Il diritto alla riservatezza – il cui fondamento normativo va ravvisato, al di là dalla sussistenza di altre e più specifiche previsioni, nell’art. 2 della Costituzione – consiste nella tutela di situazioni e vicende di natura personale e familiare dalla conoscenza e curiosità pubblica, situazioni e vicende che soltanto il relativo protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero di difendere da ogni ingerenza – sia pur realizzata con mezzi leciti e non implicante danno all’onore o alla reputazione o al decoro – che non trovi giustificazione nell’interesse pubblico alla divulgazione; la lesione di tale diritto può aversi, sia con riguardo a persona nota, sia ignota, benché, quanto alla prima, può più facilmente operare il meccanismo di cui all’art. 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633, con la conseguenza che una pubblicazione (nella specie, di fotografie) che avvenga senza il consenso dell’interessato ben può accompagnarsi ad un’esigenza pubblica di informazione, del pari costituzionalmente tutelata. La lesione del suddetto diritto è configurabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., al quale, peraltro, non consegue un’automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e quale sia la difficoltà di provare tale entità. Più precisamente, è ius receptum che l’immagine di una persona costituisce dato personaleimmediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà sicché la pubblicazione di una fotografia, costituisce trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell’informativa, in quanto nel caso di pubblicazione senza il consenso della persona ritratta, ove sia fornita la prova della portata lesiva del fatto, deve essere accolta la relativa domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, salvo che l’immagine sia utilizzata nel contesto dell’esimente del diritto di cronaca e nei relativi limiti.

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Tribunale|Messina|Sezione 1|Civile|Sentenza|5 dicembre 2022| n. 2070

Data udienza 2 dicembre 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI MESSINA

I SEZIONE CIVILE

Il Giudice del Tribunale di Messina, prima sezione civile, dott.ssa Simona Monforte, in funzione di giudice monocratico, ha reso la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 7098 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2014, vertente

TRA

(…), nato a Locri (RC) il (…), residente in San Luca (RC), via (…), elettivamente domiciliato a Bovalino (RC) in via (…), presso lo studio dell’avv. (…), che lo rappresenta e difende giusta procura in atti

ATTORE

E

(…) S.P.A., p.iva. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, corrente in Messina, via (…), elettivamente domiciliata in Messina, via (…), presso lo studio dell’avv. (…), che la rappresenta e difende giusta procura in atti

E

(…), nato a Locri (RC) il (…) ed ivi residente in via (…), elettivamente domiciliato in Locri (RC), via (…), presso lo studio dell’avv. (…), che lo rappresenta e difende giusta procura in atti

CONVENUTI

E

(…), n.q. di Direttore responsabile della “(…)”, c/o “(…)”, via (…), Messina

CONVENUTO CONTUMACE

OGGETTO: risarcimento danni da diffamazione e illecito trattamento dei dati personali.

CONCLUSIONI: i procuratori hanno concluso come note conclusionali in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con atto di citazione ritualmente notificato, (…) conveniva in giudizio (…) S.p.A., (…) e (…) per sentirli condannare al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla illecita pubblicazione, sul quotidiano “(…)” del 9 marzo 2012, della propria fotografia a margine di un articolo di cronaca avente ad oggetto il processo “Imelda”, pendente innanzi al G.u.p. di Reggio Calabria, in cui era imputato un suo omonimo.

A tale fine premetteva che l’articolo di giornale di due colonne, intitolato “Le arringhe difensive per gli imputati Codespoti e Strangio”, posto nel taglio alto a destra di pagina 37 della (…), indicava quale imputato del reato di associazione finalizzata al narcotraffico il sessantunenne (…), ma riportava a margine la sua fotografia, anziché quella del suo omonimo imputato, per un evidente omesso controllo dell’autore dell’articolo e del direttivo del giornale.

