Per valutare il superamento o meno del c.d. tasso soglia quindi non devono sommarsi tra loro gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori, né le spese contrattualmente previste ad esempio per acquisire la perizia valutativa dell’immobile, ovvero per l’istruttoria o, ancora, per l’assenso alla cancellazione o per assicurare l’immobile, o a titolo di penale e così via, trattandosi di voci aventi tutte una causa diversa e distinta dalla corrispettività e proprio per l’indicata eterogeneità teleologica puntualmente confermata dagli artt. 644 c.p. e 1815 cod. civ.

Per approfondire la tematica degli interessi usurari e del superamento del tasso soglia si consiglia la lettura del seguente articolo: Interessi usurari pattuiti nei contatti di mutuo

Il contratto di leasing o locazione finanziaria

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Tribunale Pescara, civile Sentenza 10 gennaio 2019, n. 44

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di PESCARA

OBBLIGAZIONI E CONTRATTI CIVILE

in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Federico Ria ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella controversia civile in primo grado, iscritta al n. 824/14 R.A.C.C., vertente

TRA

Ma.Gi., nato (…) ed ivi residente alla via (…), (C.F.: (…)), rappresentato e difeso dall’Avv. Ci.Ch. del Foro di Pescara, (C.F.: (…)), ed elettivamente domiciliato presso il di lui studio in Pescara al Largo (…), giusta procura speciale in atti

OPPONENTE

CONTRO

Me. Spa, già Ce. S.p.A. rappresentata e difesa dall’Avv. An.Va. del foro di Firenze, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Ra.Fe. in Pescara alla Piazza (…) c/o Avv. Pa.Di., giusta procura speciale alle liti ai rogiti del Notaio Fr.Fe. di Firenze, rep. 36592, fasc. 16148, registrata a Firenze il 17.10.1995 al n. 739;

OPPOSTO

oggetto: opposizione a d.i. n. 2483/13 in materia di risoluzione di rapporto di leasing e altro

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con Decreto Ingiuntivo n. 2483/2013 Decr. Ing., emesso in data 06.11.2013, su ricorso depositato in data 30.10.2013, il Giudice Unico presso il Tribunale di Pescara ingiungeva al sig. Ma.Gi., nato (…) ed ivi residente alla via (…), di pagare immediatamente e senza dilazione autorizzando la provvisoria esecuzione, alla Me. S.p.A. già Ce. S.p.A. la somma complessiva di Euro 225.459,05, di cui Euro 215.479,61 per capitale ed Euro 9.979,44 per interessi convenzionali di mora fino al 27.06.2013, oltre gli ulteriori interessi di mora al tasso convenzionale dell’Euribor tre mesi – divisore 360 – pubblicato su il Sole 24 ore tempo per tempo vigente, maggiorato di 4 punti percentuali rapportato ad ogni giorno di mora maturati e maturandi e comunque nei limiti di legge, sulla somma capitale di Euro 215.479,61 dal 28.06.2013 al saldo oltre le spese, competenze ed onorari del presente procedimento e tutte le successive occorrende, nonché le spese della procedura monitoria liquidate in Euro 1.838,00 per competenze legali ed Euro 330,00 per esborsi, CPA e IVA come per legge, assegnando al medesimo ingiunto il termine di 40 giorni ai soli fini dell’opposizione.

A sostegno della domanda, oggetto della richiesta di ingiunzione, la Me. S.p.A. già Ce. S.p.A. aveva dedotto:

a.) “Che, la società ricorrente, come da contratto n. (…) del 17.04.2008, avrebbe concesso in locazione finanziaria al sig. Ma.Gi., nato (…) un determinato natante a tale scopo appositamente acquistato e consegnato direttamente dal venditore all’utilizzatore in data 23.04.2008;

b.) Che, il contratto in questione avrebbe previsto, originalmente il pagamento di 30 canoni mensili di Euro 1.999,90 e successivi 41 canoni mensili di Euro 7.747,72 oltre spese ed IVA;

