L’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare, cionondimeno, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo, la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius”. La decorrenza del termine per compiere l’inventario va individuata nel momento di apertura della successione.

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Corte d’Appello|Venezia|Sezione 1|Civile|Sentenza|29 novembre 2022| n. 2540

Data udienza 18 novembre 2022

CORTE D’APPELLO DI VENEZIA

SEZIONE PRIMA CIVILE

La Corte d’Appello di Venezia, Sezione Prima Civile, composta dai seguenti Magistrati:

Dott. Domenico Taglialatela – Presidente

Dott. Gabriella Zanon – Consigliere

Dott. Luca Marani – Consigliere estensore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di secondo Grado iscritta al ruolo il 04/09/2020 al n. …/2020 R.G., promossa con atto di citazione notificato

DA

P.C.S. S.P.A., con sede legale in M., via V. n. 15/17, QUALE MANDATARIA DI R.S.S. S.R.L. (C.F.(…)), con sede legale in C. (T.), via V. A. n. 1, rappresentata e difesa in causa dall’avv. .del foro di Milano ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. .in Venezia, …, come da procura allegata all’atto di citazione in appello

-appellante-

CONTRO

T.A., nato a V. il (…), RAPPRESENTATO DALL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO T.F. (C.F. (…)), e T.F., nata a Venezia il (…) (C.F.: (…)) in proprio, rappresentati e difesi in causa dall’avv. …ed elettivamente domiciliati presso lo studio dello stesso in Riviera XX Settembre n. 38/5 Venezia-Mestre come da procura a margine dell’atto di citazione di primo grado

– appellati-

avente per oggetto: Bancari (deposito bancario, cassetta di sicurezza, apertura di credito bancario)

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto di citazione in opposizione notificato il 9.6.2017 T.A. e T.F. convenivano in giudizio avanti il Tribunale di V.B.B. s.p.a., eccependo l’insussistenza del credito di Euro 371.639,04 fatto valere con il decreto ingiuntivo n. 1068/2018 per non avere gli stessi accettato l’eredità del padre S.T., fide iussore della banca ricorrente.

La banca si costituiva, chiedendo il rigetto dell’opposizione.

Nel giudizio di primo grado si costituiva altresì R.S.S. s.r.l., per il tramite della mandataria P.C.S. s.p.a., quale cessionaria della convenuta (in forza di procura rilasciatale da P.C.S. s.p.a. quale mandataria del veicolo).

La causa, istruita documentalmente, veniva decisa con sentenza n. 946/2020, pronunciata il 19.6.2020, che accoglieva l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo e condannava la mandataria di R.S.S. alla rifusione delle spese degli attori. Il Tribunale, rilevata la sussistenza del diritto di abitazione della madre degli opponenti (nonché convivente more uxorio del fideiussore), C.M., secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 42, della L. n. 76 del 2016, riteneva che i T. non potessero considerarsi possessori dell’immobile già di proprietà del padre, avendo, invece, gli stessi vissuto in quella casa nella loro veste di figli della C., la quale poteva esercitare sull’immobile il diritto riconosciuto dalla L. n. 76 del 2016. La coabitazione era dunque irrilevante per applicazione dell’art. 485 cod. civ. anche in quanto A.T. era affetto da sindrome di down e la sorella ne era l’amministratore di sostegno, ritenendo il primo giudice “a maggior ragione comprensibile e giustificabile il fatto che i figli del de cuius abbiano semplicemente continuato ad abitare con la madre lì dove avevano in precedenza risieduto”.

Avverso la predetta sentenza proponeva appello P.C.S. s.p.a. quale procuratrice di R.S.S. s.r.l. secondo cui il rapporto di convivenza con il de cuius non aveva fatto sorgere un diritto reale della sig.ra C. bensì “un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente … tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, esistente ed opponibile ai terzi solo manente convivenza, non potendo sopravvivere al momento del venir meno di quest’ultima per cessazione volontaria o per causa di morte”.

L’appellante, inoltre, censurava la scelta di ritenere insussistente il possesso dei beni ereditari, invece da affermarsi in ragione della residenza senza soluzione di continuità presso l’abitazione paterna. Pertanto, essendo decorso il termine di tre mesi previsto dall’art. 485 c.p.c. senza la redazione dell’inventario, i T. dovevano considerarsi eredi, risultando priva di effetti la rinuncia all’eredità effettuata dopo la notifica del decreto ingiuntivo.

Chiedeva, pertanto, la condanna al pagamento delle somme ingiunte con il decreto opposto. Si costituivano i consorti T., chiedendo il rigetto dell’appello.

La causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni precisate dalle parti con le note scritte depositate in sostituzione dell’udienza del 26.5.2022, ai sensi dell’art. 221, comma 4, D.L. n. 34 del 1920, convertito in L. n. 77 del 1920 e l’art. 16 del D.L. n. 228 del 2021, convertito in L. n. 15 del 1922, con assegnazione dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica come da decreto del 14.4.2022 del Presidente della Prima Sezione Civile.