Allegava che il 5 maggio 2012 e il 22 maggio 2012 aveva inviato una lettera raccomandata, rispettivamente, alla Redazione di Reggio Calabria e alla sede di Messina della “(…)”, chiedendo la rettifica e il risarcimento dei danni; seguiva in data 16 maggio 2012 la rettifica sul medesimo giornale, nel taglio basso di pagina 37 con un articolo di quattro colonne, corredato dalle fotografie dell’attore e del suo omonimo imputato.

Sosteneva, quindi, che la rettifica era stata realizzata in violazione dell’art. 8, comma 2, L. n. 47/1948 e che la notizia pubblicata il 9 marzo 2012 gli aveva arrecato una lesione dell’onore, della reputazione e dell’identità personale, in quanto perpetrata in violazione dell’art. 11, D.Lgs. n. 196/2003, che regola l’illecito trattamento dei dati personali. Chiedeva, pertanto, il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti, asseritamente desumibili per presunzioni, e la riparazione pecuniaria, ex art. 12 L. n. 47/1948, con vittoria di spese e scompensi del giudizio.

Con comparsa di costituzione e risposta del 10 marzo 2015, si costituiva in giudizio (…) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, (…), che contestava le doglianze attoree, eccependo la commissione di un errore grossolano, idoneo a essere individuato da qualsiasi lettore, in ragione della discordanza tra l’età dell’imputato (sessantuno anni), indicata nell’articolo, e la giovane età del soggetto ritratto nella fotografia posta a corredo dello stesso.

Deduceva la tempestività e correttezza della rettifica del 16 maggio 2012, operata il giorno immediatamente successivo all’avvenuta notifica della richiesta del 15 maggio 2012, alla medesima pagina dell’articolo rettificato e con i medesimi caratteri di stampa, e l’applicabilità dell’esimente del diritto di cronaca. Rilevava infine che la sanzione di cui all’art. 11 L. n. 47/1948 non potesse essere irrogata nei confronti della testata giornalistica.

Chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda risarcitoria, in quanto infondata, con vittoria di spese e compensi del giudizio.

All’udienza di prima comparizione del 3 aprile 2015, verificata la mancata notifica dell’atto di citazione nei confronti di (…), il giudice autorizzava la rinnovazione della notifica e rinviava la causa all’udienza del 28 ottobre 2015.

Con comparsa di costituzione e risposta del 7 ottobre 2015, si costituiva in giudizio il convenuto (…), autore dell’articolo de quo, che allegava la propria estraneità rispetto alla pubblicazione della fotografia, poiché, ricoprendo il ruolo di collaboratore esterno del quotidiano “La (…)”, si era occupato esclusivamente della stesura del testo da pubblicare. Evidenziava, inoltre, l’avvenuta rettifica da parte della (…) S.p.A. e contestava la sussistenza di alcun danno, impugnandone, in subordine, la quantificazione.

Chiedeva, pertanto, di essere estromesso dal giudizio e, in subordine, il rigetto delle domande attoree, con vittoria di spese e compensi.

All’udienza del 28 ottobre 2015 venivano concessi i termini ex art. 183 comma 6 c.p.c.; quindi alla successiva udienza del 15 giugno 2016, la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni. Dopo alcuni rinvii, in ragione del carico di ruolo e dell’esigenza di definire prioritariamente le cause più antiche della presente, all’udienza del 13 ottobre 2021 – la prima davanti a questo giudicante – la causa veniva rinviata all’udienza del 27 aprile 2022, per esigenze di riorganizzazione del ruolo.

Infine, a tale data la causa veniva assunta in decisione, ai sensi dell’art. 190 c.p.c., con concessione dei termini per il deposito di note conclusionali e memorie di replica.

2. Preliminarmente, va dichiarata la contumacia di (…), che, pur ritualmente evocato in giudizio, non si è costituito.

2.1. Ancora, in via preliminare, va esaminata la domanda di estromissione avanzata da (…), cui l’attore si è associato in corso di causa. Ebbene, la legittimazione ad causam consiste nella titolarità del potere e del dovere – rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva – di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall’attore, indipendentemente dall’effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso; essa deve essere oggetto di verifica, preliminare al merito, da parte del giudice, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.