c.) Che, altresì, le parti avrebbero concordato una modifica alle condizioni contrattuali prolungandone la durata; d.) Che, l’utilizzatore non avrebbe provveduto al pagamento dei canoni scaduti rispettivamente il 1/7, 1/8, 1/9, 1/10, 1/11, 1/12 2011, 1/1, 1/2, 1/3, %, 1/5, 1/6, 1/7, 1/8, 1/9, 1/10, 1/11, 1/12/2012, 1/1, 1/2, 1/3,1/4, 1/5, 1/6/2013; e.) Che, ai sensi dell’art. 7 del contratto e delle relative condizioni particolari, su tali somme sarebbero dovuti gli interessi di mora nella misura dell’Euribor tre mese – divisore 360 – pubblicato su il sole 24 Ore tempo per tempo vigente, maggiorato di 4 punti percentuali rapportato ad ogni giorno di mora, per la somma totale, al 27.06.2013 di Euro 9.979,44.

Avverso il suddetto provvedimento monitorio il sig. Ma., rappresentato, difeso ed elettivamente domiciliato come in atti, proponeva, ampia, formale ed illimitata opposizione nelle forme e termini previsti dalla legge ovvero mediante notifica dell’atto di citazione con fissazione dell’udienza al giorno 04.07.2014 provvedendo, altresì, ad iscrivere la causa a ruolo; in particolare, le argomentazioni in forza delle quali il sig. Ma. chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo ottenuto dalla Me. S.p.A. in uno al rigetto della domanda in esso contenuta erano: a.) inquadramento del contratto all’interno della figura contrattuale del “leasing traslativo” e, di conseguenza, l’applicazione dell’art. 1526 c.c. al contratto di leasing intercorso tra le parti; b.) eccessività della penale contrattuale; c.) presenza di condizioni usurarie;

d.) indeterminatezza delle condizioni contrattuali e mancato rispetto del principio di equivalenza finanziaria.

Si costituiva la Me. S.p.a., depositando propria comparsa di costituzione e risposta, la quale, con una serie articolata di motivi, contestava illimitatamente le avverse deduzioni e, in particolare, deduceva:

a.) l’inapplicabilità dell’art. 1526 c.c.;

b.) la legittimità della clausola penale prevista contrattualmente;

c.) l’infondatezza delle argomentazioni riguardanti la presenza di pattuizioni usurarie nel contratto;

d.) l’inconsistenza e la pretestuosità della eccepita indeterminatezza delle condizioni contrattuali e del mancato rispetto del principio di equivalenza finanziaria.

All’udienza del 09.04.2015 veniva disposta dal precedente assegnatario CTU diretta ad “accertare il valore di mercato dell’imbarcazione oggetto del leasing al giugno 2013”.

A seguito di alcuni rinvii, la causa veniva rinviata al 01.02.2018; udienza questa ove le parti rassegnavano le proprie conclusioni e questo GU rinviava per la discussione ex art. 281 quinquies, secondo comma, c.p.c. al 03.05.2018 con termini per conclusionali sino al 03.04.2018.

La domanda è infondata.

Questo giudicante non ignora certo il diffuso orientamento giurisprudenziale secondo cui dovrebbe distinguersi tra leasing di godimento e leasing traslativo e così applicare analogicamente a quest’ultimo la disciplina della vendita con riserva di proprietà e, più in particolare, l’art. 1526 c.c. in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore (cfr., tra le tantissime, Cass. sez. un., 7.1.1993, n. 65).

Conformemente ad altra parte della peraltro più recente giurisprudenza (su tutte Tribunale Roma, sez. VIII 05/07/2018 n. 13912), si ritiene tuttavia che tale orientamento non sia meritevole di acritica adesione, difettando tra le due fattispecie (leasing e vendita con riserva di proprietà) quella eadem ratio che giustifica il ricorso all’analogia.

In particolare deve osservarsi che nella vendita con riserva di proprietà l’effetto traslativo del diritto dominicale è l’obiettivo indefettibile del negozio e la sua realizzazione è necessariamente connessa all’adempimento dell’obbligazione del compratore, tant’è che quest’ultimo acquista la proprietà della cosa nel momento in cui paga l’ultima rata di prezzo, ossia con il completo adempimento dell’obbligazione a suo carico.