I motivi d’appello proposti sono tra di loro strettamente correlati e richiedono una trattazione unitaria degli aspetti rilevanti per la decisione del gravame, vale a dire i presupposti di insorgenza e la natura del diritto di abitazione del convivente da un lato e l’accertamento di una situazione di possesso dei chiamati all’eredità rilevante ai sensi dell’art. 485 cod. civ. dall’altro.

Il comma 36 dell’articolo 1 della L. n. 76 del 2016 definisce conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Il comma successivo afferma che “ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b) del comma 1dell’articolo 13 del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 2233”.

Si è evidenziato in dottrina che deve certamente sussistere il presupposto fattuale dell’unione fondata su legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale. Tuttavia si è ritenuto necessario anche che la convivenza abbia il requisito della “stabilità”, e questa sia “accertata” dalle risultanze anagrafiche.

La norma, come evidenziato dai primi commentatori, sembra chiara nel non ammettere equivalenti per la prova della stabile sussistenza: occorre che questa risulti da una dichiarazione anagrafica. Pertanto, il presupposto fattuale è necessario ma non sufficiente: occorre anche che esso sia in qualche modo formalizzato in un atto conoscibile dall’esterno.

Le norme del D.P.R. n. 2233 del 1989 richiamate dalla L. n. 76 del 2016 sono le seguenti: “- Art. 4 – Famiglia anagrafica

– 1. Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.

2. Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona.”

– Art. 13 – Dichiarazioni anagrafiche

“- 1. Le dichiarazioni anagrafiche da rendersi dai responsabili di cui all’art. 6 del presente regolamento concernono i seguenti fatti:

b) costituzione di nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza.”

Poiché la formazione di questo atto dipende da una dichiarazione (ed esattamente dalla dichiarazione resa da uno dei soggetti indicati nell’art. 6 del D.P.R. n. 1989 del 2235), cioè da un atto volontario (ancorché non negoziale), ne consegue che i due conviventi possono decidere di non rendere la detta dichiarazione e quindi di escludere l’applicazione della normativa sulle convivenze di fatto.

La dottrina si è pure posta il problema, in assenza della predetta dichiarazione, dell’esercizio di quei diritti che erano già riconosciuti, in via interpretativa, ai conviventi di fatto (si pensi alla successione nel rapporto di locazione secondo quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza 7 aprile 1988 n. 404). La soluzione proposta, che appare conforme ai principi generali, è stata quella di ritenere tali diritti salvi a prescindere dalla dichiarazione anagrafica, mentre, invece, i “nuovi diritti” attribuiti alle coppie conviventi (tra cui quello di continuare ad abitare la casa comune) richiedono la dichiarazione anagrafica di costituzione di nuova convivenza che nel caso di specie non risulta essere stata presentata né dalla madre degli appellanti né dal defunto padre. Il certificato storico di residenza dimesso quale doc. 8 del fascicolo monitorio reca l’indicazione di C.M. come “convivente” senza, tuttavia, che risulti l’effettuazione di quella dichiarazione, invece, necessaria per distinguere le convivenze disciplinate dalla L. n. 76 del 2016 dalle mere convivenze di fatto.

Anche volendo ritenere la predetta dichiarazione non necessaria (per essere la convivenza iniziata prima dell’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016, che però non contiene specifiche norme di diritto intertemporale) o in qualche modo comprovata dalle risultanze anagrafiche in atti, va comunque negato che il diritto di abitare nella casa del defunto partner riconosciuto al convivente sia un diritto reale, rientrando piuttosto nel novero dei diritti personali di godimento. Le argomentazioni evidenziate in dottrina a conforto di tale qualificazione – che il Collegio ritiene di far proprie – sono le seguenti:

– Una lettura sistematica della L. n. 76 del 2016 la quale, ogni volta in cui ha ritenuto necessario, ha operato un espresso rinvio al codice civile (come, ad esempio, per il regime patrimoniale della comunione dei beni disciplinato all’art. 1, comma 53, lett. C, in cui vi è un espresso rinvio alla sezione III del capo IV del titolo VI del I libro del codice civile). Nel caso del diritto considerato, invece, non vi è nessun riferimento e nessun rinvio agli artt. 540 comma 2 c.c. e 1022 c.c.

– Un’analisi letterale e lessicale della normativa: nella prima stesura del testo di legge, la locuzione utilizzata era “diritto di abitazione”, quindi con un chiaro richiamo al diritto spettante al coniuge superstite ex art. 540, comma 2 c.c., poi sostituita, in sede di approvazione del testo definitivo, con “diritto di continuare ad abitare”. Questo cambiamento terminologico è stato inteso come il frutto di un volontario allontanamento, da parte del legislatore, dalla scelta di riconoscere il diritto di abitazione del convivente superstite come diritto reale.

