ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’hosting provider per l’omessa rimozione di contenuti illeciti, occorre verificare la sussistenza dei seguenti elementi costitutivi della fattispecie:
– la condotta, consistente nell’inerzia;
– l’evento, quale fatto pregiudizievole ed antidoveroso altrui;
– il nesso causale, mediante il cd. giudizio controfattuale, allorché l’attivazione avrebbe impedito l’evento, anche con riguardo, come nella specie, alla sua protrazione;
– l’elemento soggettivo della fattispecie.
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sono due i momenti complementari che occorre provare: da un lato, la rappresentazione dell’evento nella sua portata illecita, che prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo; dall’altro lato, l’omissione consapevole nell’impedirne la prosecuzione, in cui rileva la possibilità di attivarsi utilmente.In questo contesto, l’onere di allegazione e di prova può essere precisato nel senso che spetta all’attore titolare del diritto leso allegare e provare, a fronte dell’inerzia dell’hosting provider:
– la conoscenza di questi in ordine alla manifesta illiceità dell’attività dell’utenza, indotta dalla stessa comunicazione del titolare del diritto leso o aliunde;
– indicare gli elementi che rendevano manifestamente illiceità l’attività degli utenti della piattaforma.
Assolto l’onere della prova incombente su chi vanta la titolarità del diritto al risarcimento, l’inerzia del prestatore integra di per sé la responsabilità, a fronte dell’obbligo di attivazione posto dal menzionato D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, restando, poi, a carico del medesimo, l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, possibilità che sussiste se il prestatore è munito degli strumenti tecnici e giuridici per impedire le violazioni.

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Tribunale|Milano|Sezione 1|Civile|Sentenza|15 febbraio 2023| n. 1208

Data udienza 14 febbraio 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO

PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice Dott.ssa Valentina Boroni, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. n. 31458/2020 promossa da:

(…) S.P.A. (C.F. (…) e P. IVA (…)), (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)) assistiti e difesi dall’Avv. BE.AL. elettivamente domiciliati presso la PEC dell’Avv. Al.Be. (…) presente nel pubblico registro INPEC, con studio in Roma, Via (…).

ATTORI

e

(…) LIMITED, assistita e difesa dagli Avv.ti MO.MI. (C.F. (…)), MA.LU. (C.F. (…)), e FI.FR. (C.F. (…)) (PEC: (…)) ed elettivamente domiciliato presso lo studio del Avv. Mi.Mo., sito in Roma, via (…).

CONVENUTA

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato, (…) SpA, (…) e (…) hanno convenuto in giudizio dinanzi a questo Tribunale (…) Limited (di seguito: (…)), chiedendo di accertare e dichiarare la sua condotta illecita per avere omesso di rimuovere tempestivamente profili di evidente contenuto diffamatorio. Per l’effetto, hanno domandato la condanna al risarcimento di tutti i danni non patrimoniali subiti dagli attori da liquidarsi nella misura di Euro 100.000,00 ciascuno o in altra somma ritenuta di giustizia. Inoltre, gli attori hanno chiesto la pubblicazione della sentenza di condanna.

In particolare, la difesa attorea ha dedotto:

– che alla fine di aprile 2019, gli attori hanno appreso la notizia dell’avvenuta pubblicazione sulla piattaforma (…) di svariati contenuti nelle pagine “(…)” (doc. 2 del fascicolo attoreo) e “(…)” (doc. 3 del fascicolo attoreo) aventi ad oggetto espressioni giudicate ictu oculi lesive del loro onore e della loro reputazione;

– che nei singoli post sono state loro falsamente attribuite una serie di condotte illecite;

– di avere ricevuto riscontro negativo da parte di (…) alla richiesta di rimozione di tali contenuti diffamatori giustificato come segue: “non è chiaro come il contenuto segnalato sia diffamatorio, violi i suoi diritti o sia altrimenti illecito” (doc. 6 del fascicolo attoreo)

A sostegno della fondatezza della propria domanda gli attori hanno evidenziato che l’omessa rimozione da parte di (…) dei contenuti implica una volontaria condivisione del contenuto ictu oculi diffamatorio e, pertanto, il concorso mediante omissione del fatto lesivo ex art. 40 cpv c.p. e art. 110 c.p.

