversa presente e futura: nel caso di specie, (…) accetta la proroga del rilascio dell’azienda per un periodo di un anno, rinunciando far valere le sue ragioni in ordine alla supposta tardività della disdetta, quindi all’opposizione alla restituzione da parte dell’affittuaria, e (…) dichiara di rinunciare a qualsiasi pretesa in relazione ai richiamati contratti, accettando, al contempo, di proseguire la attività presso il punto vendita di Talsano. Per tale motivo si conferma la natura transattiva della scrittura privata in quanto con essa entrambe le parti risultano pienamente soddisfatte e tacitate di ogni ragione di contesa comunque connessa con gli intercorsi rapporti.

Per ciò che attiene alla richiesta di invalidità, nullità, annullabilità dell’accordo sottoscritto tra le parti, l’attrice ha dichiarato di essere stata indotta in errore da (…) Per avere, quest’ultima, costretto a prorogare la consegna dei beni sotto falsa promessa dell’apertura di un nuovo punto vendita, e dietro avvertimento che il rifiuto avrebbe comportato di risoluzione immediata del contratto stesso. Orbene, non è possibile ritenere che la scrittura privata in questione possa essere annullata per errore non risultando alcuna “alterazione della rappresentazione della realtà”, né per errore in cui sarebbero caduta parte attrice, né per aver la convenuta indotto (con condotta commissiva o omissiva) in errore l’odierna attrice; altro, canto, promesso che, in base al principio onus probandi incumbit ei qui dicit l’onere di deduzione e prova in punto di annullabilità dell’atto negoziale grava su colui che sostiene quel fatto a sostegno della propria tesi, (art. 2697, comma 2, c.c.), il materiale acquisito per via documentale alla causa conduce ad una ricostruzione degli accadimenti alla luce della quale, nel caso di specie, nessun errore o dolo ex artt. 1427 e ss. c.c. è ravvisabile. Invero, non è stato dimostrato quale sia l’errore in cui è intercorsa (…) nella regolazione della vicenda dissolutiva dei rapporti, né quale condotta di (…) sia stata tale da incidere sulla formazione di volontà di controparte, potendo la convenuta avvalersi del diritto di risoluzione come contrattualmente previsto dalle parti.

Premesso che solo in sede di memoria ex art. 183 comma 6, n.1. l’attrice ha fatto esplicito riferimento alla violenza morale, ex art. 1434 c.c., condotta dalla minaccia di azionare la fideiussione rilasciata a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte, occorre rilevare che, in materia di annullamento del contratto per vizi della volontà, si verifica l’ipotesi della violenza, invalidante il negozio giuridico, qualora uno dei contraenti subisca una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dal comportamento posto in essere dalla controparte o da un terzo e risultante di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio.

Ove, poi, si consideri che, in base ad un recente orientamento della Cassazione, “la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1438 c.c., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, situazione che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l ‘esercizio del diritto medesimo, sia iniquo ed esorbiti dall’oggetto di quest’ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento” (Cass. sez. I, n. 20305 del 9 ottobre 2015), non può che ritenersi che, nel caso sottoposto all’attenzione, le allegazioni e deduzioni di parte attrice non siano sufficienti a fondare la domanda preposta, risultando sfornita di prova tanto l’incidenza causale concreta di quanto contestato sulla libertà di autodeterminazione, quanto la minaccia di sottoscrizione dell’atto del quale si domanda l’annullabilità. Ne consegue che non costituisce minaccia invalidante il negozio, ai sensi dell’art. 1434 e ss. c.c. la minaccia di far valere il diritto di escutere la fideiussione, avendo espressamente le parti pattuito nel contratto di affitto di azienda (veci Punto 7) che nel caso di ritardo e/o comunque difformità nelle modalità di restituzione rispetto a quanto convenuto, “la proprietaria potrà immediatamente escutere la fideiussione, incassando il relativo importo a titolo di penale, salvo il risarcimento dell’eventuale danno ulteriore”. Non può infatti dubitarsi che la scrittura privata di cui si chiede l’annullabilità, sia stata liberamente voluta dalle parti al fine di regolare pacificamente i rapporti giuridici tra essere intercorsi.

6. In merito alla deduzione di parte attrice sull’ indebita escussione delle fideiussioni, sul mancato pagamento delle merci rimasta in azienda e sulla restituzione delle relative somme, la domanda deve essere respinta in assenza di prova del danno lamentato e di supporto normativo che si attagli al caso in esame.

7. Le circostanze sin qui esposte inducono al rigetto della domanda di risoluzione di tutti i contratti stipulati inter-partes per inadempimento imputabile ad (…) risultando questa infondata. Non si ravvisa, infatti, in cosa sia consistito l’inesatto adempimento o l’inadempimento contrattuale di cui si richiede l’accertamento, considerato che i contratti hanno già avuto esecuzione permettendo alle parti di conseguire le utilità che si attendevano.

Le spese processuali vanno compensate stante la complessità e novità delle questioni giuridiche affrontate.

P.Q.M.

Il Tribunale di Lecce – Seconda Sezione Civile, definitivamente pronunciando nella causa civile n. 804 del R.G. 2018, così provvede:

rigetta la domanda attorea;

spese compensate.

Così deciso in Lecce il 28 giugno 2022.

Depositata in Cancelleria il 29 giugno 2022.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.