Corte di Cassazione, Sezione 4 penale Sentenza 21 settembre 2017, n. 43476
Il contenuto della posizione di garanzia assunta dallo psichiatra deve essere quindi configurato tenendosi nel dovuto conto la contemporanea presenza di vincoli protettivi e pretese di controllo, unitamente alla particolare complessita’ della situazione rischiosa da governare: tra il perimetro della posizione di garanzia e il rischio consentito esiste infatti uno stretto collegamento, nel senso che e’ proprio l’esigenza di contrastare e frenare un determinato rischio per il paziente (o realizzato dal paziente verso terzi) che individua e circoscrive, sul versante della responsabilita’ colposa, le regole cautelari del medico. in tali casi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse; che, in tale percorso valutativo, che involge la delimitazione del perimetro del rischio consentito insito nella pratica medica, possono venire in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui e’ chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta.
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere
Dott. MICCICHE’ Loredana – rel. Consigliere
Dott. CENCI Daniele – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 23/02/2016 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. LOREDANA MICCICHE’;
Il Proc. Gen. Dott. BALSAMO ANTONIO conclude per il rigetto;
Udito il difensore.
E’ presente l’avvocato (OMISSIS) del foro di CALTANISSETTA in difesa di (OMISSIS) che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 23 febbraio 2016 la Corte d’Appello di Caltanissetta, confermando la pronuncia emessa dal medesimo Tribunale in composizione monocratica, condannava (OMISSIS), medico in servizio presso il reparto psichiatrico dell’ospedale (OMISSIS), alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite, per il reato di omicidio colposo commesso in danno della paziente (OMISSIS), suicidatasi il (OMISSIS).
2. I fatti sono stati cosi’ ricostruiti dai giudici di merito. La (OMISSIS), affetta da schizofrenia paranoide cronica con episodi psicotici acuti, aveva subito diversi ricoveri ospedalieri connessi alla patologia, l’ultimo dei quali nel (OMISSIS), a distanza di pochi giorni dalla nascita della secondogenita. Nel corso dell’ultimo ricovero, la predetta era stata seguita dal (OMISSIS) che le aveva somministrato cure farmacologiche da eseguire a casa. La mattina del (OMISSIS) la (OMISSIS) si era presentata presso il Servizio Pschiatrico Diagnosi e Cura dell’ospedale di (OMISSIS), accompagnata dal convivente il quale aveva rappresentato all’imputato che la donna aveva ingerito un intero flacone di Serenase; il medico, dopo aver constatato che la paziente si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, senza manifestare i sintomi tipici di una massiccia assunzione di quel farmaco di tipologia “aloperidolo”, li congedava, consigliando al convivente di non somministrare altro nel corso della giornata e dicendogli di richiamarlo la mattina dopo. Tornati a casa, secondo quanto riferito dall’uomo, la (OMISSIS) si gettava sul letto, addormentandosi; egli usciva per un breve lasso di tempo e, al ritorno, constatava che la donna si era suicidata lanciandosi dal balcone. All’imputato veniva dunque contestato che, in qualita’ di medico curante la (OMISSIS), con condotta consistita nell’aver omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia di disporre i necessari accertamenti medici, come previsto dai protocolli in caso di sovradosaggio e intossicazione da farmaco aloperidolo, nonche’ di prescrivere il necessario ricovero, nonostante fosse stato messo a conoscenza che la persona offesa, oltre ad avere ingerito un intero flacone di Serenase, aveva nei giorni precedenti manifestato propositi suicidari, ometteva di impedire che la donna, rientrata a casa subito dopo l’omesso ricovero, si gettasse dal balcone della propria abitazione.