Di contro, nel leasing il programma negoziale prevede, almeno come ipotesi “normale”, che al momento del pagamento dell’ultimo canone, cioè con la definitiva estinzione delle obbligazioni di pagamento a carico dell’utilizzatore, quest’ultimo restituisca il bene locato alla parte concedente; è fatta salva la possibilità dell’utilizzatore di esercitare un’opzione di acquisto e diventare cosi, con il pagamento di un’ulteriore somma, proprietario del bene, ma un siffatto esito è rimesso ad una scelta discrezionale (opzionale, appunto) del contraente e non è certo, a differenza dell’altra fattispecie, la conseguenza giuridicamente necessaria dell’adempimento di tutte le obbligazioni di pagamento a carico di una delle parti.

Alla luce di quanto esposto è di tutta evidenza che l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. al leasing – anche a quello caratterizzato da elementi che secondo l’indirizzo prevalente consentirebbero di sussumerlo nel genere del “leasing traslativo” – darebbe luogo a risultati paradossali.

Invero, nel caso di cui l’utilizzatore abbia pagato tutti i canoni e, al termine del contratto, non eserciti l’opzione di acquisto, l’art. 1526 c.c. non potrebbe operare, trovando esso applicazione nei soli casi di risoluzione del contratto (evidentemente non ipotizzabile allorché tutti i canoni siano stati pagati), mentre tale disposizione si applicherebbe qualora l’utilizzatore si trovi ad essere inadempiente nel pagamento dei canoni periodici.

Con la conseguenza, appunto paradossale, di “premiare” il contraente inadempiente e di penalizzare quello fedele. Sembrerebbe pertanto più corretto escludere l’applicazione analogica dell’art. 1526.

La funzione dell’art. 1526 c.c., che occorre comunque preservare, è peraltro quella di precludere un indebito arricchimento dell’alienante, non certo quella di precludere il diritto al risarcimento del danno in caso di risoluzione: che è poi il diritto della parte fedele al contratto a essere posta nella medesima situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovata se il contratto avesse avuto regolare esecuzione.

Cass. S.U. n. 65 del 1993 ha infatti dato applicazione alla norma giustificandola nel senso del divieto di un ingiustificato arricchimento, ma non ha inteso smentire il diritto al risarcimento dell’interesse positivo; se così fosse stato, si sarebbe finito per teorizzare l’esistenza di un contratto che, una volta risolto per inadempimento, obbliga la parte inadempiente a un risarcimento del solo interesse negativo (ossia: solo un equo compenso per avere l’utilizzatore fatto uso del bene): conclusione che sarebbe evidentemente inaccettabile.

Consegue che nell’ambito del leasing si deve riconoscere al concedente, in caso di risoluzione, il pieno risarcimento dei danni, integrati dal mancato incameramento dei canoni, degli interessi e del prezzo di riscatto che avrebbe percepito in caso di regolare esecuzione del contratto (cfr. Cass. n. 888/2014, punto 3.1 della motivazione).

A fronte dell’incameramento di tutti i canoni, l’esigenza di evitare l’arricchimento ingiustificato derivante dal valore degli stessi e di quello del bene oggetto del contratto, viene allora già concretamente soddisfatta applicando le regole proprie della corretta quantificazione del risarcimento del danno; queste impongono in capo al danneggiato di tenere conto, nel quantificare il danno, del risparmio di spesa derivante dall’essere esonerato, via risoluzione, dall’adempiere la propria prestazione, ossia il trasferire il bene.

In concreto, ciò si verifica nel momento in cui il concedente imputa in favore dell’utilizzatore inadempiente il valore del bene oggetto di leasing in forza ad esempio di apposita clausola contrattuale, costantemente rinvenibile nella contrattualistica in uso presso le società di leasing, nell’ambito delle clausole generali, relative alle conseguenze della risoluzione (Tribunale Milano, sez. VI 02/07/2018).

Anche la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cassazione civile, sez. III 12/06/2018 n. 15202) ha peraltro confermato innanzi tutto che l’introduzione nell’ordinamento, tramite il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 59, dell'(attuale) L. Fall., art. 72 quater, non consente di ritenere superata la distinzione tra leasing finanziario e traslativo e le differenti conseguenze che da essa derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore (Cass. 29/04/2015, n. 8687).