Si è costituita la società (…) Limited, la quale ha chiesto il rigetto delle domande attoree. A sostegno delle proprie ragioni ha dedotto:

– che non sussistono le condizioni descritta dal D.Lgs. n. 70 del 2003 per configurare la propria responsabilità per i contenuti generati dagli utenti e ospitati presso la sua piattaforma poiché non manifestamente illeciti;

– che controparte non ha assolto l’onere di provare il danno patito;

– in ogni caso, l’insussistenza del carattere diffamatorio dei contenuti oggetto di richiesta di rimozione poiché aventi ad oggetto fatti la cui veridicità è stata accertata dalla sentenza del Tribunale di Milano (doc. 3 di (…)).

– in ogni caso, la sproporzione dell’ammontare della somma richiesta a titolo di risarcimento anche considerando che le pagine oggetto della domanda hanno ricevuto scarso riscontro (zero commenti, due “mi piace” e sei condivisioni sul totale dei post);

La domanda è fondata e merita accoglimento per le ragioni che seguono.

Sull’obbligo in capo a (…) di rimuovere il contenuto segnalato come diffamatorio

1. Inquadramento normativo

Alla luce delle difese svolte dal convenuto e del cd. principio della ragione più liquida, occorre preliminarmente valutare se sussista in capo a (…) l’obbligo di rimuovere contenuti illecitamente diffusi dagli utenti tramite la propria piattaforma.

La società (…) è una fornitrice di servizi Internet (cd. Internet service provider) che gestisce una piattaforma digitale in cui vengono memorizzate informazioni fornite dai destinatari del servizio. Atteso che (…) si limita ad immagazzinare le informazioni senza compiere alcun ruolo attivo nell’immissione dei contenuti, viene definito hosting provider.

Il regime di responsabilità del prestatore di servizi di hosting si rinviene nel D.Lgs. n. 70 del 2003, il quale costituisce diretta attuazione nel nostro ordinamento della cd. direttiva sul commercio elettronico di matrice eurounitaria (Dir. n. 2000/31/CE).

Segnatamente, il regime di responsabilità dell’hosting provider per le attività illecite perpetrate nell’uso dei servizi messi a disposizione è delineato dall’art. 16 del D.Lgs. n. 70 del 2003 il quale, rubricato “Responsabilità nell’attività di memorizzazione di informazioni hosting” prescrive, nella parte che quivi maggiormente rileva, che: “Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;

Alla luce di tale disposizione e della giurisprudenza in materia (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708), gli elementi costitutivi della responsabilità dell’hosting provider per i contenuti illeciti trasmessi dagli utenti possono dunque tratteggiarsi nei termini che seguono.

Il legislatore eurounitario e, di conseguenza, quello nazionale hanno scelto di enunciare il generale principio di irresponsabilità dell’internet service provider e, quindi, di delimitarlo al ricorrere di talune condizioni. Ne deriva che l’hosting provider non è, in generale, soggetto né ad un obbligo diffuso di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite presso le piattaforme che gestisce.

La disciplina positiva induce, pertanto, ad escludere ogni obbligo di attivazione del prestatore (pur non “attivo”) con riguardo alla diretta ricerca degli altrui illeciti, nel momento in cui essi vengono immessi e diffusi nella rete; obbligo che sorge, però, nel momento successivo alla conoscenza dei fatti illeciti da parte del prestatore.

Tanto premesso in generale, venendo a ciò che maggiormente rileva nella specie, l’art. 16 cit., per quanto attiene al profilo oggettivo, contempla una fattispecie di responsabilità civile di natura omissiva che si configura qualora l’hosting provider ometta di rimuovere i contenuti di cui conosce la manifesta illiceità. Può dunque ritenersi che, come la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare, l’art. 16 del D.Lgs. n. 70 del 2003 fonda una cd. posizione di garanzia dell’hosting provider, che, se per definizione è estraneo alla originaria perpetrazione dell’illecito del destinatario del servizio, ne diviene giuridicamente responsabile dal momento in cui gli possa essere rimproverata l’inerzia nell’impedirne la protrazione. In altre parole, all’hosting provider si rimprovera una condotta commissiva mediante omissione e, quindi, di aver concorso nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente.

