Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Ordinanza 17 aprile 2018, n. 9417

eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, puo’ derivare non solo dall’esplicita disciplina d’impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”, sicche’ possono “determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualita’ degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalita’ sociale, sicche’ non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro.

 

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Ordinanza 17 aprile 2018, n. 9417

Integrale
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12800-2013 proposto da:

(OMISSIS) S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 9007/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/11/2012 R.G.N. 3820/2009.

RILEVATO

che la Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 9007/2012, in riforma della pronuncia di segno contrario del Tribunale della stessa sede, ha accolto la domanda con cui (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), dipendenti di (OMISSIS) s.p.a., avevano chiesto che fossero riconosciuti come facenti parte dell’orario retribuito i tempi necessari alla vestizione e svestizione degli abiti necessari alla prestazione di lavoro quali addetti alle mense (OMISSIS);

che la Corte valorizzava l’obbligatorieta’ della vestizione degli indumenti da lavoro, l’impossibilita’ di indossarli e dismetterli a casa, l’esistenza a tal fine di uno spogliatoio – da considerare gia’ ambiente di lavoro – e di armadi necessariamente sotto il controllo datoriale, anche dal punto di vista della sicurezza, ritenendoli elementi che inducevano a ritenere che i relativi tempi fossero appunto da considerare come di lavoro effettivo;

che la Corte escludeva che potesse indurre a diverse conclusioni il fatto che la normativa contrattuale non contemplasse la computabilita’ dei tempi di vestizione nell’orario di lavoro, trattandosi di omissione che non poteva pregiudicare i diritti soggettivi dei lavoratori;

che (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione affidandosi ad un unico complesso motivo, cui hanno resistito i lavoratori con controricorso, poi illustrato da memoria.

CONSIDERATO

che con l’unico motivo, rubricato ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente sostiene l’erroneita’ della sentenza impugnata per non avere escluso la sussistenza di elementi di eterodirezione datoriale rispetto alla vestizione, omettendo di valorizzare correttamente il fatto che, trattandosi di indumenti resi necessari dall’interferire del lavoro con alimenti, l’obbligo di indossarli gravava direttamente sul lavoratore e che tale vestizione si attuava in un luogo, gli spogliatoi della sede (OMISSIS), al di fuori del diretto controllo del datore di lavoro, sicche’ la volonta’ di quest’ultimo si manifestava come irrilevante e gli indumenti costituivano una mera condizione soggettiva per la legittima offerta della prestazione da parte del lavoratore;

che il motivo e’ infondato, in quanto il (pacifico) gravare dell’obbligo di vestizione di determinati indumenti di lavoro anche sul lavoratore, oltre a non escludere l’obbligo datoriale di imporre e controllare che tale utilizzazione sia effettiva, e’ in realta’ elemento privo di rilievo alcuno;

che, infatti, l’assenza per il lavoratore di liberta’ di scelta rispetto a tempi e luoghi in cui indossare gli indumenti necessari, non permette di ritenere la relativa operazione come relativa agli atti di diligenza meramente preparatoria allo svolgimento dell’attivita’ lavorativa, imponendo, proprio per la mancanza di discrezionalita’, che il tempo necessario per il suo compimento debba essere retribuito (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352; Cass. 16 giugno 2014, n. 13706, nonche’, seppure in ambito di pubblico impiego, Cass., S.U., 12 marzo 2013, n. 11828);

che ai sensi del Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66, articolo 1, comma 2, lettera a) per individuare un orario come di lavoro e’ necessario e sufficiente che il lavoratore sia a “disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attivita’ o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile anche a quella della successiva Direttiva 2003/88/CE, articolo 2, n. 1;

che, in questa prospettiva, e’ evidente l’ininfluenza del fatto che il lavoratore sia a propria volta obbligato dalla normativa a indossare certi indumenti, in quanto cio’ non esclude la possibile mancanza di una sua discrezionalita’ nel decidere quando e dove operare la propria vestizione;

che tale mancanza di discrezionalita’ comporta di per se’ che il lavoratore sia, in tali frangenti, a “disposizione del datore di lavoro” ai sensi e per gli effetti della citata disciplina;

che piu’ in specifico si e’ altresi’ ritenuto che la “eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, puo’ derivare non solo dall’esplicita disciplina d’impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”, sicche’ possono “determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualita’ degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalita’ sociale, sicche’ non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro”(Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352);

che, anche da questo punto di vista, ricorrono i presupposti per il riconoscimento del rientrare della vestizione, nel caso di specie, in orario di lavoro e cio’ non solo perche’ e’ palesemente improponibile che si indossino camice, o cuffie e cappellino per contenere i capelli, nel tragitto verso il lavoro, ma anche per avere la Corte d’Appello, in piena osservanza dei principi appena citati, accertato in concreto la sussistenza di specifico vincolo quanto a tempi e luoghi, in quanto, per ragioni sanitarie, gli indumenti dovevano essere indossati con contiguita’ locale e temporale rispetto all’attivita’ di lavoro presso la mensa, onde evitare la contaminazione con “polvere, agenti atmosferici, sporcizia ed altro, come ragionevolmente si verificherebbe qualora fosse permesso ai dipendenti di indossare gli stessi a casa e per tutto il tragitto sino al luogo di lavoro” (cosi’, testualmente, la sentenza impugnata);

che la pacifica assenza di richiami espressi alla questione nell’ambito della contrattazione collettiva rende ogni profilo a cio’ attinente del tutto irrilevante; che la controversia non puo’ pertanto che essere definita sulla base delle regole di fonte normativa come sopra declinate;

che il ricorso va quindi rigettato, con regolazione delle spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.