La norma della Legge fallimentare non risulta cioè applicabile in luogo dell’art. 1526 c.c., perché non disciplina la risoluzione del contratto di leasing (traslativo), ma il suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore, essendo dunque destinata a disciplinare una fattispecie diversa.

E’ stato peraltro precisato che l’art. 72 quater, trova circoscritta applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente al momento del fallimento dell’utilizzatore, mentre, ove si sia già anteriormente risolto, occorre appunto distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o traslativo, solo per quest’ultimo potendosi utilizzare, in via analogica, l’art. 1526 c.c. (Cass. 09/02/2016, n. 2538, Cass. 13/02/2017, n. 3750, Cass. 07/09/2017, n. 20890, Cass. 15/09/2017, n. 21476).

In questo quadro è stato anche di recente ribadito in sede di legittimità il principio generale per cui al leasing traslativo si applica la disciplina della vendita con riserva della proprietà, sicché, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo ha diritto alla restituzione delle rate riscosse solo dopo la restituzione della cosa, mentre il concedente ha diritto, oltre al risarcimento del danno, a un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto (Cass. 20/09/2017, n. 21895, citata ad altri fini, qui trattati sub 2.2., nella memoria della resistente).

Ciò posto, deve d’altra parte rilevarsi che la stessa giurisprudenza di legittimità, in applicazione del disposto di cui all’art. 1526 c.c., comma 2, ha osservato come, nel caso, le parti ben possano convenire l’irripetibilità dei canoni versati al concedente in esito alla risoluzione del contratto, con patto avente natura di clausola penale che ne preclude, nel giudizio successivamente instaurato, la rilevabilità d’ufficio e la deducibilità dopo il decorso dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., trattandosi di eccezione (e non necessariamente domanda) in senso stretto (Cass. 12/09/2014, n. 19272).

Nella fattispecie in scrutinio è rimasto accertato che si verte in ipotesi di leasing traslativo, e che le parti hanno regolato gli effetti della risoluzione anticipata dell’accordo.

Come trascritto dalla stessa difesa della opponente, le parti, stabilivano che in caso di risoluzione per inadempimento, il sig. Ma. avrebbe dovuto, (…), immediatamente restituire al Concedente il Bene, completo di ogni accessorio, nel modo e nel luogo dal Concedente indicati, a propria cura e spese.

L’Utilizzatore sarà inoltre tenuto a rilevare indenne il Concedente da ogni danno derivante dalla propria inadempienza o dalla Risoluzione del contratto.

A tale ultimo riguardo le parti convengono pertanto sin da ora che, fermo in ogni caso l’obbligo dell’Utilizzatore di pagare al Concedente i Canoni decorsi insoluti con ogni relativo accessorio, l’Utilizzatore sarà altresì tenuto a versare immediatamente al Concedente medesimo, a semplice richiesta scritta di quest’ultimo, il valore attualizzato di tutti i canoni contrattualmente previsti come dovuti dopo la Risoluzione, nonché del prezzo convenuto per l’acquisto dei beni a fine rapporto.

L’Attualizzazione sarà operata al tasso indicato nelle Condizioni Particolari e con riferimento alla data della Risoluzione. Sulla somma così da corrispondere graveranno, dalla Risoluzione e fino a copertura del debito, Interessi Moratori nella misura indicata nelle Condizioni Particolari”.

Deve quindi e innanzi tutto rilevarsi che è venuta in gioco l’applicazione di una clausola comunque conforme alla “ratio” dell’art. 1526 c.c. e sussumibile nella cornice della clausola penale ammessa dall’art. 1526 c.c., comma 2.

La sussunzione del patto de quo nei termini di clausola penale è dunque conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione, che, peraltro, ha avuto modo di precisare che al fine di accertare se sia manifestamente eccessiva, agli effetti dell’art. 1384 c.c., la clausola penale che attribuisca al concedente, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento e in più la proprietà del bene, occorre considerare se detta pattuizione attribuisca allo stesso concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, tenuto conto che il risarcimento del danno spettante al concedente deve essere, come visto, tale da porlo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass. 07/01/2014, n. 888; sulla portata generale della possibilità di esercitare d’ufficio i poteri ex art. 1384 c.c., di recente, cfr. Cass. 25/10/2017, n. 25334, punto 3).

