Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 582

In tema di responsabilita’ extracontrattuale per danno causato da attivita’ pericolosa da emotrasfusione, la prova del nesso causale, che grava sull’attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV (causalita’ individuale o specifica), ove risulti provata la idoneita’ di tale condotta a provocarla (causalita’ generale), puo’ essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (ex articolo 2729 c.c.), allorche’ la prova non possa essere data per non aver la struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilita’ del sangue trasfuso al singolo paziente e cioe’ per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioe’ la effettiva possibilita’ per l’una o per l’altra parte di offrirla.

 

 

 

Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 582
Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di Sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CU. FR., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 42, presso lo studio dell’avvocato GIORGIANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VOLPI ROBERTO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

RA. RI. AD. DI. SI. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro temmpore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA GIORGIO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

AS. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA IN ARCIONE 71, presso lo studio dell’avvocato GRAZIANO GIUSEPPE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CANDREVA FRANCESCO MASSIMO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1996/04 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 27/04/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

uditi gli avvocati Iolanda CHIMENTO, per delega degli avvocati Giuseppe GRAZIANO e Francesco CANDREVA, Francesco GIORGIANNI, Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Cu. Fr. conveniva davanti al tribunale di Roma la USL (OMESSO) di Roma e la s.p.a. AS., quale gestore della casa di cura (OMESSO), assumendo che era stato ricoverato d’urgenza presso l’Ospedale (OMESSO), dove gli veniva diagnosticata una gastrite e veniva sottoposto a trasfusioni di sangue; che, il giorno successivo, dimesso, si faceva ricoverare presso la clinica (OMESSO), dove veniva sottoposto ad intervento di resezione gastrica, a seguito del quale erano state necessarie altre trasfusioni; che successivamente accertava di essere affetto da epatite C.

L’attore chiedeva quindi la condanna del soggetto, che tra la struttura pubblica o privata fosse risultato responsabile del contagio da epatite C a seguito di trasfusione con sangue infetto.

Si costituivano i convenuti e la As. chiamava in causa la sua assicuratrice per responsabilita’ civile, RA., che si costituiva.

Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che non risultava provato il nesso causale tra uno dei due soggetti ed il contagio da epatite.

La Corte di appello di Roma, adita dall’attore, con sentenza depositata il 27.4.2004, rigettava l’appello.

In particolare la corte di merito, pur ritenendo nella fattispecie sussistente l’ipotesi del danno da attivita’ pericolosa, per l’intrinseca pericolosita’ dell’attivita’ trasfusionale, riteneva che non fosse stato provato il nesso causale tra uno dei due soggetti, che avevano praticato le trasfusioni al Cu., e l’infezione contratta da questi, in quanto dagli accertamenti effettuati non risultava quali delle trasfusioni (tra quelle fatte presso la casa di cura e quelle fatte in Ospedale) avesse provocato l’infezione, risultando la responsabilita’ alternativa tra le due strutture. La sentenza da atto che l’attore ha rinunziato nel corso del giudizio alla sua domanda nei confronti della USL, insistendo solo nella domanda nei confronti della s.p.a. AS..

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’attore, che ha presentato memoria.

Resistono con rispettivi controricorsi la As. e la Ra., che hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La causa e’ stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilita’ civile, segnatamente in ipotesi di danno da attivita’ pericolosa; al riparto ed al contenuto dell’onere probatorio.

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 2050 e 2043 c.c., nonche’ l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Il ricorrente afferma che, pur avendo la sentenza di appello correttamente affermato che l’attivita’ trasfusionale sia attivita’ pericolosa e che dalla documentazione prodotta si poteva escludere la preesistenza dell’infezione rispetto al ricovero ed affermare la probabilita’ del contagio come conseguente alle emotrasfusioni, contraddittoriamente aveva poi concluso nel senso del difetto di prova del nesso causale della responsabilita’ della casa di cura. Secondo il ricorrente nelle attivita’ pericolose la dimostrazione del nesso causale si atteggia diversamente rispetto alle altre ipotesi da responsabilita’ extracontrattuale, non essendo necessaria la dimostrazione di un nesso tra un fatto specifico imputabile all’agente ed il fatto dannoso, essendo sufficiente la sola probabilita’ fondata sulla causalita’ generica che una certa attivita’ possa produrre un certo evento. Assume poi il ricorrente che, sebbene la casa di cura avesse l’obbligo di legge di riportare nella cartella clinica i dati identificativi delle sacche di sangue trasfuse, al fine di risalire al donatore ed agli accertamenti dell’inesistenza di virus, tanto non era stato provato dalla convenuta AS..