3. La Corte territoriale disattendeva i motivi di gravame, incentrati sulla assenza di condotte rimproverabili al (OMISSIS). I motivi possono cosi’ sintetizzarsi: la donna, all’atto della presentazione all’ospedale, non presentava segni clinici di intossicazione da farmaco; inoltre, la tipologia di farmaco ingerita non implicava l’induzione in propositi suicidari; l’istruttoria aveva negato che la (OMISSIS) avesse tentato il suicidio o che avesse istinti di tal fatta ne’ detta intenzione fu rappresentata al (OMISSIS) la mattina del tragico evento; non vi erano dunque segnali o elementi che imponessero al medico di procedere al ricovero presso il Servizio psichiatrico e neppure indicazioni per un ricovero al pronto soccorso per l’ingestione del farmaco. Nella pronuncia impugnata, la Corte territoriale ricostruiva la storia clinica della donna, che soffriva di schizofrenia paranoide sin dal 2008 (epoca della nascita del primo figlio) e che era stata ricoverata, appena un mese e mezzo prima del suicidio, per una riacutizzazione della patologia seguita alla nascita della seconda figlia (nel (OMISSIS)); richiamava le dichiarazioni del convivente (OMISSIS), relative al mese precedente, in cui la donna, seguita dal dott. (OMISSIS), aveva manifestato segni di peggioramento e di depressione, curati dal medico attraverso modifiche di dosaggio della terapia, e relative alla mattina dell’episodio suicidario, secondo cui il (OMISSIS), vista la (OMISSIS), non aveva creduto che la stessa avesse ingerito il farmaco e non le aveva rivolto nessuna domanda, limitandosi a constatare che la paziente si manteneva vigile, senza dunque procedere ad alcun ricovero e consigliando il ritorno a casa. Argomentava poi che, benche’ le conclusioni del consulente del Pm, avessero escluso il nesso tra uso di farmaci a base di aloperidolo e aumento del rischio suicidario nonche’ la presenza, la mattina dell’episodio, di segni clinici di intossicazione da farmaco anche perche’ l’assorbimento avviene nell’arco delle sei ore e gli effetti si producono dopo due ore, doveva considerarsi che la (OMISSIS) era affetta da manifestazioni psico patologiche tali da richiedere una particolare attenzione e che l’assunzione massiccia di un farmaco in un paziente con una storia amnestica psichiatrica cosi’ come quella documentata, con 13 cartelle cliniche di ricovero presso il Centro ospedaliero psichiatrico, avrebbe dovuto indurre a maggiore prudenza e, in special modo, indurre a intraprendere una “sorveglianza sanitaria”. Cio’ considerato anche che i pazienti affetti da schizofrenia paranoide incorrono in morte per suicidio nel 15-20% dei casi e che un numero molto maggiore di pazienti ricorre a comportamenti senza un vero rischio letale. Tanto premesso la Corte, affermata la posizione di garanzia rivestita dal (OMISSIS), medico curante della (OMISSIS) che aveva esaminato la donna presso l’Ospedale la stessa mattina del tragico evento, riteneva che l’imputato avesse violato i propri doveri di diligenza e perizia, non avendo valutato con attenzione, e addirittura minimizzato, l’anomalia comportamentale della (OMISSIS), consistente nella riferita ingestione massiccia del farmaco, che avrebbe dovuto far presagire la sussistenza di una situazione di allarme in corso. E, anche se la (OMISSIS) non manifestava segni clinici ricollegabili alla ingestione del Serenase, l’evidente stato di preoccupazione mostrata dal marito della donna, accorso in ospedale alle prime ore del mattino, tenendo in braccio il figlio di poco piu’ di un anno e con gli effetti personali della donna, pronto a ricoverarla, avrebbe dovuto indurre l’imputato ad una risposta piu’ vigile e ad rilevare il livello di rischio che la situazione presentava. La Corte affermava quindi che l’intento suicidiario era perfettamente prevedibile e che la colpa del (OMISSIS) consisteva nel non aver creduto alla versione dei fatti riferita dal marito (cioe’ all’ingestione di un intero flacone di Serenase), ignorando tra l’altro che gli effetti del farmaco si producono almeno dopo due ore; e non aver neppure prospettato, quale condotta doverosa, alcuna possibilita’ di ricovero ne’ aver almeno tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo ragionevole, procedendo ad una valutazione affrettata e infondendo al marito un tranquillita’ che ne faceva venir meno lo stato di allerta, non impedendo cosi’ il suicidio avvenuto poco meno di un’ora dopo.
3. Propone ricorso per Cassazione (OMISSIS) a mezzo del proprio difensore di fiducia. Con unico motivo lamenta vizio di violazione di legge, in relazione agli articoli 40 e 589 c.p., e vizio di illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione, oltre che travisamento della prova. La Corte territoriale aveva omesso l’indagine causale secondo le note regole tracciate dalla giurisprudenza di legittimita’. In particolare, la pronuncia impugnata non aveva descritto in maniera rigorosa la condotta omessa ne’ se l’azione che avrebbe dovuto compiersi avrebbe, con probabilita’ vicina alla certezza, impedito il rischio di suicidio. Inoltre, la sentenza aveva travisato elementi probatori acquisiti al processo. Le conclusioni del consulente del PM erano state infatti riportate in modo parziale, poiche’ il predetto consulente aveva si’ considerato che il medico avrebbe dovuto adoperarsi per una sorveglianza sanitaria, ma solo nel caso in cui il medico avesse creduto, dalle manifestazioni cliniche del paziente, che la paziente avesse assunto una certa quantita’ di farmaco: e, nella specie, era stato accertato che la (OMISSIS) non manifestava alcun segno clinico da massiccia assunzione di farmaco. Il consulente, poi, aveva ammesso che non vi era alcun segno clinico per un ricovero in regine di TSO; che non sarebbe stato possibile, sempre in assenza di segni clinici, un ricovero nel reparto psichiatrico; che, al piu’, il (OMISSIS) avrebbe potuto indirizzare la donna presso una struttura di pronto soccorso per un supplemento di indagine in ordine alla riferita ingestione del farmaco. Mancava, allora, ogni certezza circa il fatto che un ricovero al pronto soccorso avrebbe evitato un suicidio da defenestrazione. Inoltre, nella pronuncia impugnata si asseriva (alle pagg. 24 e 25) che il dott. (OMISSIS) avrebbe dovuto sapere interpretare i segnali di allarme lanciati dalla donna, richiamando la deposizione del