Per quanto attiene al profilo soggettivo dell’illecito in questione, invece, la giurisprudenza di legittimità ha condivisibilmente evidenziato che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di una ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole, come è suggerito dal fatto che essa è subordinata alla conoscenza della manifesta illiceità dell’altrui condotta di cui non si impedisce la prosecuzione.

2. Sul regime di riparto dell’onere della prova

Quanto al regime di riparto dell’onere della prova nel presente giudizio, occorre evidenziare quanto segue.

La giurisprudenza di legittimità (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708) ha avuto modo di precisare che, come in tutti i casi di concorso omissivo nel fatto illecito altrui, ai fini dell’accertamento della responsabilità dell’hosting provider per l’omessa rimozione di contenuti illeciti, occorre verificare la sussistenza dei seguenti elementi costitutivi della fattispecie:

– la condotta, consistente nell’inerzia;

– l’evento, quale fatto pregiudizievole ed antidoveroso altrui;

– il nesso causale, mediante il cd. giudizio controfattuale, allorché l’attivazione avrebbe impedito l’evento, anche con riguardo, come nella specie, alla sua protrazione;

– l’elemento soggettivo della fattispecie.

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sono due i momenti complementari che occorre provare: da un lato, la rappresentazione dell’evento nella sua portata illecita, che prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo; dall’altro lato, l’omissione consapevole nell’impedirne la prosecuzione, in cui rileva la possibilità di attivarsi utilmente.

In questo contesto, l’onere di allegazione e di prova può essere precisato nel senso che spetta all’attore titolare del diritto leso allegare e provare, a fronte dell’inerzia dell’hosting provider:

– la conoscenza di questi in ordine alla manifesta illiceità dell’attività dell’utenza, indotta dalla stessa comunicazione del titolare del diritto leso o aliunde;

– indicare gli elementi che rendevano manifestamente illiceità l’attività degli utenti della piattaforma.

Assolto l’onere della prova incombente su chi vanta la titolarità del diritto al risarcimento, l’inerzia del prestatore integra di per sé la responsabilità, a fronte dell’obbligo di attivazione posto dal menzionato D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, restando, poi, a carico del medesimo, l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, possibilità che sussiste se il prestatore è munito degli strumenti tecnici e giuridici per impedire le violazioni.

3. Sulla responsabilità di (…) da omessa rimozione del contenuto diffamatorio

3.1 Sull’elemento soggettivo dell’illecito

Nella specie, è controverso il sussistere dell’elemento soggettivo dell’illecito. Per dimostrare il ricorrere dell’elemento soggettivo della responsabilità dell’hosting provider occorre, come già evidenziato, che chi invochi il diritto al risarcimento provi la conoscenza dell’hosting provider in ordine alla manifesta illiceità dell’attività dell’utenza e deduca gli elementi che rendevano manifestamente illecita l’attività degli utenti della piattaforma.

La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di perimetrare le nozioni giuridiche di “conoscenza” nonché quella di “manifesta illiceità” nei termini che seguono.

3.1.1 Sull’effettiva conoscenza dei contenuti giudicati illeciti

Quanto al profilo dell’effettiva conoscenza, la giurisprudenza, esaminando in sede penale ipotesi di lesione del diritto sui propri dati personali mediante la diffusione di contenuti internet, ha rilevato come il nostro legislatore, con il D.Lgs. n. 70 del 2003 e in conformità della direttiva 2000/31/CE, “ha inteso porre quali presupposti della responsabilità del provider proprio la sua effettiva conoscenza dei dati immessi dall’utente e l’eventuale inerzia nella rimozione delle informazioni da lui conosciute come illecite. Se ne desume, ai fini della ricostruzione interpretativa della figura del titolare del trattamento dei dati, che il legislatore ha inteso far coincidere il potere decisionale sul trattamento con la capacità di concretamente incidere su tali dati, che non può prescindere dalla conoscenza dei dati stessi” (Cass. pen. 17 dicembre 2013, n. 5107).