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 1223, 2236, 2697, 2727, 2729 c.c. nonche’ della Legge n. 107 del 1990 e dei Decreto Ministeriale Sanita’ 27 dicembre 1990, e Decreto Ministeriale Sanita’ 15 gennaio 1991, nonche’ il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza.

Assume il ricorrente che, qualora vi siano, come nella specie, omissioni nella redazione della cartella clinica integranti violazioni di legge (nel caso di specie la (OMESSO), in violazione di legge invece di reperire il sangue dai centri trasfusionali autorizzati, avrebbe realizzato un proprio centro interno di raccolta di sangue, usufruendo di donatori a pagamento ed omettendo di indicare nella cartella il percorso di tracciabilita’ del sangue trasfuso), cio’ rileva come nesso eziologico presunto, sulla base della “vicinanza della prova”.

3.1. I due motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono parzialmente fondati.

Va anzitutto osservato che nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che la domanda proposta dall’attore fosse quella di risarcimento del danno subito per responsabilita’ extracontrattuale da attivita’ pericolosa, a norma dell’articolo 2050 c.c..

Il punto non e’ oggetto di impugnazione.

Non e’ neppure in questione se tale forma di responsabilita’ ex articolo 2050 c.c., integri un’ipotesi di responsabilita’ extracontrattuale con presunzione di colpa ovvero un’ipotesi di presunzione di responsabilita’, e cioe’ un’ipotesi di responsabilita’ oggettiva, sul quale punto vi e’ contrasto in dottrina.

E’ stato, infatti, rilevato che il soggetto chiamato a rispondere (nell’ipotesi che l’attivita’ pericolosa assuma la forma di impresa) e’ colui che ha il controllo dell’attivita’ al momento del danno, sul solo presupposto dell’oggettiva mancanza delle misure protettive idonee, non essendogli sufficiente, per ottenere l’esonero, la prova di essere personalmente incolpevole.

Tale esito discende dal fatto che la valutazione richiesta dalla norma concerne l’attivita’ nella sua interezza e non il comportamento personale dell’imprenditore, ed in questa attivita’ vi e’ anche la mancanza oggettiva di misure idonee ad evitare il danno.

3.2. Sennonche’ anche coloro che sostengono che l’ipotesi di responsabilita’ ex articolo 2050 c.c., integri un’ipotesi di responsabilita’ oggettiva (Cass. 4/05/2004, n. 8457), ritengono che cio’ comporti solo che non sia necessario l’elemento soggettivo almeno colposo del soggetto ritenuto responsabile, ma che anche in questo caso, come in ogni caso di responsabilita’ extracontrattuale, essa pur sempre presuppone il previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico – la prova del quale incombe al danneggiato – tra l’esercizio dell’attivita’ e l’evento dannoso, non potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilita’ rispetto ad un evento che non e’ ad esso riconducibile.

3.3. Ne’ si puo’ condividere l’assunto del ricorrente, pur sostenuto da autorevole dottrina, secondo cui, trattandosi di responsabilita’ per rischio tipico dell’attivita’ intrapresa, il Giudice sarebbe tenuto a considerare solo se l’evento lesivo si ponga come probabile conseguenza dell’attivita’ pericolosa, risolvendosi l’onere probatorio del danneggiato nella dimostrazione di una causalita’ generica (o generale).

Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona va tenuta distinta la c.d. causalita’ generale dalla c.d. causalita’ individuale o del singolo caso.

La causalita’ generale e’ un’espressione che ha fatto ingresso nel mondo giuridico sotto l’impulso di moderne scienze, come l’epidemiologia o la biologia animale: essa sta ad indicare l’idoneita’, la capacita’ in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe su popolazioni indagate (cioe’ su gruppi e non su singoli individui). Essa si fonda su un giudizio di probabilita’ scientifica ex ante e si contrappone alla causalita’ individuale, cioe’ al nesso di condizionamento tra esposizione a rischio e singolo evento lesivo. Anche questa non sempre puo’ essere sostenuta da un giudizio di certezza assoluta, ma di probabilita’ scientifica, ma trattasi in questo caso di probabilita’ relativa alla concretizzazione nel singolo caso della legge causale generale (come si vedra’ piu’ ampiamente in seguito).