marito (secondo cui quella mattina la donna gli aveva detto “di non farcela piu'”): detto passaggio argomentativo era basato su un dato che non esisteva nel processo, posto che mai il marito della donna aveva riferito al (OMISSIS) tale conversazione, rimasta quindi del tutto ignota al medico. Sul punto, la Corte aveva del tutto omesso il riferimento a elementi decisivi della testimonianza del (OMISSIS), secondo cui egli stesso, la mattina del tragico evento, non aveva visto la donna ingerire il farmaco e non aveva notato sintomi di sonnolenza. Soprattutto, la Corte aveva del tutto omesso di considerare (anzi, lo aveva sconfessato) il passaggio della deposizione del (OMISSIS) in cui quest’ultimo aveva dichiarato di non aver mai detto al (OMISSIS) ne’ ad altri che la (OMISSIS) voleva suicidarsi, anche perche’ mai gli aveva manifestato, prima di quel giorno, manie suicide. Cio’ rendeva del tutto imprevedibile ed evitabile, ex ante e in concreto, dal parte del (OMISSIS), l’evento verificatosi. Infine, dal momento che la donna non era stata ricoverata e aveva anzi espresso la volonta’ di tornare a casa, poiche’ la figlia di pochi mesi era rimasta incustodita, erroneamente la Corte aveva ritenuto sussistente la posizione di garanzia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.
2. Ai fini di interesse, giova ricordare che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, la responsabilita’ dello psichiatra deve inquadrarsi nell’ambito del cd “rischio consentito” (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941). Con la citata pronuncia, la Corte regolatrice, richiamati i concetti generali della teoria del rischio, ha invero osservato che, a seguito dell’abbandono delle deprecate pratiche di isolamento e segregazione, la cura del paziente con terapie rispettose della sua dignita’ non puo’ eliminare del tutto il potenziale pericolo di condotte inconsulte: il rischio connesso alla gestione del paziente e’ insuperabile ma e’ comunque accettato dalla scienza medica e dalla societa’; esso, dunque, e’ “consentito”. Si e’ poi chiarito che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941, Sez. 4, n. 14766 del 04/02/2016, De Simone, Rv. 266831). Il contenuto della posizione di garanzia assunta dallo psichiatra deve essere quindi configurato tenendosi nel dovuto conto la contemporanea presenza di vincoli protettivi e pretese di controllo, unitamente alla particolare complessita’ della situazione rischiosa da governare: tra il perimetro della posizione di garanzia e il rischio consentito esiste infatti uno stretto collegamento, nel senso che e’ proprio l’esigenza di contrastare e frenare un determinato rischio per il paziente (o realizzato dal paziente verso terzi) che individua e circoscrive, sul versante della responsabilita’ colposa, le regole cautelari del medico. in tali casi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse; che, in tale percorso valutativo, che involge la delimitazione del perimetro del rischio consentito insito nella pratica medica, possono venire in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui e’ chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941).
3. Tanto premesso, l’apparato motivazionale dei giudici di merito (che costituisce unico tessuto argomentativo, vertendosi in ipotesi di “doppia conforme”) e’ pienamente rispettoso dei principi esposti si sottrae alle censure lamentate.
4. In particolare, quanto alla dedotta oggettiva impossibilita’, in capo al (OMISSIS), di avvedersi della ingestione da farmaco, denunciata dal compagno della donna come avvenuta “meno di un’ora prima” la Corte territoriale sottolinea che, a mente delle risultanze della consulenza del PM, l’assorbimento dell’aloperidolo avviene “abbastanza rapidamente” ma “raggiungendo livelli di picco plasmatici dopo un periodo che puo’ variare dalle due alle sei ore dall’ingestione”; e che, secondo i risultati dell’esame autoptico, “la minore concentrazione di aloperidolo rinvenuta nel cervello rispetto al sangue indica che non era stato ancora completato l’assorbimento ed era ancora in corso la distribuzione della sostanza nei vari distretti corporei..”. Sul punto, vanno anche tenute presenti le considerazioni della sentenza del tribunale che, sempre in base alle emergenze della prova scientifica, ha correttamente desunto dalle dichiarazioni dei consulenti del PM che l’insorgenza di manifestazioni tossiche da farmaco e’ strettamente legata alla sensibilita’ individuale del paziente e, in particolare, a fattori quali la gravita’ delle affezioni, cronicita’ dell’uso, tolleranza al prodotto. Detti cruciali passaggi, che non sono mai stati espressamente e argomentatamente confutati dall’odierno ricorrente, conducono, sotto il profilo della colpa, alla esatta conclusione per cui il dato scientifico avrebbe dovuto essere conosciuto o conoscibile dal (OMISSIS) il quale, proprio in ragione della specializzazione posseduta e della professione esercitata, prescriveva detta tipologia di farmaci e avrebbe dovuto quindi padroneggiarne le caratteristiche essenziali. Come ritenuto dai giudici di merito, con motivazione rispettosa dei principi e immune da censure, il (OMISSIS), ricevuta la notizia secondo cui l’ingestione di un intero flacone di Serenase era avvenuta a distanza inferiore di un’ora, non avrebbe dovuto aprioristicamente escludere la fondatezza della informazione constatando che la donna si presentava ancora apparentemente vigile, atteso che, secondo i dati scientifici acquisiti al giudizio, il farmaco raggiunge livelli di picco nel sangue almeno due ore dopo l’assunzione e, in piu’, l’intossicazione manifesta da farmaco varia in ragione della diversa sensibilita’ individuale, Ancora, come rilevato dalla Corte territoriale e, ancora piu’ approfonditamente, dalla sentenza di primo grado (in passaggio motivazionale che non risulta specificamente oggetto dei motivi di appello e che pertanto risulta definitivamente accertato in punto di fatto), dalle cartelle cliniche della donna, che il (OMISSIS) aveva esaminato e che comunque avrebbe dovuto conoscere in considerazione della presa in carico della paziente nel corso dell’ultimo ricovero avvenuto appena un mese prima, risultava che la stessa aveva subito ben 13 ricoveri per la patologia schizoide di cui soffriva e che in talune occasioni aveva manifestato volonta’ autosoppressiva.