Venendo al caso di specie, dai documenti (doc. 6, 7, 8, 9 di parte attrice) versati in atti risulta che in data 29 aprile 2019, è stata rivolta a (…), per conto degli attori, una “segnalazione per violazione di diritti legali” delle pagine “(…)” e “(…)”. In particolare, la segnalazione contiene una richiesta di rimozione di tali contenuti poiché contenenti affermazioni denigratorie e false, nonché volte ad attribuire illeciti non commessi dagli attori e, per tale ragione, giudicati lesivi del loro onore e della loro reputazione. Nella segnalazione, si evidenzia, inoltre, il sospetto che l’autore delle pagine sia un soggetto coinvolto in un processo per “i reati di peculato e appropriazione indebita” ai danni della società (…); in chiosa si afferma di non essere in possesso di alcun provvedimento che accerti l’illiceità del contenuto.

Peraltro, sollecitati da parte di (…) a fornire ulteriori chiarimenti a complemento della segnalazione effettuata in data 29 aprile 2019 (doc. 6 di parte attrice), gli odierni attori, in data 2 maggio 2019 e per mezzo del loro legale (doc. 8), hanno ribadito che le affermazioni contenute nei post: “presentano complessivamente e singolarmente, per estratto e per intero, affermazioni diffamatorie gravissime, lesive dell’immagine di (…) nonché del decoro e della professionalità dei dirigenti individuati nei post”; e ancora: “la volontà denigratoria dell’autore è chiara ed evidente già dalla denominazione dei due profili ((…) e (…)) ove si accosta il nome di (…) a inesistenti fatti di truffa”; “l’insidiosità della condotta degli autori è dimostrata dall’aver aperto due pagine gemelle al fine di eludere l’adozione di eventuali provvedimenti di rimozione”; “fatto ancor più grave è che la pubblicazione “a puntate” di una storia costellata di fantomatici fatti illeciti asseritamente commessi da (…) si unisce, nei post, alla promessa di imminente diffusione di “registrazioni” (…) è bene ricordare che la registrazione e la pubblicazione non autorizzata di registrazioni telefoniche o telematiche costituiscono reati puniti dagli artt. 617 bis, quater, septies c.p.”; “l’anonimato dimostra la sua volontà di oltraggiare (…) e i suoi dirigenti onde sperare di non incorrere in responsabilità”.

A tali missive (…) ha fornito riscontro negativo evidenziando che “non è chiaro come il contenuto segnalato sia diffamatorio, violi i suoi diritti o sia altrimenti illecito. Per questo motivo non ci è possibile elaborare la sua richiesta al momento”.

Alla luce di tale documentazione è incontrovertibile che il social network fosse a conoscenza della diffusione sulla propria piattaforma di contenuti giudicati diffamatori dagli odierni attori.

3.2.3 Sulla manifesta illiceità dei contenuti

La giurisprudenza ha avuto, inoltre, modo di perimetrare la nozione di manifesta illiceità di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 70 del 2003 nei termini che seguono: l’hosting provider è chiamato quindi a delibare, secondo criteri di comune esperienza, alla stregua della diligenza professionale tipicamente dovuta, la comunicazione pervenuta e la sua ragionevole fondatezza (ovvero, il buon diritto del soggetto che si assume leso, tenuto conto delle norme positive che lo tutelano, come interpretate ad opera della giurisprudenza interna e comunitaria), nonché, in ipotesi di esito positivo della verifica, ad attivarsi rapidamente per eliminare il contenuto segnalato (…) L’aggettivo (manifesta, ndr) vale, in sostanza, a circoscrivere la responsabilità del prestatore alla fattispecie della colpa grave o del dolo: se l’illiceità deve essere “manifesta”, vuol dire che sarebbe possibile riscontrarla senza particolare difficoltà, alla stregua dell’esperienza e della conoscenza tipiche dell’operatore del settore e della diligenza professionale da lui esigibile, così che non averlo fatto integra almeno una grave negligenza dello stesso. In caso contrario, in presenza di una situazione di “non manifesta illiceità” nel senso precisato dalla giurisprudenza, in capo al prestatore del servizio non sarà configurabile l’obbligo di rimozione e, conseguentemente, la responsabilità da omessa eliminazione (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708; in senso conforme: Cass. civ. sez. I, n. 39763/2021).

Ciò posto, deve ora valutarsi se i contenuti oggetto della segnalazione rivestano natura manifestamente illecita e diffamatoria e, dunque, idonea a far sorgere in capo all’hosting provider (…) l’obbligo di tempestiva rimozione alla base della responsabilità ex art. 16 del D.Lgs. n. 70 del 2003.