In relazione allora ai diversi aspetti sollevati (diritto al risarcimento integrale del danno comunque da garantirsi in favore del concedente e misura della clausola penale convenuta, idonea ex secondo comma a paralizzare l’operatività del disposto di cui al primo comma dell’art. 1526 cit.), si evidenzia quanto segue

A fronte del finanziamento effettuato dalla Ce. attraverso il pagamento al Fornitore della prezzo del natante, per la somma di Euro 331.000,00 l’Utilizzatore avrebbe dovuto complessivamente restituire un importo pari circa a 400.000,00 Euro, oltre IVA come per legge.

Nel corso del contratto il signor Ma. ha corrisposto il macrocanone iniziale, n. 30 canoni da Euro 1.990,90 = e n. 2 canoni da Euro 7.747,72, il tutto per complessivi Euro 108.592,44 = oltre IVA di legge.

Ora, anche a sommare a tale importo l’imponibile (ovverosia il capitale al netto, dell’IVA di legge e delle spese accessorie) di cui al ricorso per ingiunzione, pari a Euro 185.945,28 = avremmo un “recupero” per complessivi Euro 294.537,72 = ovverosia addirittura inferiore al mero importo finanziato.

Considerato che il CTU, a seguito delle osservazioni del CTP di parte Opposta, ha valutato il valore di mercato dell’imbarcazione al momento della risoluzione tra i 105.000,00 e i 115.000,00 Euro, consegue che, dalla richiesta monitoria del pagamento di Euro pari a Euro 185.945,28 oltre IVA ed interessi non può derivare alcun illecito ed ingiustificato arricchimento in favore di Me. S.p.A. (già Ce. S.p.A.) e/o in danno del signor Ma.

Se poi si tiene conto delle ingenti spese sostenute dall’odierna parte Opposta per il ritiro dell’imbarcazione e, soprattutto, per il pagamento della sosta dello stesso non corrisposta dall’utilizzatore (cfr. doc. 1 allegato alla 2a Memoria 183 di Controparte), contrariamente ai suoi doveri contrattuali, la “perdita” patita dalla società di leasing risulta ancora più eclatante.

Per quanto concerne poi la mancata indicazione in contratto del taeg/isc si osserva quanto segue. Il contratto di leasing deve riportare il t.a.e.g., ai sensi del d. lgs. n. 385/1993 al più solo se stipulato con un consumatore (cfr. l’art. 125-bis d. cit.), e peraltro nei limiti di valore di cui all’art. 122 D.Lgs. cit. (attualmente pari ai finanziamenti compresi tra Euro 200,00 ed Euro 75.000,00).

Negli altri casi, è sufficiente che il testo del contratto riporti (come nel caso di specie) il c.d. tasso leasing, qualora stipulato a far tempo dall’1.10.2003 (cfr. le istruzioni della Banca d’Italia pubblicate sulla Gazzetta ufficiale, supplemento, del 19.8.2003).

Il tasso leasing è il tasso che consente in sostanza di realizzare l’equivalenza finanziaria tra capitale erogato all’inizio del rapporto e i successivi canoni (propriamente: è il tasso c.d. interno di attualizzazione per il quale si verifica l’uguaglianza fra costo di acquisto del bene locato al netto delle imposte e valore attuale dei canoni e del prezzo dell’opzione finale di acquisto al netto delle imposte).

Si noti che per i contratti stipulati in epoca anteriore, la prassi riteneva necessario e sufficiente l’indicazione del numero e dell’ammontare dei canoni, nonché la periodicità degli stessi, oltre alle ulteriori spese.

La tesi presumibilmente si basa sul presupposto che in forza del provvedimento della Banca d’Italia del 24 maggio 1992, esecutivo della L. n. 154 del 1992, l’indicazione del tasso non era prevista; in senso contrario, a parte l’applicabilità dell’art. 1284 c. III c.c., si deve rilevare che il provvedimento si limitava a regolare la pubblicità delle condizioni contrattuali, non anche il contenuto dei contratti, e non smentiva la L. n. 154/1992, in base alla quale, ex art. 4, i contratti dovevano riportare i tassi d’interesse (e in caso di mancanza si prevedeva l’applicazione, nel caso di specie, del tasso nominale minimo dei buoni ordinari del tesoro annuali emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto. Analogamente, anche con riguardo ai contratti conclusi dagli intermediari finanziari (cfr. l’art. 115) il d. lgs. n. 385/1993, ex art. 117 c.c. 4 e 7, prevede l’applicazione di analogo tasso in caso di mancata indicazione del tasso contrattualmente convenuto.