Quando, invece, le parti controvertono sulla effettiva titolarità, in capo al convenuto, della situazione dedotta in giudizio, ossia sull’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della domanda attrice, la relativa questione non attiene alla legitimatio ad causam, ma al merito della controversia.

La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto (Cass., SS. UU. n. 2951/2016). La circostanza che il (…) si sia limitato alla stesura dell’articolo di giornale, rimanendo estraneo alla scelta, e successiva pubblicazione, dell’immagine posta al margine dello stesso, attiene al merito della controversia e, pertanto, va accertato in concreto, non consentendo l’estromissione dal presente giudizio.

2.2. Cionondimeno, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere tra (…) e (…), alla luce della rinuncia alle domande nei confronti di quest’ultimo, esercitata da parte attrice per la prima volta con la memoria ex art. 183 comma 6 n. 1 del 31 marzo 2016 e successivamente confermata nelle note autorizzate, depositate il 23 gennaio 2019, e nelle memorie conclusionali del 22 settembre 2022.

3. Passando al merito della controversia, le domande risarcitorie sono infondate e devono essere rigettate.

L’attore lamenta che la mancata verifica della corrispondenza tra la notizia, pubblicata dalla “(…)” il 9 marzo 2012, nell’articolo di cronaca “Le arringhe difensive per gli imputati Codespoti e Sfrangio”, e l’identità del soggetto ritratto nella fotografia a corredo e individuato nell’odierno attore, omonimo di uno degli imputati, abbia costituito lesione alla propria reputazione, all’onore, all’identità personale e, in generale, ai diritti della personalità, aggiungendo che la pubblicazione dell’immagine sia scaturita da un illecito trattamento dei dati personali dell’istante.

A dire dell’attore, tali illeciti costituiscono titolo per ottenere il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali subiti, nonché la riparazione pecuniaria ex art. 12 L. n. 47/1948.

La fattispecie plurioffensiva va inquadrata – con riferimento alla portata diffamatoria dell’articolo di cronaca – nell’ambito della responsabilità aquiliana, sancita dall’art. 2043 c.c., a mente del quale sussiste un generale dovere dei consociati di neminem laedere, con le relative conseguenze in termini di onere probatorio e, limitatamente all’asserita lesione della c.d. privacy, nell’alveo dell’art. 2050 c.c..

Gli articoli citati vanno letti in combinato disposto con l’art. 2059 c.c., che disciplina i limiti e le condizioni di risarcibilità del danno non patrimoniale, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti.

Sul punto, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (Cass., SS.UU., n. 26972/2008) hanno statuito la risarcibilità del danno non patrimoniale nei soli casi previsti dalla legge e, quindi, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.: 1) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (ed in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale); 2) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato, in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento; 3) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (C. Cass., n. 26972/2008 cit.).

Peraltro, proprio con riguardo alla risarcibilità dei diritti della personalità, ed in particolare dell’onore e della reputazione – identificabile con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico – è stato affermato che essi costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti e che, pertanto, la loro lesione è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca reato (cfr. Cass., n. 22190/2009).

Dunque, avendo l’attore allegato un danno alla propria sfera personale, costituzionalmente tutelata, così come ricostruito dalla giurisprudenza della Suprema Corte, per la configurazione del diritto al risarcimento del danno non occorre la prova dell’esistenza del reato commesso a mezzo stampa, trattandosi di ipotesi in cui il risarcimento è assicurato a prescindere dall’esistenza di un reato.

Cionondimeno, poiché il Codespoti ha spiegato, accanto a quella risarcitoria, anche domanda di “riparazione pecuniaria”, ai sensi dell’art. 12 L. n. 47/1948, a mente del quale “Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”, occorre comunque procedere all’accertamento del reato in esame.