5. Avere ignorato tali dati, nella piena disponibilita’ cognitiva del medico, qualifica la condotta di quest’ultimo come oggettivamente al di sotto della diligenza esigibile, e integra certamente la violazione delle regole di prudenza che l’ordinamento impone. In altre parole l’imputato, chiamato a governare il rischio nella gestione della paziente, non ha posto in essere le condotte adeguate a scongiurare il rischio suicidario, e cio’ anche tenuto conto del parametro del rischio consentito, atteso il significativo grado di disattenzione manifestata in ordine alla allarmante informazione ricevuta (ingestione massiccia di farmaco); la sottovalutazione delle regole tecniche riguardanti gli effetti del farmaco e la grave negligenza mostrata allorquando, informato di un comportamento manifestamente rivelatore di un rischio suicidario, aveva consentito che la paziente rientrasse a casa senza attivare alcun trattamento terapeutico e alcun meccanismo di controllo, cosi’ violando gli obblighi di protezione imposti al medico psichiatra. Sul punto, tenuto conto dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, i giudici di merito hanno correttamente sottolineato che, come emerge dai rilievi del consulente della parte civile, le linee guida della Societa’ Italiana di psichiatria prescrivevano, a fronte di una paziente che soffriva della patologia della (OMISSIS) e in relazione alla quale si aveva il sospetto della manifestazione di una condotta auto lesiva (massiccia ingestione da farmaco), l’adozione quantomeno di un ASO (accertamento sanitario obbligatorio); e che, in base alle conclusioni dei consulenti del PM, in un paziente psichiatrico l’assunzione di una quantita’ di farmaco eccessiva rispetto alla norma deve costituire un campanello di allarme, e il sanitario si sarebbe dovuto attivare comunque annotando un supplemento diagnostico di indagini e un monitoraggio clinico anche presso una struttura di pronto soccorso.
6. Quanto alla causalita’, la Corte fa buon governo delle indicazioni che provengono dalla nota giurisprudenza delle Sezioni unite (S.U.Franzese) pervenendo ad un giudizio sull’evitabilita’ dell’evento basato sulle piu’ significative acquisizioni fattuali e scientifiche afferenti al caso concreto, ampiamente argomentato – come si e’ visto – nella prospettiva dell’attuazione di tutte le misure appropriate. In particolare, la Corte argomenta che la condotta negligente del (OMISSIS), consistita nel non avere prospettato neppure una possibilita’ di ricovero, nel non aver tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo minimo ragionevole, e, infine, di non aver neppure imposto al marito di attuare sulla moglie una vigilanza costante, hanno sicuramente avuto piena incidenza causale sulla condotta della vittima; ben potendo detti comportamenti, ove attuati, scongiurare l’evento concretamente verificatosi con probabilita’ prossima alla certezza. Si tratta di apprezzamento immune da censure e conforme ai principi sia in tema di causalita’ che di colpa.
7. Manifestamente infondato e’ l’ultimo motivo di ricorso, ove in contesta la correttezza della soluzione adottata in tema di posizione di garanzia, asseritamente insussistente in quanto la (OMISSIS) non sarebbe stata ricoverata presso la struttura. Sul punto, la Corte territoriale ha applicato i consolidati principi sul punto, secondo cui il medico psichiatra e’ titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie – di apprestare specifiche cautele (Sez. 4, n.48292 del 2008, Rv.266831, Sez. 4, n. 33609 del 14/06/2016 Rv. 267446). Posizione che il (OMISSIS), medico curante della (OMISSIS), in servizio la mattina del sinistro presso l’ambulatorio dell’spedale, direttamente interpellato dai familiari e informato dell’accaduto, certamente aveva assunto.
