Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577

In tema di responsabilità medica la Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
A) In tema di responsabilita’ contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilita’ professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
Competera’ al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi e’ stato ovvero che, pur esistendo, esso non e’ stato eziologicamente rilevante.
B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui alla Legge n. 210 del 1992 articolo 4 fanno prova, ex articolo 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale puo’ valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non puo’ mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

 

Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di Sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

GU. GI., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato SCIANNI SALVATORE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SURACI VINCENZO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.P.A. RI. AD. DI. SI., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA GIORGIO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

TU. GA., TU. AR., TU. FI., NELLA QUALITA’ DI EREDI DI T. G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA FARNESINA 269, presso lo studio dell’avvocato COSTI DANIELE, che li rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

A. AZ. SA. SO. AZ. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell’avvocato IOLANDA CHIMENTO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE GRAZIANO, CANDREVA FRANCESCO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1417/02 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 09/04/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

uditi gli avvocati Salvatore SCIANNI, Giorgio SPADAFORA, Iolanda CHIMENTO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 7.11.1995, Gu.Gi., assumendo di aver contratto l’epatite “C” con le trasfusioni praticategli in occasione di un intervento chirurgico su di lui eseguito dal dr. Tu. il (OMESSO) presso la casa di cura (OMESSO), appartenente alla s.p.a. As., convenne davanti al tribunale di Roma, quest’ultima, Ga., Ar. e Tu.Fi., quali eredi di T.G., per il risarcimento dei danni.

Si costituivano i convenuti, nonche’ la chiamata in causa S.P.A. Ri. Ad. di. Si., quale assicuratrice della societa’ As..

Il tribunale di Roma rigettava la domanda.

Proponeva appello l’attore.

La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 9.4.2002, rigettava l’appello.

Riteneva la corte di merito che l’attore non aveva provato il nesso di causalita’ tra l’emotrasfusione e l’epatite C, poiche’ non era stato provato con la documentazione, tempestivamente prodotta, che alla data del ricovero non fosse portatore gia’ della patologia lamentata, come avevano concluso i c.t.u., mentre non poteva tenersi conto della documentazione relativa ad esami ematici effettuati, prodotta dall’attore in primo grado dopo i termini di cui all’articolo 184 c.p.c., e riprodotta in appello. Riteneva poi il giudice di appello che nessun valore probatorio potesse attribuirsi al verbale della Commissione medico-ospedaliera, che, ai sensi della Legge n. 210 del 1992 articolo 4 aveva accertato tale nesso causale tra epatite e trasfusione in questione.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’attore.

Resistono con controricorso gli intimati. La s.p.a. As. e la s.p.a. Ra. hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La causa e’ stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla responsabilita’ della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di responsabilita’ medica.

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., la violazione degli articoli 113 e 115 c.p.c., ed il vizio di motivazione, a norma degl’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e relativa agli accertamenti sanatari effettuati nel (OMESSO), da cui risultava che non era affetto da epatite.

Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l’epatite C di cui soffriva, nonche’ provare che esso attore non fosse gia’ portatore di tale malattia al momento del ricovero. 2.11 motivo va accolto nei termini che seguono.

E’ infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.

Come queste S.U. hanno gia’ statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’articolo 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilita’ di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioe’, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo) : requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del Giudice della indispensabilita’ degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non puo’ comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).

3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.

Per quanto concerne la responsabilita’ della struttura sanitaria nei confronti del paziente e’ irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilita’ civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilita’ di limitazioni di responsabilita’ o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).

Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilita’ della struttura sanitaria nella responsabilita’ contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorche’ non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale e’ stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilita’ della struttura su quella del medico. Da cio’ derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilita’ contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Piu’ recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto e’ stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalita’, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’articolo 1218 c.c..

Da cio’ consegue l’apertura a forme di responsabilita’ autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si e’ espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessita’ e l’atipicita’ del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtu’ del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori.

3.3. Cosi’ ricondotta la responsabilita’ della struttura ad un autonomo contratto (di spedalita’), la sua responsabilita’ per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall’articolo 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l’individuazione del fondamento di responsabilita’ dell’ente nell’inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d’opera professionale e di fondare semmai la responsabilita’ dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’articolo 1228 c.c..

3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura – paziente va condivisa e confermata.

Cio’ comporta che si puo’ avere una responsabilita’ contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonche’ della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilita’ in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilita’, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalita’ tra clinica e paziente, la responsabilita’ della clinica prescinde dalla responsabilita’ o dall’eventuale mancanza di responsabilita’ del medico in ordine all’esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l’esito dell’intervento chirurgico.

Non assume, in particolare, piu’ rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilita’ della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SS., o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi e’ ipotizzabile la responsabilita’ contrattuale dell’Ente.