Si precisa, infine, che neppure deve ricorrere l’indicatore sintetico di costo (arg. in base alle disposizioni della Banca d’Italia 29.7-2009, sez. II Par. 8, ove non si prevede il contratto di leasing tra i contratti che devono riportare tale dato; cfr. anche la decisione A.b.f. n. 4974/2015.

Nel contratto in atti è comunque espressamente indicato il “tasso interno di attualizzazione”, unico indicatore finanziario di costo specifico per i contratti di locazione finanziaria come stabilito, ex art. 117 n. 8 del T.U.B., dalle Istruzioni della Banca d’Italia.

Si evidenzia, inoltre, che tutti gli oneri (spese accessorie ecc.) applicati e applicabili in corso di contratto risultano espressamente pattuiti dall’art. 4 del contratto (cfr. doc. 1 del ricorso per ingiunzione).

É peraltro evidente che nel contratto di leasing l’esigenza di determinatezza della prestazione a carico dell’utilizzatore è soddisfatta con la precisa indicazione del numero e della misura dei canoni da pagare mentre l’indicazione del tasso di interesse – che peraltro può essere soltanto un tasso nominale dal momento che esso è destinato necessariamente a mutare nel corso del rapporto per effetto dell’operare della clausola di indicizzazione – ha un valore puramente formale e non è certo tale da ingenerare dubbi sull’entità dell’obbligazione pecuniaria a carico del cliente che è già, ex ante, puntualmente quantificata (salva la sola variabilità derivante appunto dall’indicizzazione di cui sono comunque fissati i criteri di applicazione).

Ben diversa è invece la situazione che caratterizza altri contratti aventi funzione di finanziamento (si pensi all’apertura di credito) nei quali il cliente non conosce a priori l’entità della somma di denaro che dovrà pagare in corrispettivo della prestazione finanziaria ricevuta dalla controparte sicché il tasso di interesse è in questi casi un elemento fondamentale per quantificare l’obbligazione pecuniaria a carico della parte finanziata al momento della scadenza e lo stesso deve quindi essere puntualmente determinato.

La censura di usurarietà non è stata infine supportata dal necessario, tempestivo (entro cioè il termine fissato per le asserzioni fattuali) deposito dei decreti ministeriali determinativi del tasso – soglia usurario e non può certo soccorrere il principio jura novit curia di cui agli artt. 113 c.p.c., e 1 disp. prel. c.c., inapplicabile a meri atti amministrativi quali sono appunto i riferiti decreti (cfr. Cass. 26.6.2001, n. 8742; Cass. 5.8.2002, n. 11706) e si fonda sostanzialmente su costi assolutamente non utilizzabili quali parametri di riferimento per la verifica dell’eventuale superamento dei tassi soglia.

L’attore infatti che contesti il superamento dei tassi soglia ha l’onere non solo di indicare in modo specifico in che termini sarebbe avvenuto tale superamento, ma anche e, comunque, di produrre i decreti e le rilevazioni aventi per oggetto i tassi soglia (che costituiscono un provvedimento amministrativo e non normativo, con la conseguenza che ad essi non è applicabile il principio iura novit curia).