Invero, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che tale forma di riparazione costituisce un’eccezionale ipotesi di “pena pecuniaria privata prevista per legge, che come tale può aggiungersi al risarcimento del danno autonomamente liquidato in favore del danneggiato” (Cass. civ. Sez. III, Sentenza, 12/1272017, n. 29640) e può essere riconosciuta a quest’ultimo solo qualora venga accertata la diffamazione a mezzo stampa.

Nella specie, in realtà, il delitto di cui all’art. 595 c.p. non risulta integrato in tutti i suoi elementi costitutivi, in ragione del fatto che la struttura del reato richiede per il suo perfezionamento l’elemento soggettivo del dolo – almeno eventuale – il quale, tuttavia, non emerge nel caso in esame, in cui appare pacifica, anche sulla scorta della ricostruzione attorea (cfr. comparsa conclusionale attorea del 29.09.2022, pag. 5), la erronea utilizzazione di immagine ritraente l’attore, anziché l’omonimo imputato, sotto il profilo dell’omesso controllo.

L’assenza di dolo è, peraltro, confermata dalla circostanza, dimostrata dalla società convenuta, che in un precedente articolo che verteva sul medesimo caso giudiziario era stata pubblicata, a corredo dell’articolo, la fotografia di (…), effettivo imputato del reato.

Ciò è, dunque, di per sé sufficiente a rigettare la domanda formulata dall’attore, ai sensi dell’art. 12 L. n. 47/1948.

Ad abundantiam, va tuttavia rilevato che secondo pacifica giurisprudenza “La sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 12 della l. n. 47 del 1948 nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, si aggiunge senza sostituirsi al risarcimento del danno causato dall’illecito diffamatorio, e presuppone la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, sicché non può essere comminata alla società editrice e può esserlo, invece, al direttore responsabile, purché la sua responsabilità sia dichiarata per concorso doloso nel reato di diffamazione e non per omesso controllo colposo della pubblicazione. (Cassa con rinvio, App. Genova, 27/02/2012)”, nonché all’autore dello scritto diffamatorio.

Nella specie, dunque, la sanzione non poteva essere irrogata nei confronti della (…) S.p.A., in virtù del principio di personalità della responsabilità penale, né del direttore responsabile contumace, attesa l’insussistenza di un concorso doloso nel reato altrui, né, infine, nei confronti dell’autore dell’articolo. È stato, invero, dimostrato nel corso del giudizio che quest’ultimo abbia scritto un articolo improntato ai canoni della verità, pertinenza e continenza e che, essendo collaboratore esterno del quotidiano, non avesse alcun ruolo nell’impaginazione del giornale né nella scelta e apposizione di fotografie a margine degli articoli di cronaca redatti; per tali circostanze, difatti, lo stesso attore ha rinunciato alle domande poste a suo carico, ivi inclusa quella espletata ai sensi dell’art 12 citato.

La domanda, quindi, anche sotto questo diverso profilo sarebbe stata in parte rigettata e in altra parte considerata come rinunciata con conseguente parziale cessazione della materia del contendere.

Inoltre, dal momento che il delitto di diffamazione commesso con il mezzo della stampa, si configura quale evento di quello di cui all’art. 57 c.p., a mente del quale “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati , è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”, neanche quest’ultimo può dirsi configurato, poiché difettano sia la componente della commissione di un reato (appunto la diffamazione), sia quella del concorso del direttore nel reato doloso altrui, essendo pacifico l’errore in cui la testata giornalistica è incorsa con la pubblicazione della foto attorea, in vece di quella dell’imputato (cfr. comparsa conclusionale attorea del 29.09.2022, pag. 5, cit.).

Vanno, infine, vagliate le domande risarcitorie, ex artt. 2043 e 2050 c.c., nei confronti della (…) S.p.A. e di (…), al fine di verificare la ricorrenza dei relativi presupposti di applicazione.