Per far ciò, facendo applicazione dei nominati principi giurisprudenziali, deve dunque valutarsi se (…), al momento della segnalazione, alla luce del panorama normativo e giurisprudenziale, fosse in grado di rendersi conto, in virtù di canoni di diligenza professionale, del carattere diffamatorio dei contenuti segnalati e se fosse, dunque, esigibile una condotta alternativa a quella concretamente tenuta.

Ai fini della risoluzione di tale questione giova premettere che nei contenuti riportati nelle pagine “(…)” oggetto della domanda di rimozione agli attori è stata attribuita la commissione di reati (truffa, minaccia, corruzione) e induzione a violare la legge (segnatamente, art. 88 TULPS) nei termini che seguono (doc. 3 di parte attrice):

Omissis

La pagina “(…)”, altresì oggetto di richiesta di rimozione, riporta pubblicazioni del medesimo contenuto rispetto alla pagina “(…)” (doc. 2 di parte attrice).

Ciò posto, va evidenziato che l’attribuzione a taluno della commissione di reati è fatto palesemente lesivo dell’onore e reputazione. Deve, tuttavia, valutarsi se tale fatto possa essere scriminato dall’esercizio del diritto di critica, il quale costituisce notoriamente espressione della libertà di manifestazione del pensiero di matrice costituzionale (art. 21 Cost.).

A tale interrogativo la giurisprudenza ha offerto risposta negativa. Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti: trascende certamente il diritto di critica l’aggressione del contraddittore con accuse di perpetrazione di veri e propri delitti (nella specie non oggetto di accertamento, ndr) o comunque di condotte infamanti in rapporto alla dimensione personale, sociale o professionale del destinatario (Cassazione civile sez. III, n.7274/2013 e, più recentemente, Cass. civ. sez. I, n. 2605/2023).

E, infine, la giurisprudenza ha avuto anche modo di evidenziare che: occorre che le espressioni di critica usate non costituiscano un attacco offensivo della persona, trasmodando in argomenta ad hominem e, quindi in pura contumelia (Cass. 27 giugno 2000, n. 8733; Cass. pen., 16 novembre 2005, n. 44395).

Deve dunque ritenersi che alla luce di tale giurisprudenza il contenuto oggetto della richiesta di rimozione appare manifestamente diffamatorio poiché, nella specie, l’autore del contenuto pubblicato sulla piattaforma (…) ha attribuito agli attori la commissione di delitti sulla base di mere convinzioni personali. Infatti, dai documenti versati in atti emerge che le sentenze a cui l’autore dei contenuti ha fatto verosimilmente riferimento non hanno accertato la commissione di alcun delitto da parte degli attori (vd. si doc. 5 di (…)).

La stessa (…), infatti, nei propri scritti difensivi, ha evidenziato che la sentenza del Tribunale di Milano del 2017, confermata dalla Corte di Appello di Milano, a cui si fa riferimento nei post ha accertato un mero inadempimento contrattuale da parte della (…). Pertanto, risulta certamente sconfessata la circostanza affermata nei post oggetto di censura in base alla quale gli attori abbiano inteso “farci delinquere con loro rendendoci complici” e fossero “senza scrupoli nel perseguire i loro interessi mettendo a serio rischio gli altri”.

A ciò si aggiunga che dal tenore complessivo dei contenuti emerge che l’autore li abbia redatti al fine precipuo di screditare la società e specifici soggetti per essa operanti, i cui nomi e cognomi sono stati divulgati al dichiarato scopo “di far sapere a tutti come si comportano e come sono senza scrupoli del perseguire i loro interessi”.

Deve dunque ritenersi che alla luce dei nominati principi giurisprudenziali l’attribuzione a taluno di un delitto che non sia stato oggetto di un accertamento giudiziale non può evidentemente costituire, come condivisibilmente affermato dalla difesa attorea, espressione della libertà di manifestazione del pensiero, sub specie di diritto di critica. Diversamente opinando si attribuirebbe a ciascuno il diritto di attribuire prima, e diffondere poi, anche tramite social network, notizie in merito alla perpetrazione di reati sulla base di mere intime convinzioni. Si comprende che consentire ciò avrebbe pervasivi effetti deleteri per l’onore e la reputazione dei soggetti esposti ad aggressione mediatica, anche in ragione dell’ampia capacità diffusiva dei contenuti che ospitano le piattaforme cd. social.