Infatti, l’art. 113, comma 1, c.p.c. va letto ed applicato con riferimento all’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile, che non comprendono gli atti suddetti tra le fonti del diritto. La Corte di Cassazione è costante nell’affermare l’inapplicabilità del principio iura novit curia ai DM: in questo senso, si vedano Cass. 7374/ 16 (relativa proprio ai DM in materia di usura); Cass. SS.UU., 9941/09; Cass. 12476/02, in Mass. Giust. civ., 2002, 1574; Cass. 11317/03 e Cass. 8742/01 in Mass. Giust. civ., 2001, 1272, queste ultime proprio in tema di decreti ministeriali determinativi del TEGM. Negli stessi termini, anche la giurisprudenza di merito (Trib. Latina, 28 agosto 2013 in (…); Trib. Nola, 9 gennaio 2014, in (…); Trib. Ferrara, 5 dicembre 2013, in (…); Tribunale Mantova, sez. II, 12/04/2016, n. 451 e Tribunale Mantova, sez. II, 13/10/2015, n. 942, in (…); Tribunale Roma, sez. VIII, 08/06/2013, n. 12523 in Redazione Giuffrè 2013; Tribunale Napoli, 04/11/2010 in Giurisprudenza di Merito 2011, 4, 981; Trib. Cremona, 17/1/17 in (…) e Tribunale Savona su cui più diffusamente infra).

Il giudizio in punto di usurarietà si basa poi sul raffronto tra un dato concreto (lo specifico TEG applicato nell’ambito del contratto oggetto di contenzioso) ed un dato astratto (il TEGM rilevato con riferimento alla tipologia di appartenenza del contratto in questione), sicché – se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo – il dato che se ne ricava non può che essere in principio viziato.

In sostanza, l’utilizzo di metodologie e formule matematiche alternative, non potrebbe che riguardare tanto la verifica del concreto TEG contrattuale, quanto quella del TEGM: il che significa che il CTU, chiamato a verificare il rispetto della soglia anti – usura – non potrebbe limitarsi a raffrontare il TEG ricavabile mediante l’utilizzo di criteri diversi da quelli elaborati dalla Banca d’Italia, con il TEGM rilevato proprio a seguito dell’utilizzo di questi ultimi, ma dovrebbe viceversa procedere ad una sorta di nuova rilevazione del TEGM, sulla scorta dei parametri da lui ritenuti validi, per poi operare il confronto.

Con la recente sentenza n. 16303/18, le SS.UU., in materia di cms e usura, hanno chiaramente statuito che la asimmetria tra modalità di calcolo del TEG concreto e del TEGM (per il periodo antecedente la legge n. 2/09) contrasterebbe palesemente con il sistema dell’usura presunta come delineato dalla L. n. 108 del 1996, la quale definisce alla stessa maniera (usando le medesime parole: “commissioni”, “remunerazioni a qualsiasi titolo”, “spese, escluse quelle per imposte e tasse”) sia – all’art. 644 c.p., comma 4, – gli elementi da considerare per la determinazione del tasso in concreto applicato, sia – alla L. n. 108, art. 2, comma 1, cui rinvia l’art. 644 c.p., comma 3, primo periodo, – gli elementi da prendere in considerazione nella rilevazione trimestrale, con appositi decreti ministeriali, del TEGM e, conseguentemente, per la determinazione del tasso soglia con cui va confrontato il tasso applicato in concreto; con ciò indicando con chiarezza che gli elementi rilevanti sia agli uni che agli altri effetti sono gli stessi.

Per valutare il superamento o meno del c.d. tasso soglia quindi non devono sommarsi tra loro gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori, né le spese contrattualmente previste ad esempio per acquisire la perizia valutativa dell’immobile, ovvero per l’istruttoria o, ancora, per l’assenso alla cancellazione o per assicurare l’immobile, o a titolo di penale e così via, trattandosi di voci aventi tutte una causa diversa e distinta dalla corrispettività e proprio per l’indicata eterogeneità teleologica puntualmente confermata dagli artt. 644 c.p. e 1815 cod. civ. (Tribunale Monza, sez. I, 09/06/2016, (ud. 12/05/2016, dep.09/06/2016), n. 1688).

Nel senso che la formula della Banca d’Italia è imprescindibile e non c’è spazio per una formula TAEG, si vedano Tribunale di Milano, 1903-2015 n. 3586 in http: (…), nonché Trib. Monza 2205/ 16 del 20 luglio 2016 in (…); Tribunale di Pistoia, 222/ 17 del 7 marzo 2017 in (…). Con riferimento specifico alla inutilizzabilità della formula TAEG applicata in sede di usura invocata da parte attrice, si veda Trib. Catanzaro sez. II civ., sentenza 7 febbraio 2013, in (…) secondo cui la formula TAEG (che al numeratore della formula suddetta trovano allocazione anche le imposte, escluse dal calcolo del T.E.G.) non è utilizzabile ai fini dell’usura in quanto “creata non già per verificare quale sia il tasso effettivo globale praticato dagli istituti di credito onde individuare il tasso soglia di usurarietà, ma allo scopo di indicare al consumatore che intenda accedere al credito al consumo il costo totale del credito, espresso in percentuale annua dell’importo totale del credito (art. 121, comma 1, lett. m), D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385)”.