Non si tratta cioe’ dell’individuazione di una causa idonea a determinare l’evento di danno alla salute secondo una criteriologia medico-legale, che sorta verso gli inizi del secolo scorso e tuttora largamente diffusa, rivendica l’autonomia del concetto di causa nella medicina legale, rispetto alla causa come condizione necessaria ed efficiente dell’evento, richiesta dal diritto penale e civile.

3.4. Se si adottasse il principio secondo cui in tema di attivita’ pericolosa e’ sufficiente che il danneggiato provi solo la causalita’ generale, si giungerebbe quasi ad una tautologia tra attivita’ pericolosa e nesso causale.

Infatti quanto al concetto di attivita’ pericolosa per sua natura, e’ giurisprudenza costante di questa Corte che debba intendersi non solo quell’attivita’ che espressamente e’ ritenuta tale dalla legge (segnatamente quella di P.S.), ma anche ogni altra attivita’, che pur non essendo legislativamente qualificata come tale, tuttavia abbia una pericolosita’ intrinseca o relativa ai mezzi impiegati (Cass. 27/05/2005, n. 11275; Cass. 20.7.1993, n. 8069).

La qualifica di pericolosita’ di un’attivita’ dipende, quindi, da una valutazione empirica: la quantita’ di pericolo che la connota.

Un primo indice rilevatore della pericolosita’ cosi’ intesa si ha quando dall’esercizio dell’attivita’ derivi un’elevata probabilita’ o una notevole potenzialita’ dannosa, considerate in relazione al criterio della normalita’ media e rilevate attraverso dati statistici ed elementi scientifici e di comune esperienza.

Ne consegue che la causalita’ generale tra un’attivita’ ed un evento dannoso e’ solo idonea a far ritenere tale attivita’ pericolosa, ma non anche a far ritenere che il danneggiato abbia assolto al suo obbligo di provare il nesso causale tra tale attivita’ e l’evento, in quanto, ove si ritenesse cio’, la sola esistenza dell’attivita’ pericolosa comporterebbe l’esistenza del nesso causale, gravando poi sul soggetto esercente l’attivita’ provare che nel caso concreto o non esiste tra detta attivita’ e lo specifico evento alcun nesso causale ovvero fornire la prova liberatoria della sua responsabilita’, nei termini di cui all’articolo 2050 c.c., (aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno).

4.1. La questione, quindi, si sposta sul piu’ generale problema del nesso casuale e della sua prova.

Osserva preliminarmente questa Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale e’ emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilita’ civile, che costruiscono la struttura della responsabilita’ aquiliana intorno al danno ingiusto, anziche’ al “fatto illecito”, divenuto “fatto dannoso”.

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale e’ appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilita’ civile cio’ che si imputa e’ il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un “fatto” e’ pur sempre necessario perche’ la responsabilita’ sorga, giacche’ l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’articolo 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.

Il “danno” rileva cosi’ sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalita’ materiale ed il secondo da quella giuridica.

Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana e’ quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui e’ un elemento l’evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi e’ un danno – conseguenza, non vi e’ l’obbligazione risarcitoria.

4.2. Proprio in conseguenza di cio’ si e’ consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in terna di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilita’ (per la quale la problematica causale, detta causalita’ materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, articoli 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell’articolo 1223 c.c., (richiamato dall’articolo 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalita’ giuridica), per cui esattamente si e’ dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perche’ possa configurarsi, a monte, una responsabilita” “strutturale” (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (gia’ accertata) responsabilita’ risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione e’ ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell’articolo 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il comma 2, attiene al rapporto evento – danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.

Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, e’ previsto dall’articolo 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” e’ addebitata a chi “cagiona ad altri un danno ingiusto”, o, come afferma l’articolo 1382 Code Napoleon “qui cause au autrui un dommage”.

Un’analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non e’ richiesta in tema di responsabilita’ c.d. contrattuale o da inadempimento, perche’ in tal caso il soggetto responsabile e’, per lo piu’, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo e’ uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimita’ partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si e’ limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno”, cui e’ dedicato l’articolo 1223 c.c., con il rapporto di causalita’. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalita’ e’ stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtu’ del rinvio operato dall’articolo 2056 c.c., e’ composto dagli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilita’ da inadempimento, anche dalla disposizione dell’articolo 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’articolo 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.