Per tutte queste ragioni, deve ritenersi che (…), in virtù della struttura organizzativa di cui notoriamente dispone, fosse in grado di attingere ai precedenti giurisprudenziali in materia e, quindi, apprezzare la natura manifestamente diffamatoria dei contenuti oggetto di richiesta di rimozione.

Ciò posto, non può condividersi l’impostazione della convenuta in base alla quale l’obbligo di rimozione di contenuti illeciti sarebbe configurabile unicamente nell’ipotesi in cui sussista un provvedimento dell’autorità che ne accerti tale natura.

Accedere a tale impostazione significherebbe, infatti, concretamente vanificare la possibilità di attutire in maniera tempestiva gli effetti lesivi di contenuti manifestamente illeciti. Peraltro, né il tenore dell’art. 16 cit., né la giurisprudenza in materia lasciano spazio a tale interpretazione restrittiva, nella misura in cui subordinano l’obbligo di rimozione al sussistere di circostanze (non meglio precisate) che rendono manifestamente illecita l’attività perpetrata grazie alla piattaforma.

A ciò si aggiunga che il fatto che (…) ha dichiarato che i contenuti oggetto del presente giudizio sono stati rimossi nel luglio del 2019 e che, quindi, non sono attualmente ospitati presso la propria piattaforma (pag. 19 comparsa di costituzione). Ciò dimostra, dunque, che il social network abbia preso atto della illiceità degli stessi senza ricevere elementi conoscitivi ulteriori rispetto a quelli offerti al momento della segnalazione.

Alla luce delle considerazioni che precedono deve dunque concludersi che l’omessa rimozione da parte di (…) di contenuti manifestamente diffamatori abbia potuto generare la lesione dell’onore e della reputazione di ciascun attore, i cui nominativi sono stati ivi riportati (doc. 3 allegato al fascicolo attoreo).

Sull’ammissibilità del deposito della Sentenza del Tribunale di Trieste

Nella nota autorizzata in data 6 ottobre 2022, parte attrice ha depositato la sentenza del Tribunale di Trieste in cui si accerta la responsabilità di (…) e (…) per i reati di appropriazione indebita in danno alla società (…). Tale sentenza, nella prospettazione attorea, è stata allegata allo scopo di dimostrare il modus operandi criminale dei presunti autori delle pubblicazioni durante il rapporto professionale con la (…).

La convenuta, nella comparsa conclusionale (pag. 14), ha eccepito la inammissibilità di detta produzione documentale in quanto tardiva e ne ha dedotto, in ogni caso, l’irrilevanza.

Tale impostazione merita adesione giacché il contenuto di tale provvedimento non spiega alcun effetto sul giudizio di accertamento degli elementi costitutivi dell’illecito commesso da (…). Non si vede, infatti, la ragione per la quale la condanna per appropriazione indebita nei confronti dei presunti autori delle pubblicazioni possa incidere sulla natura manifestamente diffamatoria delle pubblicazioni stesse.

Sul danno non patrimoniale

Così accertati gli elementi costitutivi della responsabilità della convenuta da omessa rimozione e, dunque, la lesione del diritto all’onore e alla reputazione di ciascun attore, occorre ora valutare la sussistenza di un danno – conseguenza risarcibile in capo agli attori.

Gli attori hanno allegato che le pubblicazioni hanno minato l’immagine pubblica della società e dei professionisti nominati nelle pubblicazioni e che la portata delle offese veicolata sul social network (…), vista la sua natura di mezzo di comunicazione di massa, provocato negli attori disagio e difficoltà relazionali dinanzi ad amici, colleghi e soggetti istituzionali che in più occasioni hanno richiesto riscontri e soprattutto rassicurazioni di fronte a così gravi asserzioni.