Tali conclusioni sono state recepite anche dalla stessa Corte di Cassazione la quale ha affermato (sent. 12965/16):

“In definitiva, può sostenersi che quand’anche le rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia dovessero considerarsi inficiate da un profilo di illegittimità (per contrarietà alle norme primarie regolanti la materia, secondo le argomentazioni della giurisprudenza penalistica citata), questo non potrebbe in alcun modo tradursi nella possibilità, per l’interprete, di prescindervi, ove sia in gioco – in una unitaria dimensione afflittiva della libertà contrattuale ed economica l’applicazione delle sanzioni penali e civili, derivanti dalla fattispecie della cd. usura presunta, dovendosi allora ritenere radicalmente inapplicabile la disciplina antiusura per difetto dei tassi soglia rilevati dall’amministrazione. Ed in effetti, l’utilizzo di metodologie e formule matematiche alternative, non potrebbe che riguardare tanto la verifica del concreto TEG contrattuale, quanto quella del TEGM: il che significa che il giudice – chiamato a verificare il rispetto della soglia anti – usura – non potrebbe limitarsi a raffrontare il TEG ricavabile mediante l’utilizzo di criteri diversi da quelli elaborati dalla Banca d’Italia, con il TEGM rilevato proprio a seguito dell’utilizzo di questi ultimi, ma sarebbe tenuto a procedere ad una nuova rilevazione del TEGM, sulla scorta dei parametri così ritenuti validi, per poi operare il confronto con il TEG del rapporto dedotto in giudizio”.

Ancor più recentemente, la Cassazione (sent. 22270/16) ha affermato che “dev’essere infine ravvisato nell’esigenza di assicurare che l’accertamento del carattere usurario degli interessi, dal quale dipende l’applicazione delle sanzioni civili e penali previste al riguardo, abbia luogo attraverso la comparazione di valori tra loro omogenei. Poiché, infatti, ai fini della configurabilità della fattispecie dell’usura c.d. oggettiva, occorre verificare il superamento del tasso soglia, determinato mediante l’applicazione della maggiorazione prevista dalla L. n. 108 del 1996, art. 2, comma 4, al tasso effettivo globale medio trimestralmente fissato con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze in base alle rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia conformemente alle citate istruzioni, è necessario che il tasso effettivo globale applicabile al rapporto controverso, da porre a confronto con il tasso soglia, sia calcolato mediante la medesima metodologia” (nei termini sin qui esposti Tribunale Savona 02/05/2017 n. 517).

Gli assunti attorei in punto di usura, tutti smentiti dalle considerazioni sin qui esposte, non possono pertanto trovare accoglimento, anche tenuto conto del fatto che la formula adottata dal ctp di parte attrice per il calcolo del TEG è proprio diversa da quella indicata nelle istruzioni Banca d’Italia per come innanzi citate, include nel TEG anche la commissioni varie.

L’opposizione deve essere pertanto rigettata.

Le spese seguono la soccombenza, anche tenuto conto della condotta della parte opponente che ha rifiutato l’offerta formulata dalla parte opposta sostanzialmente in linea con quanto riconosciuto in favore di questa nel presente ambito decisorio.

P.Q.M.

rigetta l’opposizione e per l’effetto conferma in ogni sua parte il d.i. n. 2483/13, che dichiara definitivamente esecutivo;

condanna l’opponente al pagamento delle spese processuali in favore dell’opposto che per compensi professionali liquida in Euro 2.700,00 fase studio, 1.800,00 fase introduttiva, 6.000,00 fase trattazione e 4.700,00 fase decisionale, oltre spese generali al 15%, iva e cassa come per legge.

Così deciso in Pescara il 10 dicembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 2019.

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Avv. Umberto Davide

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