Quanto al primo profilo, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4897/2016 ha tracciato la differenza tra diritto di cronaca e di critica, statuendo che “il diritto di cronaca e il diritto di critica, espressione entrambi della libera manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata, presentano differenze che si riflettono sui limiti della scriminante.

Il diritto di cronaca si concretizza nell’esposizione di fatti che presentano interesse per la generalità, allo scopo di informare i lettori. Il diritto di critica, diversamente, consiste nell’apprezzamento e nella valutazione di fatti, nell’espressione di un consenso o di un dissenso rispetto ad una certa analisi.

Queste differenze si riflettono sulle condizioni che legittimano l’esercizio dei rispettivi diritti. Per il legittimo esercizio del diritto di cronaca, la giurisprudenza ha individuato tre condizioni: a) la verità della notizia pubblicata; b) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); c) la correttezza formale nell’esposizione (c.d. continenza) (cfr., per es., Cass. 25 maggio 2000, n. 6877; Cass. 4 luglio 1997, n. 41; Cass. 5 maggio 1995, n. 54871)”.

Con riguardo al primo di detti elementi, la verità, nell’ambito della cronaca giudiziaria, la Suprema Corte ha chiarito che “In tema di diritto di cronaca giornalistica, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste qualora essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, sicché è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria. (La Corte ha altresì precisato che il criterio della verità della notizia deve essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo e non già secondo quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale)” (C. Cass. Pen., Sez. V, n. 43382/2010). il Supremo Consesso ha, poi, chiarito che “(…) il diritto di cronaca soggiace al limite della continenza, che comporta moderazione, misura, proporzione nelle modalità espressive, le quali non devono trascendere in attacchi personali diversi a colpire l’altrui dignità morale e professionale, con riferimento non solo al contenuto dell’articolo, ma all’intero contesto espressivo in cui l’articolo inserito, compresi titoli, sottotitoli, presentazione grafica, fotografie, trattandosi di elementi tutti che rendono esplicito, nell’immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo, e quindi idoneo, di per sé, a fuorviare e suggestionare i lettori più frettolosi. Quanto precede, comunque, non esclude che la non corrispondenza al vero dei fatti narrati deve essere valutata in rapporto al nucleo fondamentale della notizia, oggetto dell’informazione e dell’esercizio del diritto di critica, mentre la non piena corrispondenza al vero degli elementi collaterali può costituire solo elemento indiziario, inidoneo ad aggredire effettivamente l’altrui reputazione e a giustificare di per sé la sussistenza dell’illecito (Cass. 5 febbraio 2013, n. 2661).

Nel caso di specie, è acclarato l’interesse pubblico dell’informazione, viste le vicende giudiziarie, comprensibilmente rilevanti dal punto di vista mediatico; sussiste, inoltre, il requisito della verità, in quanto il contenuto dell’articolo redatto dal (…) ha enunciato i fatti in modo fedele al loro verificarsi, individuando, ripetutamente, l’imputato nel sessantunenne (…) e attribuendo a questi, e non all’odierno attore, l’imputazione di associazione per il narcotraffico. Infine, è rispettato anche il limite della continenza nella forma, dal momento che l’articolo si caratterizza per i toni pacati, che non sfociano in attacchi personali diretti a colpire l’altrui dignità morale o professionale (Cass. 5.12.2014 n. 25739). L’articolo dunque, in sé considerato, possedeva tutti gli elementi idonei per ritenere operante l’esimente del diritto di cronaca.

Tuttavia, la giurisprudenza è pacifica nell’affermare che in tema di esercizio dell’attività giornalistica, il carattere diffamatorio di uno scritto non può essere escluso sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni in esso contenute, dovendosi, invece, giudicare la portata complessiva del medesimo con riferimento ad alcuni elementi, quali: l’accostamento e l’accorpamento di notizie, l’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o contraria al loro significato letterale, il tono complessivo e la titolazione dell’articolo, proprio il titolo essendo specificamente idoneo, in ragione della sua icastica perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore più frettoloso, che si ferma alla lettura del titolo ovvero si limita a una scorsa superficiale dell’articolo, ingenerando giudizi, magari altrettanto superficiali, ma comunque idonei a ledere la reputazione dei protagonisti dei fatti descritti. (Cass., Sent. n. 18769, Sez. III, del 7.8.2013).