4.3. Ai fini della causalita’ materiale nell’ambito della responsabilita’ aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli articoli 40 e 41 c.p., ritengono che un evento e’ da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso e’ riferibile a piu’ azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalita’ efficiente, desumibile dal secondo comma dell’articolo 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale gia’ in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non e’ sufficiente tale relazione causale per determinare una causalita’ giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali cosi’ determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalita’ adeguata o quella similare della ed. regolarita’ causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

4.4. Quindi, per la teoria della regolarita’ causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno e’ responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilita’ per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalita’ con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioe’ con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si e’ interrogata la dottrina tedesca ben piu’ di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilita’ obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta e’ stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento in cui e’ avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarita’ causale, pur essendo la piu’ seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non e’ andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalita’ adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilita’ obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non e’ quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiche’ non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini cio’ che rileva e’ che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per cosi’ dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilita’ discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilita’ dell’evento.

Il principio della regolarita’ causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto cio’ che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andra’ piu’ propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito.

Inoltre se l’accertamento della prevedibilita’ dell’evento, ai fini della regolarita’ causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore e’ quel tempo tanto maggiore e’ la possibilita’ di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilita’ oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).

4.5. Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789) : rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilita’, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicita’ e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’articolo 40 c.p., comma 2.

Poiche’ l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non puo’ limitarsi alla mera valutazione della materialita’ fattuale, bensi’ postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalita’, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non e’ possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.

La causalita’ nell’omissione non puo’ essere di ordine strettamente materiale, poiche’ ex nihilo nihil fit.

Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalita’ materiale nell’omissione e non la causalita’ normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’articolo 40 c.p.) fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perche’ l’evento potesse realizzarsi.

La causalita’ e’ tuttavia aceertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento?

In altri termini non puo’ riconoscersi la responsabilita’ per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilita’ non sorge non perche’ non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto e’ di per se’ un comportamento antigiuridico), ma perche’ quell’omissione non e’ causa del danno lamentato.

Il giudice pertanto e’ tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalita’ omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalita’ ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.

L’accertamento del rapporto di causalita’ ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

4.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalita’ di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli articoli 40 e 41 c.p., e dalla “regolarita’ causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.

Tanto vale certamente allorche’ all’inizio della catena causale e’ posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’articolo 2043 c.c..

Ne’ puo’ costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicita’ dell’illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilita’ oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non puo’ definirsi in modo unitario il nesso di causalita’ materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicita’ dell’illecito.

Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalita’ materiale in una questione di causalita’ giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’articolo 1223 c.c.), per cui un certo danno e’ addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e danno e’ tutto normativo.

4.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli articoli 40 e 41 c.p., temperati dalla ” regolarita’ causale”, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarita’ delle singole fattispecie normative di responsabilita’ civile.

Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che e’ successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che puo’ anche mancare. Di questo si vedra’ piu’ ampiamente in seguito.

E’ vero che la responsabilita’ civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come e’ stato acutamente rilevato, un responsabile e’ pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilita’ civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.

L’atipicita’ dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.

E’ vero, altresi’, che, contrariamente alla responsabilita’ penale, il criterio di imputazione della responsabilita’ civile non sempre e’ una condotta colpevole; cio’ comporta solo una varieta’ di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessita’ del nesso di causalita’ di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico – logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilita’ oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione e’ segnato spesso da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente e’ autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come e’ previsto dalla clausola generale di cui all’articolo 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi e’ responsabilita’ senza colpa: “ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto piu’ idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di solidarieta’ accolto dalla nostra Costituzione) ovvero e’ il soggetto che aveva la possibilita’ della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilita’, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione piu’ adeguata per evitarlo nel modo piu’ conveniente, sicche’ il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

Sennonche’ il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale e’ la sequenza causale da esaminare e puo’ anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalita’. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalita’ elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilita’ o l’ingiustizia del danno.

4.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilita’ oggettiva non puo’ essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensi’ sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalita’ la medesima funzione che da sempre e’ propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilita’ per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilita’, nella responsabilita’ oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilita’.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare responsabile”. Cio’ perche’ nella fattispecie di responsabilita’ oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilita’, bensi’ o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensi’ con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilita’. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che e’ costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilita’, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.

4.9. Sennonche’ detto cio’, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilita’ dal criterio di imputazione, un nesso causale e’ pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilita’ per colpa) o la condotta di altri (ad es. articolo 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. articoli 2051, 2052 c.c., articolo 2054 c.c. comma 4), posti all’inizio della serie causale.

Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilita’ oggettiva).

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli articoli 40 e 41 c.p., con la particolarita’ che in questo caso il nesso eziologico andra’ valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso.

In altri termini, mentre nella responsabilita’ penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilita’ civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante puo’ essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli articoli 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalita’ di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalita’ nell’illecito civile.

5. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, cio’ che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile e’ la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del piu’ probabile che non”, stante la diversita’ dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identita’ di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE e’ indirizzata ad accettare che la causalita’ non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, ad fine di accogliere quelle maggiormente probabili”).

Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non puo’ essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilita’ quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilita’ logica o baconiana). Nello schema generale della probabilita’ come relazione logica va determinata l’attendibilita’ dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

6.1. Affermato, quindi, che anche in tema di responsabilita’ da attivita’ pericolosa grava sul danneggiato l’onere della prova del nesso causale tra l’attivita’ stessa e l’evento dannoso (in questo senso Cass. n. 5250 del 2006; Cass. n. 5080 del 2006; Cass. n. 20359 del 2005; Cass. n. 15383 del 2006), va ora esaminato come si atteggia il contenuto dell’onere probatorio relativamente ad elementi fattuali, le cui prove sono nell’esclusiva disponibilita’ dell’esercente tale attivita’ ovvero, con piu’ specifico riferimento al caso di specie, allorche’ il soggetto chiamato a rispondere era obbligato a documentare la condotta tenuta.

Le S.U. di questa Corte (30 ottobre 2001, n. 13533), nel riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilita’ contrattuale statuirono che competeva al debitore fornire la prova del suo adempimento, sulla base di varie ragioni: la presunzione di persistenza del diritto, la ravvisata omogeneita’ del regime dell’onere della prova per le azioni previste dall’articolo 1453 c.c., e la vicinanza della prova. In relazione a tale ultima ragione si ritenne che anche nel caso di inadempimento l’onere della prova debba gravare non sul creditore ma sul debitore e cio’ in applicazione del principio di riferibilita’ o vicinanza della prova, in forza del quale “l’onere della prova viene ripartito tenuto conto in concreto della possibilita’ per l’uno e per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione”.

Al principio della vicinanza della prova, segnatamente nel settore della responsabilita’ medica, hanno fatto riferimento in seguito anche altre pronunzie (Cass. 2.2.2007, n. 2308; Cass. n. 23918 del 2006; Cass. n. 3651 del 2006; Cass. n. 11316 del 2003).

Sennonche’, mentre nel campo della responsabilita’ contrattuale, l’onere della prova dell’avvenuto adempimento grava sul debitore ed il principio della vicinanza della prova e’ solo una delle varie ragioni (rectius: la ratio del principio di tale riparto, gia’ fondato sulle prime due ragioni), in tema di responsabilita’ extracontrattuale non puo’ farsi riferimento direttamente al principio della vicinanza della prova per assumere che, se tale prova dell’esistenza o inesistenza del nesso causale trovasi nella disponibilita’ esclusiva di una delle due parti, questa e’ onerata dal fornirla.

6.2. In questo caso l’onere della prova del nesso causale rimane pur sempre a carico dell’attore, stante il principio generale di cui all’articolo 2697 c.c., in tema di prova del fatto costitutivo del diritto azionato, ma tale prova puo’ essere fornita anche tramite presunzioni, allorche’ il soggetto convenuto era obbligato (sulla base di norme giuridiche o tecniche) a predisporre la documentazione relativa alla condotta tenuta ed, avendone la disponibilita’, non la fornisca, ovvero non l’abbia proprio predisposta.

Va, quindi, condiviso il principio espresso da Cass. 21/07/2003, n. 11316 per cui “la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneita’ di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioe’ la effettiva possibilita’ per l’una o per l’altra parte di offrirla”.

6.3. In questo caso non puo’ sostenersi che il nesso causale sia risultato provato sulla base della sola prova della causalita’ generale, in quanto e’ provata anche la causalita’ specifica sulla base della prova presuntiva, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice puo’ far ricorso anche in via esclusiva (Cass. S.U. 24/03/2006, n. 6572) per la formazione del suo convincimento, secondo le regole di cui all’articolo 2727 c.c.. Il punto di partenza in tutti questi casi continua ad essere quello per cui l’attore e’ tenuto a provare il nesso di causalita’, ma si tratta di una prova che puo’ essere caratterizzata da meccanismi di tipo presuntivo. Come ha rilevato attenta dottrina dinanzi alla prova del nesso di causa il danneggiato non e’ lasciato solo, ma a quest’ultimo si affianca il soggetto evocato in giudizio nella veste di responsabile, ove egli sia tenuto per norma giuridica o tecnica a documentare la sua condotta o determinati fatti, registrandosi cioe’ una situazione in cui entrambe le parti non possono rimanere inerti dinanzi al problema della causalita’.