La convenuta ha evidenziato che gli attori hanno omesso di provare la sussistenza del lamentato danno e che, in ogni caso, la richiesta risulta spropositata in quanto le pagine oggetto di censura:

– contenevano delle dichiarazioni vaghe, confuse e solo indirettamente riferibili alle attrici;

– contenevano un totale di cinque post ciascuna (un numero estremamente basso per una pagina o un profilo (…), che spesso contano centinaia se non migliaia di post); – hanno ottenuto pochissimo riscontro mediatico e sulla piattaforma;

– sono rimaste sulla piattaforma solo per circa tre mesi.

Rispetto all’attrice (…), la convenuta ha sostenuto che la stessa, in quanto persona giuridica, non può aver sofferto una “forte sofferenza morale e relazionale”.

Quanto al primo profilo, va evidenziato che la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di evidenziare che: “Il danno alla reputazione, in quanto costituente danno conseguenza non può ritenersi sussistente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. La prova del danno non patrimoniale, peraltro, può essere fornita con il ricorso al notorio e tramite presunzioni, assumendosi come idonei parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale” (ex plurimis, Cassazione civile sez. III, 14/06/2021, n.16740).

Facendo applicazione di tali principi, si rileva che, nella specie, vi sono sufficienti elementi per ritenere che (…) e (…) abbiano subito un danno dalla omessa rimozione dei contenuti diffamatori sulla piattaforma (…).

E’ noto, infatti, che tale piattaforma sia idonea a generare una pervasiva diffusione dei contenuti che ospita, in quanto accessibile a migliaia di utenti, i quali sono a loro volta in grado di condividere, tramite il ricorso alle moderne tecnologie, informazioni anche a coloro i quali non risultano utenti.

E’ stata, peraltro, nella specie, dimostrata la rilevanza dell’offesa, atteso che l’attribuzione della commissione di un reato è incontrovertibilmente attività idonea a generare un effetto di stigmatizzazione sociale, aggravato dalla qualità professionale delle attrici (…) e (…), le quali, oltre ad essere pacificamente esercenti la professione forense, come affermato dalla società convenuta, occupano posizioni apicali nella società (…).

Quanto al danno non patrimoniale patito dalla società attrice (…) a seguito della lesione della propria reputazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che: “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale subìto dalle persone giuridiche, il pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti (…) può essere oggetto di allegazione e di prova anche attraverso l’indicazione degli elementi costitutivi e delle circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l’esistenza (Cassazione civile sez. III, 18/11/2022, n.34026).

Deve, dunque, ritenersi che la natura di persona giuridica della società (…) non è di per sé circostanza idonea ad escluderne il diritto al risarcimento del danno derivante dalla lesione di diritti immateriali della personalità, tra cui è annoverabile quello alla reputazione (art. 2 Cost.).

Ciò posto, nella specie, il danno subito dall’attrice (…) è desumibile dalla circostanza incontestata di essere una nota società operante nel settore del gioco lecito, sottoposta alla vigilanza dell’Autorità Pubblica e autorizzata a conferire mandato allo svolgimento delle proprie attività a soggetti terzi. Ne deriva che, avere attribuito a quest’ultima e ai suoi vertici aziendali, la commissione di truffe e altre condotte delittuose è fatto di per sé idoneo a minare la credibilità e l’integrità della società agli occhi non solo degli utenti ma anche di potenziali concessionari interessati ad intrattenere relazioni professionali con la società.

Peraltro, contrariamente a quanto affermato dalla convenuta, i nominati danni non possono essere esclusi perché le pubblicazioni contenevano affermazioni solo indirettamente riferibili alle attrici. Infatti, dalla lettura delle stesse si evince che l’autore ha attribuito i fatti agli attori, i cui nominativi sono stati espressamente divulgati.

Peraltro, l’esigua quantità dei post e lo scarso riscontro degli stessi in un ristretto arco temporale sono circostanze inidonee ad escludere in radice l’esistenza di un danno risarcibile. Tali elementi, infatti, possono, semmai, influire sull’ammontare del danno risarcibile. Va, infatti, rilevato che la capacità diffusiva di una informazione condivisa tramite la piattaforma di un social network travalica spesso i limiti della stessa. Infatti, un contenuto ivi pubblicato è certamente idoneo ad essere immagazzinato in dispositivi personali e riprodotto indipendentemente dalla volontà del gestore della piattaforma, nonché trasmesso ad un’indefinita platea di soggetti; e ciò si verifica a prescindere dalle interazioni concretamente verificabili a margine del contenuto (condivisioni sulla piattaforma, “mi piace” ovvero commenti allo stesso da parte degli utenti).