Ebbene, si ritiene che il principio sia estensibile al caso di specie, in quanto all’articolo, pur redatto nel rispetto dei canoni predetti, è stata affiancata la fotografia dell’attore, estraneo ai fatti: la valutazione complessiva dell’articolo e del corredo fotografico poteva ingenerare nel lettore il dubbio che il volto ivi ritratto fosse quello dell’imputato, essendo erronea l’indicazione dell’età indicata nell’articolo e non l’immagine stessa.

Infatti, la pubblicazione ha carattere diffamatorio quando è in grado di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione, per la percezione che ne possa avere anche il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore c.d. frettoloso), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia a ricondurre l’immagine al titolo senza leggere l’articolo, ovvero scorrendolo senza prestare attenzione al dato anagrafico (Cass. pen., n. 10967/2019).

Sotto il secondo profilo, l’attore lamenta l’illecito trattamento dei propri dati personali. Ebbene, “Il diritto alla riservatezza – il cui fondamento normativo va ravvisato, al di là dalla sussistenza di altre e più specifiche previsioni, nell’art. 2 della Costituzione – consiste nella tutela di situazioni e vicende di natura personale e familiare dalla conoscenza e curiosità pubblica, situazioni e vicende che soltanto il relativo protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero di difendere da ogni ingerenza – sia pur realizzata con mezzi leciti e non implicante danno all’onore o alla reputazione o al decoro – che non trovi giustificazione nell’interesse pubblico alla divulgazione; la lesione di tale diritto può aversi, sia con riguardo a persona nota, sia ignota, benché, quanto alla prima, può più facilmente operare il meccanismo di cui all’art. 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633, con la conseguenza che una pubblicazione (nella specie, di fotografie) che avvenga senza il consenso dell’interessato ben può accompagnarsi ad un’esigenza pubblica di informazione, del pari costituzionalmente tutelata. La lesione del suddetto diritto è configurabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., al quale, peraltro, non consegue un’automatica risarcibilità, dovendo il pregiudizio (morale e/o patrimoniale) essere provato secondo le regole ordinarie, quale ne sia l’entità e quale sia la difficoltà di provare tale entità” (Cass. civ., Sez. I, 25/03/2003, n. 4366 (rv. 561389)).

Più precisamente, è ius receptum che “l’immagine di una persona costituisce dato personale (…) immediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà” (Cass. n. 17440/2015), sicché la pubblicazione di una fotografia, costituisce trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell’informativa, in quanto nel caso di pubblicazione senza il consenso della persona ritratta, ove sia fornita la prova della portata lesiva del fatto, deve essere accolta la relativa domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, salvo che l’immagine sia utilizzata nel contesto dell’esimente del diritto di cronaca e nei relativi limiti.

Nella specie, la lesività del trattamento è stata determinata non dal contesto di pubblicazione della fotografia, bensì dall’errore commesso dai convenuti nell’utilizzo dell’immagine di altro soggetto.

L’art. 2050 c.c., richiamato dall’art. 15 del D.Lgs. n. 196 del 2003 (Codice della privacy), prevede un inversione dell’onere della prova a carico dell’autore del danno, tenuto a dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo. La presunzione iuris tantum riguarda l’elemento psicologico della colpa, ma non il fatto illecito, né il nesso eziologico fra fatto ed evento che devono, invero, essere provati dai danneggiati (Cass. civ., Sez. I, 05/02/2016, n. 2306).