4.1. Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilita’ della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio – condiviso da questo Collegio – secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto e’ gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio e’ stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante e’ sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformita’ quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilita’ professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonche’ la prova del nesso di causalita’ tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioe’ di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).

4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalita’ non puo’ essere condiviso, nei termini in cui e’ stato enunciato, poiche’ esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se puo’ avere una funzione descrittiva, e’ dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell’onere probatorio dalla predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).

5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull’utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale, ancorche’ operante soltanto all’interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all’oggetto o contenuto dell’obbligazione, sia in relazione all’onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilita’ del professionista.

Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attivita’ del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attivita’ richiesta nel modo dovuto.

In tali obbligazioni e’ il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza e’ tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l’ulteriore corollario che il risultato e’ caratterizzato dall’aleatorieta’, perche’ dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni oggettivi o soggettivi.

Nelle obbligazioni di risultato, invece, cio’ che importa e’ il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, e’ il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obbligazione.

5.2. Tale impostazione non e’ immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresi’, che un risultato e’ dovuto in tutte le obbligazioni.

In realta’, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicche’ molti Autori criticano la distinzione poiche’ in ciascuna obbligazione assumono rilievo cosi’ il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.

5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell’onere della prova e l’individuazione del contenuto dell’obbligo, ai fini del giudizio di responsabilita’, operandosi non di rado, per ampliare la responsabilita’ contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilita’ professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio.

5.4. Sotto il profilo dell’onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilita’ dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l’onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione e’ stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina.

Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’articolo 2697 c.c. in materia di responsabilita’ contrattuale (in conformita’ a criteri di ragionevolezza per identita’ di situazioni probatorie, di riferibilita’ in concreto dell’onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilita’ contrattuale e da fatto illecito) e’ identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ex articolo 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale, ex articolo 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilita’ per risarcimento del danno nelle obbligazioni cosi’ dette di comportamento non e’ qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.

Cio’ comporta che l’allegazione del creditore non puo’ attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per cosi’ dire, qualificato, e cioe’ astrattamente efficiente alla produzione del danno.

Competera’ al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi e’ proprio stato ovvero che, pur esistendo, non e’ stato nella fattispecie causa del danno.

6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non e’ in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiche’ non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica gia’ in atto al momento del ricovero.

7.1. Per quanto concerne, in particolare, l’ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all’interno della struttura sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilita’, vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo dell’intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla identificabilita’ del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilita’ del sangue) che agli obblighi piu’ generali di cui all’articolo 1176 c.c. nell’esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella singola fattispecie.

7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al momento del ricovero esso non fosse gia’ affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell’onere probatorio, fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.

8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva gia’ emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell’intervento chirurgico e della trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.

A tal fine va condiviso l’orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneita’ di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioe’ la effettiva possibilita’ per l’una o per l’altra parte di offrirla.

8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi della Commissione di cui alla Legge n. 210 del 1992 articolo 4 composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai fini dell’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

L’articolo 4, statuisce che: “1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attivita’ di servizio e la menomazione dell’integrita’ psico-fisica o la morte e’ espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui al testo unico approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, articolo 165.

2. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico sulle infermita’ e sulle lesioni riscontrate.

3. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermita’ o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attivita’ di servizio”.

8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex articolo 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale puo’ valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non puo’ mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass. 20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).

9.1. Infondata e’ l’eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi Tu., sotto il profilo che il de cuius dr. Tu. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualita’ dei campioni di sangue trasfuso.

L’istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio dettato dall’articolo 81 c.p.c., secondo cui nessuno puo’ far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e comporta – trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza “inutiliter data” – la verifica, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilita’ della domanda), circa la coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si distingue quella relativa alla effettiva titolarita’ del rapporto giuridico dedotto in causa, che non puo’ essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995, n. 11190).

Nella fattispecie l’eccezione, cosi’ come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarita’ passiva del rapporto dedotto in giudizio. Cio’ comporta che la questione non possa essere rilevata d’ufficio da questo Collegio.

9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il Giudice di appello, affermando tale titolarita’ passiva, pur rigettando poi l’appello per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.

Non essendosi il Giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l’accoglimento del ricorso principale comporta la possibilita’ di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n. 12219).

10. In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata, in relazione, l’impugnata sentenza e la causa va rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformera’ ai seguenti principi di diritto:

A) In tema di responsabilita’ contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilita’ professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Competera’ al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi e’ stato ovvero che, pur esistendo, esso non e’ stato eziologicamente rilevante.

B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui alla Legge n. 210 del 1992 articolo 4 fanno prova, ex articolo 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale puo’ valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non puo’ mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.