8. Si impone, dunque, il rigetto del ricorso. Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – Consigliere
Dott. MICCICHE’ Loredana – rel. Consigliere
Dott. CENCI Daniele – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 23/02/2016 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. LOREDANA MICCICHE’;
Il Proc. Gen. Dott. BALSAMO ANTONIO conclude per il rigetto;
Udito il difensore.
E’ presente l’avvocato (OMISSIS) del foro di CALTANISSETTA in difesa di (OMISSIS) che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 23 febbraio 2016 la Corte d’Appello di Caltanissetta, confermando la pronuncia emessa dal medesimo Tribunale in composizione monocratica, condannava (OMISSIS), medico in servizio presso il reparto psichiatrico dell’ospedale (OMISSIS), alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite, per il reato di omicidio colposo commesso in danno della paziente (OMISSIS), suicidatasi il (OMISSIS).
2. I fatti sono stati cosi’ ricostruiti dai giudici di merito. La (OMISSIS), affetta da schizofrenia paranoide cronica con episodi psicotici acuti, aveva subito diversi ricoveri ospedalieri connessi alla patologia, l’ultimo dei quali nel (OMISSIS), a distanza di pochi giorni dalla nascita della secondogenita. Nel corso dell’ultimo ricovero, la predetta era stata seguita dal (OMISSIS) che le aveva somministrato cure farmacologiche da eseguire a casa. La mattina del (OMISSIS) la (OMISSIS) si era presentata presso il Servizio Pschiatrico Diagnosi e Cura dell’ospedale di (OMISSIS), accompagnata dal convivente il quale aveva rappresentato all’imputato che la donna aveva ingerito un intero flacone di Serenase; il medico, dopo aver constatato che la paziente si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, senza manifestare i sintomi tipici di una massiccia assunzione di quel farmaco di tipologia “aloperidolo”, li congedava, consigliando al convivente di non somministrare altro nel corso della giornata e dicendogli di richiamarlo la mattina dopo. Tornati a casa, secondo quanto riferito dall’uomo, la (OMISSIS) si gettava sul letto, addormentandosi; egli usciva per un breve lasso di tempo e, al ritorno, constatava che la donna si era suicidata lanciandosi dal balcone. All’imputato veniva dunque contestato che, in qualita’ di medico curante la (OMISSIS), con condotta consistita nell’aver omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia di disporre i necessari accertamenti medici, come previsto dai protocolli in caso di sovradosaggio e intossicazione da farmaco aloperidolo, nonche’ di prescrivere il necessario ricovero, nonostante fosse stato messo a conoscenza che la persona offesa, oltre ad avere ingerito un intero flacone di Serenase, aveva nei giorni precedenti manifestato propositi suicidari, ometteva di impedire che la donna, rientrata a casa subito dopo l’omesso ricovero, si gettasse dal balcone della propria abitazione.
3. La Corte territoriale disattendeva i motivi di gravame, incentrati sulla assenza di condotte rimproverabili al (OMISSIS). I motivi possono cosi’ sintetizzarsi: la donna, all’atto della presentazione all’ospedale, non presentava segni clinici di intossicazione da farmaco; inoltre, la tipologia di farmaco ingerita non implicava l’induzione in propositi suicidari; l’istruttoria aveva negato che la (OMISSIS) avesse tentato il suicidio o che avesse istinti di tal fatta ne’ detta intenzione fu rappresentata al (OMISSIS) la mattina del tragico evento; non vi erano dunque segnali o elementi che imponessero al medico di procedere al ricovero presso il Servizio psichiatrico e neppure indicazioni per un ricovero al pronto soccorso per l’ingestione del farmaco. Nella pronuncia impugnata, la Corte territoriale ricostruiva la storia clinica della donna, che soffriva di schizofrenia paranoide sin dal 2008 (epoca della nascita del primo figlio) e che era stata ricoverata, appena un mese e mezzo prima del suicidio, per una riacutizzazione della patologia seguita alla nascita della seconda figlia (nel (OMISSIS)); richiamava le dichiarazioni del convivente (OMISSIS), relative al mese precedente, in cui la donna, seguita dal dott. (OMISSIS), aveva manifestato segni di peggioramento e di depressione, curati dal medico attraverso modifiche di dosaggio della terapia, e relative alla mattina dell’episodio suicidario, secondo cui il (OMISSIS), vista la (OMISSIS), non aveva creduto che la stessa avesse ingerito il farmaco e non le aveva rivolto nessuna domanda, limitandosi a constatare che la paziente si manteneva vigile, senza dunque procedere ad alcun ricovero e consigliando il ritorno a casa. Argomentava poi che, benche’ le conclusioni del consulente del Pm, avessero escluso il nesso tra uso di farmaci a base di aloperidolo e aumento del rischio suicidario nonche’ la presenza, la mattina dell’episodio, di segni clinici di intossicazione da farmaco anche perche’ l’assorbimento avviene nell’arco delle sei ore e gli effetti si producono dopo due ore, doveva considerarsi che la (OMISSIS) era affetta da manifestazioni psico patologiche tali da richiedere una particolare attenzione e che l’assunzione massiccia di un farmaco in un paziente con una storia amnestica psichiatrica cosi’ come quella documentata, con 13 cartelle cliniche di ricovero presso il Centro ospedaliero