Nella specie, i convenuti non hanno dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l’indebita pubblicazione della fotografia sbagliata a margine dell’articolo in disamina, pertanto è astrattamente configurabile il c.d. danno-evento previsto dalla legge.

Di contro, la prova della sussistenza dell’illecito, del nesso eziologico e del danno incombono sull’attore sia che i profili di responsabilità vengano analizzati ai sensi del prefato art. 2043 c.c., sia che vengano osservati ex art. 2050 c.c..

Il danno, peraltro, non può mai configurarsi in re ipsa: non è, quindi, sufficiente il c.d. danno ingiusto, cioè che l’attore invochi la lesione di una situazione giuridica protetta dall’ordinamento giuridico (c.d. danno-evento), ma è indispensabile la dimostrazione del pregiudizio che da quelle lesioni è derivato (c.d. danno-conseguenza) (Cass., n. 10510/2016; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 17.9.2019, n. 2203; Cass., sez. III, 12 giugno 2015 n. 12225; Cass., SSUU, n. 26972/2008).

E ancora, sebbene la Cassazione abbia chiarito che in tema di risarcimento danni causati da diffamazione a mezzo stampa, la prova del danno non patrimoniale possa essere “fornita con ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendo come idonei parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale” (Cass., 25 maggio 2017, n. 13153), tali presunzioni – lasciate alla prudente valutazione del giudice -possono essere ammesse, ex art. 2729 c.c., solo ove siano “gravi, precise e concordanti”.

In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che “i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi” (Cass., 16 maggio 2017, n. 12002).

Nella specie, l’attore ha genericamente lamentato la ricorrenza di danni non patrimoniali, estrinsecati, a suo dire, in “un grave senso di disagio e di turbamento” (atto di citazione, pag. 2; note conclusionali del 19.01.2019, pag. 1; note conclusionali del 29.09.2022, pag. 4), e alimentato altresì dalle modalità della rettifica, effettuata in violazione della L. n. 47/1948.

Per un verso, va rilevato, tuttavia, che secondo un granitico approdo pretorio non sono meritevoli di tutela risarcitoria i danni c.d. bagatellari, ovvero i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale (Cass., SSUU, n. 26972/2008).

Per altro verso, a fronte di quanto appena enunciato, l’attore non ha supportato con alcun elemento istruttorio l’allegazione degli asseriti danni: egli ha invero avuto la possibilità di articolare i mezzi istruttori, idonei a fondare tale domanda, attraverso la memoria di cui all’art. 183, comma 6, n. 2 c.p.c., che, sebbene concessa e depositata, non conteneva alcuna istanza istruttoria, per una precisa scelta difensiva dell’attore.

Va vieppiù rilevato che, diversamente da quanto opinato dall’attore, anche attraverso una valutazione presuntiva, che tenga conto degli indizi emersi nel corso del giudizio, il danno-conseguenza asseritamente subito dal sig. Codespoti non risulta dimostrato.

Ritiene questo giudicante che l’erronea pubblicazione della sua fotografia in abbinamento all’articolo di cronaca in esame non abbia determinato un’ipotesi di danno risarcibile, neanche ove si utilizzino come parametri presuntivi di valutazione il precedente (e incontestato) arresto per droga subito e la mancata deduzione di un’assoluzione e/ o archiviazione o altro provvedimento favorevole con riferimento al dedotto arresto, unitamente alla rilevanza dell’offesa, in relazione al contesto sociale in cui il Codespoti è presumibilmente inserito, alla mancata richiesta di assunzione di alcuna prova atta a dimostrare il danno, alla diffusione solo locale del quotidiano e alla rettifica eseguita (ancorché irritualmente nel taglio basso della pagina) dalla “(…)” il giorno immediatamente successivo alla notifica dell’intimazione attorea.