Alla luce delle considerazioni che precedono deve dunque concludersi che i danni all’onore e alla reputazione patiti dagli attori possano essere desunti dalle specifiche allegazioni offerte con riguardo allo stato di ansia e di disagio patito a seguito della pubblicazione, dall’ampia diffusività del mezzo adoperato per veicolare il messaggio diffamatorio, dalla gravità delle offese che sono state loro rivolte, dalla notorietà di cui la (…) gode nel suo campo e dalla qualifica professionale delle attrici (…) e (…).

Tali danni, come già rilevato, debbono essere ricollegati alla condotta contestata alla convenuta, che non è l’autrice dei post oggetto di lamentela ed il cui addebito è confinato nella inerzia rispetto ad una (più) sollecita rimozione a fronte della segnalazione della parte. Su tale specifico profilo da un lato le allegazioni degli attori appaiono meno stringenti e dall’altro il periodo in cui i post sono rimasti a disposizione della rete dopo la segnalazione – tenuto in considerazione il fatto che i post sono stati effettivamente rimossi dalla convenuta – è limitato ( tre mesi, dall’aprile 2019 al luglio 2019, circostanza non contestata dalla difesa attorea, rispetto ad altri tre mesi di permanenza dei post dalla loro pubblicazione prima della segnalazione a (…)). di tal chè risulta giustificata la liquidazione di un importo che si mantiene nella fascia medio bassa dei criteri enucleati nelle “Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa” dell’osservatorio sulla Giustizia civile di Milano.

Va quindi liquidato un danno non patrimoniale patito dagli attori pari ad Euro 5.000,00 euro ciascuno.

Sulla pubblicazione della sentenza

Gli attori hanno chiesto la pubblicazione dell’emananda sentenza.

Secondo la giurisprudenza di legittimità il potere di pubblicazione della sentenza ai sensi dell’art. 120 c.p.c. costituisce “oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma che, grazie alla conoscenza da parte della collettività della reintegrazione del diritto offeso, assolve ad una funzione riparatoria in via preventiva rispetto all’ulteriore propagazione degli effetti dannosi dell’illecito, diversamente dal risarcimento del danno per equivalente che mira al ristoro di un pregiudizio già verificatosi” (Cass. Sez. 1, sent. 21 gennaio 2016, n. 1091, Cassazione civile sez. III, 20/04/2021, (ud. 02/12/2020, dep. 20/04/2021), n.10347).

In ossequio a tali principi giurisprudenziali, l’istanza in questione deve essere rigettata poiché, nella specie, il contenuto diffamatorio è stato pacificamente rimosso e non risulta più ospitato dalla piattaforma (…). Ne deriva che la pubblicazione della sentenza non potrebbe assolvere alla funzione di evitare la protrazione degli effetti dannosi dell’illecito accertato.

Spese di lite

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo tenuto conto dell’attività defensionale concretamente svolta e dei criteri di valore medio ( tranne che per la fase istruttoria che si è risolta nel solo deposito delle memorie) enucleati dal D.M. n. 55 del 2014, aggiornati al D.M. n. 147 del 13 agosto 2022, con aumento per la difesa di più parti con profili modestamente differenti.

P.Q.M.

il Tribunale di Milano, prima sezione civile, in composizione monocratica, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunziando nel contraddittorio delle parti:

1. accerta il contenuto diffamatorio delle pubblicazioni sulla piattaforma “(…)” Limited tramite i profili denominati “(…)” e “(…)” e, per l’effetto condanna (…) Limited al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dagli attori (…) SpA, (…) e (…) che si liquidano in Euro 5.000,00 ciascuno, oltre gli interessi di legge dalla data della sentenza al saldo;

2. rigetta l’istanza di pubblicazione del presente provvedimento;

3. condanna (…) Limited alla rifusione delle spese di lite sostenute dagli attori, che si liquidano in Euro 6.355,00 quale compenso professionale, oltre contributo unificato, rimborso forfettario IVA e cpa.

Così deciso in Milano il 14 febbraio 2023.

Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2023.

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Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.

Offese su whatsapp: diffamazione o ingiuria? 

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.