psichiatrico, avrebbe dovuto indurre a maggiore prudenza e, in special modo, indurre a intraprendere una “sorveglianza sanitaria”. Cio’ considerato anche che i pazienti affetti da schizofrenia paranoide incorrono in morte per suicidio nel 15-20% dei casi e che un numero molto maggiore di pazienti ricorre a comportamenti senza un vero rischio letale. Tanto premesso la Corte, affermata la posizione di garanzia rivestita dal (OMISSIS), medico curante della (OMISSIS) che aveva esaminato la donna presso l’Ospedale la stessa mattina del tragico evento, riteneva che l’imputato avesse violato i propri doveri di diligenza e perizia, non avendo valutato con attenzione, e addirittura minimizzato, l’anomalia comportamentale della (OMISSIS), consistente nella riferita ingestione massiccia del farmaco, che avrebbe dovuto far presagire la sussistenza di una situazione di allarme in corso. E, anche se la (OMISSIS) non manifestava segni clinici ricollegabili alla ingestione del Serenase, l’evidente stato di preoccupazione mostrata dal marito della donna, accorso in ospedale alle prime ore del mattino, tenendo in braccio il figlio di poco piu’ di un anno e con gli effetti personali della donna, pronto a ricoverarla, avrebbe dovuto indurre l’imputato ad una risposta piu’ vigile e ad rilevare il livello di rischio che la situazione presentava. La Corte affermava quindi che l’intento suicidiario era perfettamente prevedibile e che la colpa del (OMISSIS) consisteva nel non aver creduto alla versione dei fatti riferita dal marito (cioe’ all’ingestione di un intero flacone di Serenase), ignorando tra l’altro che gli effetti del farmaco si producono almeno dopo due ore; e non aver neppure prospettato, quale condotta doverosa, alcuna possibilita’ di ricovero ne’ aver almeno tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo ragionevole, procedendo ad una valutazione affrettata e infondendo al marito un tranquillita’ che ne faceva venir meno lo stato di allerta, non impedendo cosi’ il suicidio avvenuto poco meno di un’ora dopo.
3. Propone ricorso per Cassazione (OMISSIS) a mezzo del proprio difensore di fiducia. Con unico motivo lamenta vizio di violazione di legge, in relazione agli articoli 40 e 589 c.p., e vizio di illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione, oltre che travisamento della prova. La Corte territoriale aveva omesso l’indagine causale secondo le note regole tracciate dalla giurisprudenza di legittimita’. In particolare, la pronuncia impugnata non aveva descritto in maniera rigorosa la condotta omessa ne’ se l’azione che avrebbe dovuto compiersi avrebbe, con probabilita’ vicina alla certezza, impedito il rischio di suicidio. Inoltre, la sentenza aveva travisato elementi probatori acquisiti al processo. Le conclusioni del consulente del PM erano state infatti riportate in modo parziale, poiche’ il predetto consulente aveva si’ considerato che il medico avrebbe dovuto adoperarsi per una sorveglianza sanitaria, ma solo nel caso in cui il medico avesse creduto, dalle manifestazioni cliniche del paziente, che la paziente avesse assunto una certa quantita’ di farmaco: e, nella specie, era stato accertato che la (OMISSIS) non manifestava alcun segno clinico da massiccia assunzione di farmaco. Il consulente, poi, aveva ammesso che non vi era alcun segno clinico per un ricovero in regine di TSO; che non sarebbe stato possibile, sempre in assenza di segni clinici, un ricovero nel reparto psichiatrico; che, al piu’, il (OMISSIS) avrebbe potuto indirizzare la donna presso una struttura di pronto soccorso per un supplemento di indagine in ordine alla riferita ingestione del farmaco. Mancava, allora, ogni certezza circa il fatto che un ricovero al pronto soccorso avrebbe evitato un suicidio da defenestrazione. Inoltre, nella pronuncia impugnata si asseriva (alle pagg. 24 e 25) che il dott. (OMISSIS) avrebbe dovuto sapere interpretare i segnali di allarme lanciati dalla donna, richiamando la deposizione del marito (secondo cui quella mattina la donna gli aveva detto “di non farcela piu'”): detto passaggio argomentativo era basato su un dato che non esisteva nel processo, posto che mai il marito della donna aveva riferito al (OMISSIS) tale conversazione, rimasta quindi del tutto ignota al medico. Sul punto, la Corte aveva del tutto omesso il riferimento a elementi decisivi della testimonianza del (OMISSIS), secondo cui egli stesso, la mattina del tragico evento, non aveva visto la donna ingerire il farmaco e non aveva notato sintomi di sonnolenza. Soprattutto, la Corte aveva del tutto omesso di considerare (anzi, lo aveva sconfessato) il passaggio della deposizione del (OMISSIS) in cui quest’ultimo aveva dichiarato di non aver mai detto al (OMISSIS) ne’ ad altri che la (OMISSIS) voleva suicidarsi, anche perche’ mai gli aveva manifestato, prima di quel giorno, manie suicide. Cio’ rendeva del tutto imprevedibile ed evitabile, ex ante e in concreto, dal parte del (OMISSIS), l’evento verificatosi. Infine, dal momento che la donna non era stata ricoverata e aveva anzi espresso la volonta’ di tornare a casa, poiche’ la figlia di pochi mesi era rimasta incustodita, erroneamente la Corte aveva ritenuto sussistente la posizione di garanzia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ infondato.