Con specifico riferimento alla rettifica, risulta peraltro meritevole di reiezione la tesi attorea secondo cui il mancato rispetto delle modalità prescritte dall’art. 8 comma 2 L. n. 47/1948 sia di per sé idoneo a fondare una variazione in aumento del danno non patrimoniale, dal momento che la medesima norma consente al danneggiato di richiedere la pubblicazione della rettifica nelle forme e con le procedure ivi prescritte, ma non commina alcun risarcimento del danno per la fattispecie de qua.

Alla luce di quanto argomentato, nel caso in esame, non si ritiene dimostrato il danno (conseguenza) non patrimoniale patito da (…) in conseguenza dell’erronea pubblicazione della sua fotografia, a corredo dell’articolo di cronaca del 9 marzo 2012 sulla (…). Tali carenze probatorie non possono che condurre al rigetto delle domande attoree.

4. SPESE DEL GIUDIZIO

Le spese del giudizio tra (…) e (…) S.p.A. seguono la soccombenza e vanno liquidate sulla base del d.m. n. 55/2014 (in relazione al valore della controversia compresa tra Euro 260.001 a Euro 520.000 – e in rapporto ai parametri medi, con riduzione del 50% con riferimento alla fase istruttoria, in ragione del mancato espletamento di prova, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.m. cit.), a carico dell’attore nella misura di Euro 17.251,50, di cui euro 3.544,00 per la fase di studio, euro 2.338,00 per la fase introduttiva, euro 5.205,50 per la fase istruttoria ed euro 6.164,00 per la fase decisoria, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a., se dovuta, e c.p.a., come per legge.

In ordine alle spese del giudizio tra (…) e (…), sussistono i gravi motivi per la compensazione, in ragione del fatto che l’attore, sin dall’origine, aveva contestato al (…), nella qualità di autore dell’articolo di cronaca pubblicato sulla “(…)” del 9 marzo 2012, la responsabilità per i danni subiti in conseguenza della pubblicazione erronea della sua fotografia in vece di quella dell’omonimo imputato, invitando il (…) a partecipare al procedimento di mediazione obbligatoria, introdotto, ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis, decreto legislativo n. 28/2010, innanzi all’Organismo di mediazione iscritto al n. 565/P, presso l’Ordine degli Avvocati di Messina.

Cionondimeno, dal verbale di mediazione, si apprende che il (…) non si sia presentato per l’esperimento del tentativo di conciliazione, per quanto ritualmente invitato. Ebbene, il dispositivo dell’art. 8 comma 4 bis D.Lgs. n. 28/2010 statuisce che “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c.”.

Ciò premesso e alla luce della ratio sottesa all’implementazione delle procedure di A.D.R. – Alternative Dispute Resolution – da parte del legislatore, ritiene questo giudice che in tale sede il convenuto avrebbe potuto (e dovuto) chiarire la propria estraneità rispetto all’illecito contestato, così non occasionando una domanda risarcitoria dell’attore nei propri confronti.

Al contrario, la sua contumacia in sede di mediazione ha obbligato l’attore, ignaro del riparto di responsabilità tra i convenuti, dapprima ad agire solidalmente nei confronti di tutti gli obbligati e, quindi, a rinunciare alle domande nei suoi confronti, una volta appreso dell’estraneità del (…) dalla commissione dell’illecito addebitato.

Nulla sulle spese nei confronti di (…), convenuto contumace.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando nel giudizio n. 7098/2014 R.G., vertente tra (…) (attore), (…)- (…) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, (…) (convenuti) e (…) (convenuto contumace), disattesa e respinta ogni diversa istanza, così provvede:

1. dichiara la contumacia di (…);

2. rigetta le domande risarcitorie formulate da (…);

3. per l’effetto, condanna (…) alla rifusione di spese e compensi di lite in favore di (…)- (…) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, che liquida in euro 17.251,50, oltre spese generali al 15%, iva, se dovuta, e c.p.a., come per legge.

4. compensa integralmente le spese del giudizio tra (…) e (…);

5. Nulla sulle spese nei confronti di (…).

Così deciso in Messina, il 2 dicembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2022.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.