Tuttavia non puo’ ritenersi che, attraverso questa via si sia verificata un’inversione dell’onere della prova in merito al nesso di causalita’, in quanto se questo non risulta provato o sulla base della documentazione di cui ha l’esclusiva disponibilita’ il convenuto, che era tenuto a predisporla, ovvero perche’ il giudice di merito ritiene che nel caso concreto non sussistano le condizioni di cui agli articoli 2727 e 2729 c.c., fondate sulla mancata produzione di tale documentazione, opera pur sempre il principio di cui all’articolo 2967 c.c., e la domanda del danneggiato deve essere respinta in quanto non provata in relazione al nesso di causalita’, mentre, in caso di inversione dell’onere probatorio, nel senso che esso fosse posto a carico dell’esercente l’attivita’ pericolosa, la domanda dovrebbe essere accolta.

7.1. Nella fattispecie, quindi, e’ errata la sentenza impugnata, la quale si e’ limitata a rilevare che, pur essendo certo che il Cu. nelle analisi eseguite 4 giorni prima dell’intervento del (OMESSO) non presentava il virus dell’epatite C e che tale patologia era insorta a seguito delle trasfusioni effettuate presso la casa di cura e presso l’Ospedale, non era stato possibile per i c.t.u. accertare se tale contagio fosse dovuto al sangue trasfuso in Ospedale o presso la Casa di cura, rigettando la domanda per mancata prova del nesso causale.

La corte di merito, infatti, ha trascurato di rilevare che a norma della Legge 4 maggio 1990, n. 107, (avente ad oggetto: – Disciplina per le attivita’ trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati), del Decreto Ministeriale 27 dicembre 1990, (avente ad oggetto “Caratteristiche e modalita’ per la donazione del sangue ed emoderivati) e del Decreto Ministeriale 15 gennaio 1991, avente ad oggetto: (Protocolli per l’accertamento della idoneita’ del donatore di sangue ed emoderivati) dovevano essere annotati gli estremi delle sacche di sangue trasfuso al paziente, al fine di rendere possibile la loro tracciabilita’ in relazione al donatore anche per verificare l’espletamento dei tests relativi all’assenza di virus.

7.2. In conseguenza di cio’ la corte territoriale al fine di poter escludere l’esistenza del nesso causale tra trasfusioni eseguite presso le due strutture ed il contagio subito dal Cu. avrebbe dovuto accertare che la suddetta documentazione prescritta normativamente ed esibita dai due convenuti escludeva che le sacche di sangue trasfuse all’attore provenissero da donatori affetti da HCV.

Qualora, invece, tale prova non fosse stata fornita da uno dei due convenuti la corte avrebbe dovuto valutare se tanto costituiva presunzione, ai sensi degli articoli 2727 e 2729 c.c., dell’esistenza del nesso causale a carico di questi ai fini del contagio da HCV.

Ove tale prova non fosse stata fornita da alcuno dei due convenuti e la corte avesse ritenuto sussistente la presunzione suddetta nei confronti di entrambi i convenuti, la corte avrebbe dovuto anche accertare e valutare se la trasfusione effettuata presso la seconda struttura aveva avuto egualmente un apporto causale nella produzione del contagio.

8. Pertanto, in accoglimento del ricorso nei termini suddetti, va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformera’ al seguente principio di “diritto: “In tema di responsabilita’ extracontrattuale per danno causato da attivita’ pericolosa da emotrasfusione, la prova del nesso causale, che grava sull’attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV (causalita’ individuale o specifica), ove risulti provata la idoneita’ di tale condotta a provocarla (causalita’ generale), puo’ essere fornita anche con il ricorso alle presunzioni (ex articolo 2729 c.c.), allorche’ la prova non possa essere data per non aver la struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilita’ del sangue trasfuso al singolo paziente e cioe’ per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”, e cioe’ la effettiva possibilita’ per l’una o per l’altra parte di offrirla”.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma.

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Avv. Umberto Davide

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