2. Ai fini di interesse, giova ricordare che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, la responsabilita’ dello psichiatra deve inquadrarsi nell’ambito del cd “rischio consentito” (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941). Con la citata pronuncia, la Corte regolatrice, richiamati i concetti generali della teoria del rischio, ha invero osservato che, a seguito dell’abbandono delle deprecate pratiche di isolamento e segregazione, la cura del paziente con terapie rispettose della sua dignita’ non puo’ eliminare del tutto il potenziale pericolo di condotte inconsulte: il rischio connesso alla gestione del paziente e’ insuperabile ma e’ comunque accettato dalla scienza medica e dalla societa’; esso, dunque, e’ “consentito”. Si e’ poi chiarito che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941, Sez. 4, n. 14766 del 04/02/2016, De Simone, Rv. 266831). Il contenuto della posizione di garanzia assunta dallo psichiatra deve essere quindi configurato tenendosi nel dovuto conto la contemporanea presenza di vincoli protettivi e pretese di controllo, unitamente alla particolare complessita’ della situazione rischiosa da governare: tra il perimetro della posizione di garanzia e il rischio consentito esiste infatti uno stretto collegamento, nel senso che e’ proprio l’esigenza di contrastare e frenare un determinato rischio per il paziente (o realizzato dal paziente verso terzi) che individua e circoscrive, sul versante della responsabilita’ colposa, le regole cautelari del medico. in tali casi, il giudice deve verificare, con valutazione ex ante, l’adeguatezza delle pratiche terapeutiche poste in essere dal sanitario a governare il rischio specifico, pure a fronte di un esito infausto sortito dalle stesse; che, in tale percorso valutativo, che involge la delimitazione del perimetro del rischio consentito insito nella pratica medica, possono venire in rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui e’ chiamato ad effettuare la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta (Sez. 4, sentenza n. 4391 del 22/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941).
3. Tanto premesso, l’apparato motivazionale dei giudici di merito (che costituisce unico tessuto argomentativo, vertendosi in ipotesi di “doppia conforme”) e’ pienamente rispettoso dei principi esposti si sottrae alle censure lamentate.
4. In particolare, quanto alla dedotta oggettiva impossibilita’, in capo al (OMISSIS), di avvedersi della ingestione da farmaco, denunciata dal compagno della donna come avvenuta “meno di un’ora prima” la Corte territoriale sottolinea che, a mente delle risultanze della consulenza del PM, l’assorbimento dell’aloperidolo avviene “abbastanza rapidamente” ma “raggiungendo livelli di picco plasmatici dopo un periodo che puo’ variare dalle due alle sei ore dall’ingestione”; e che, secondo i risultati dell’esame autoptico, “la minore concentrazione di aloperidolo rinvenuta nel cervello rispetto al sangue indica che non era stato ancora completato l’assorbimento ed era ancora in corso la distribuzione della sostanza nei vari distretti corporei..”. Sul punto, vanno anche tenute presenti le considerazioni della sentenza del tribunale che, sempre in base alle emergenze della prova scientifica, ha correttamente desunto dalle dichiarazioni dei consulenti del PM che l’insorgenza di manifestazioni tossiche da farmaco e’ strettamente legata alla sensibilita’ individuale del paziente e, in particolare, a fattori quali la gravita’ delle affezioni, cronicita’ dell’uso, tolleranza al prodotto. Detti cruciali passaggi, che non sono mai stati espressamente e argomentatamente confutati dall’odierno ricorrente, conducono, sotto il profilo della colpa, alla esatta conclusione per cui il dato scientifico avrebbe dovuto essere conosciuto o conoscibile dal (OMISSIS) il quale, proprio in ragione della specializzazione posseduta e della professione esercitata, prescriveva detta tipologia di farmaci e avrebbe dovuto quindi padroneggiarne le caratteristiche essenziali. Come ritenuto dai giudici di merito, con motivazione rispettosa dei principi e immune da censure, il (OMISSIS), ricevuta la notizia secondo cui l’ingestione di un intero flacone di Serenase era avvenuta a distanza inferiore di un’ora, non avrebbe dovuto aprioristicamente escludere la fondatezza della informazione constatando che la donna si presentava ancora apparentemente vigile, atteso che, secondo i dati scientifici acquisiti al giudizio, il farmaco raggiunge livelli di picco nel sangue almeno due ore dopo l’assunzione e, in piu’, l’intossicazione manifesta da farmaco varia in ragione della diversa sensibilita’ individuale, Ancora, come rilevato dalla Corte territoriale e, ancora piu’ approfonditamente, dalla sentenza di primo grado (in passaggio motivazionale che non risulta specificamente oggetto dei motivi di appello e che pertanto risulta definitivamente accertato in punto di fatto), dalle cartelle cliniche della donna, che il (OMISSIS) aveva esaminato e che comunque avrebbe dovuto conoscere in considerazione della presa in carico della paziente nel corso dell’ultimo ricovero avvenuto appena un mese prima, risultava che la stessa aveva subito ben 13 ricoveri per la patologia schizoide di cui soffriva e che in talune occasioni aveva manifestato volonta’ autosoppressiva.
5. Avere ignorato tali dati, nella piena disponibilita’ cognitiva del medico, qualifica la condotta di quest’ultimo come oggettivamente al di sotto della diligenza esigibile, e integra certamente la violazione delle regole di prudenza che l’ordinamento impone. In altre parole l’imputato, chiamato a governare il rischio nella gestione della paziente, non ha posto in essere le condotte adeguate a scongiurare il rischio suicidario, e cio’ anche tenuto conto del parametro del rischio consentito, atteso il significativo grado di disattenzione manifestata in ordine alla allarmante informazione ricevuta (ingestione massiccia di farmaco); la sottovalutazione delle regole tecniche riguardanti gli effetti del farmaco e la grave negligenza mostrata allorquando, informato di un comportamento manifestamente rivelatore di un rischio suicidario, aveva consentito che la paziente rientrasse a casa senza attivare alcun trattamento terapeutico e alcun meccanismo di controllo, cosi’ violando gli obblighi di protezione imposti al medico psichiatra. Sul punto, tenuto conto dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, i giudici di merito hanno correttamente sottolineato che, come emerge dai rilievi del consulente della parte civile, le linee guida della Societa’ Italiana di psichiatria prescrivevano, a fronte di una paziente che soffriva della patologia della (OMISSIS) e in relazione alla quale si aveva il sospetto della manifestazione di una condotta auto lesiva (massiccia ingestione da farmaco), l’adozione quantomeno di un ASO (accertamento sanitario obbligatorio); e che, in base alle conclusioni dei consulenti del PM, in un paziente psichiatrico l’assunzione di una quantita’ di farmaco eccessiva rispetto alla norma deve costituire un campanello di allarme, e il sanitario si sarebbe dovuto attivare comunque annotando un supplemento diagnostico di indagini e un monitoraggio clinico anche presso una struttura di pronto soccorso.
6. Quanto alla causalita’, la Corte fa buon governo delle indicazioni che provengono dalla nota giurisprudenza delle Sezioni unite (S.U.Franzese) pervenendo ad un giudizio sull’evitabilita’ dell’evento basato sulle piu’ significative acquisizioni fattuali e scientifiche afferenti al caso concreto, ampiamente argomentato – come si e’ visto – nella prospettiva dell’attuazione di tutte le misure appropriate. In particolare, la Corte argomenta che la condotta negligente del (OMISSIS), consistita nel non avere prospettato neppure una possibilita’ di ricovero, nel non aver tenuto la paziente sotto osservazione per un tempo minimo ragionevole, e, infine, di non aver neppure imposto al marito di attuare sulla moglie una vigilanza costante, hanno sicuramente avuto piena incidenza causale sulla condotta della vittima; ben potendo detti comportamenti, ove attuati, scongiurare l’evento concretamente verificatosi con probabilita’ prossima alla certezza. Si tratta di apprezzamento immune da censure e conforme ai principi sia in tema di causalita’ che di colpa.
7. Manifestamente infondato e’ l’ultimo motivo di ricorso, ove in contesta la correttezza della soluzione adottata in tema di posizione di garanzia, asseritamente insussistente in quanto la (OMISSIS) non sarebbe stata ricoverata presso la struttura. Sul punto, la Corte territoriale ha applicato i consolidati principi sul punto, secondo cui il medico psichiatra e’ titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie – di apprestare specifiche cautele (Sez. 4, n.48292 del 2008, Rv.266831, Sez. 4, n. 33609 del 14/06/2016 Rv. 267446). Posizione che il (OMISSIS), medico curante della (OMISSIS), in servizio la mattina del sinistro presso l’ambulatorio dell’spedale, direttamente interpellato dai familiari e informato dell’accaduto, certamente aveva assunto.
8. Si impone, dunque, il rigetto del ricorso. Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.