– Un’analisi comparatistica tra i due istituti: mentre l’art. 540, comma 2, cd. civ. si riferisce ad un legato vitalizio ex lege, l’art. 1 comma 42 L. n. 76 del 2016 individua un termine finale ben preciso per il godimento dell’immobile adibito a comune residenza.

Si è anche giustamente evidenziato che il convivente non assume la qualifica di legatario dell’immobile in quanto manca una disposizione testamentaria volta a istituirlo come tale ai sensi dell’art. 588 c.c.

Risultano, pertanto, attuali le considerazioni esposte, con riferimento a fattispecie antecedenti l’entrata in vigore della novella legislativa, dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10377/2017 secondo la quale “la convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, con la conseguenza che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta da terzi e finanche dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (cfr. Corte Cass. Sez.2, Sentenza n. 7214 del 21/03/2013; id. Sez. 2, Sentenza n. 7 del 02/01/2014)”.

Osserva ulteriormente la Corte che tale qualificazione appare in linea con le finalità del nuovo istituto. Si è al riguardo giustamente evidenziato che il convivente non è un semplice ospite del suo compagno, non può vantare alcun diritto di proprietà sull’immobile, ma gli è riconosciuto un “diritto personale di godimento”. Tale diritto è finalizzato a garantire al convivente superstite la tutela del diritto all’abitazione dalle pretese dei successori del defunto per un lasso di tempo ragionevolmente sufficiente per provvedere in altro modo a soddisfare il bisogno abitativo (sia pure in un’ottica di favor per i rapporti di lunga durata o dai quali siano nati figli minori e disabili come risulta dai termini minimi e massimi di esercizio del diritto previsti in tali casi dal legislatore).

Le conseguenze in ordine alla qualificazione del diritto sono rilevanti, posto che, come noto, la natura reale del diritto è caratterizzata dall’assolutezza (il titolare può fare valere il proprio diritto nei confronti di tutti) e dal diritto di seguito (il titolare potrà perseguire il diritto nei confronti di qualsiasi soggetto, perché il diritto è sempre collegato al bene e non al soggetto).

La condizione di detenzione qualificata che si deve riconosce in capo al convivente non esclude, invece, che sul medesimo immobile possa sorgere o continuare ad essere esercitato il possesso da parte degli eredi del de cuius fintantoché il convivente non ponga in essere atti negatori del potere di fatto di costoro secondo quanto previsto dall’art. 1140, comma 2, cod. civ.

Nel caso di specie, non è stato nemmeno dedotto che la C. abbia posto in essere (nei confronti dei figli appellanti) atti incompatibili con la condizione di mera detentrice qualificata che le può al più essere riconosciuta. Non può corrispondentemente ritenersi venuto meno il possesso sul bene che T.A. e T.F. hanno acquisito in forza del decesso del de cuius, tenuto al riguardo anche presente che – cfr. Cass. sez. 6 – 2, ordinanza n. 6167 del 01/03/2019 (Rv. 652798 – 01) – nella nozione di “possesso” ex art. 485 c.c. è compresa qualunque situazione di fatto che consenta l’esercizio di concreti poteri sui beni ereditari e, quindi, vi è incluso anche il compossesso, essendo irrilevante che taluno degli altri compossessori non sia chiamato all’eredità poiché, pure in questo caso, il chiamato ha la possibilità di esercitare i detti poteri.

Tale interpretazione dell’art. 485 cod. civ. è conforme a quanto già osservato da Cass. sez. 2, con sentenza n. 7076 del 22/06/1995 (Rv. 493021 – 01) secondo cui “La situazione di possesso, a qualsiasi titolo di beni ereditari da parte del chiamato, quale prevista dall’art. 485 cod. civ. richiede solo una mera relazione materiale tra i beni ed il chiamato alla eredità e cioè una situazione di fatto che consenta l’esercizio in concreto di poteri sui beni stessi, accertata la quale incombe al chiamato, ove voglia sottrarsi alle conseguenze del cit. art. 485, l’onere di provare che, per un qualsiasi eccezionale evento, vi sia stata la materiale impossibilità di esercitare il possesso dei beni riguardo ai quali si configuri l’anzidetta situazione.

La ricorrenza dell’ipotesi eccezionale cui ha fatto riferimento il giudice di legittimità nel citato precedente del 1995 risulta esclusa dagli stessi appellati, i quali, conformemente alle risultanze anagrafiche in atti, hanno sempre ammesso di avere risieduto nell’immobile di proprietà del defunto, sito in M., via M. C. n. 8/A (sia pure per le sole finalità di assistenza al beneficiario di amministrazione di sostegno che sono irrilevanti ai fini che occupano e che anzi comprovano quella relazione speciale con il bene che la Cassazione ha ritenuto rilevante nei termini di cui si è poc’anzi detto).

Il garante T.S. è deceduto il 14.3.2017, mentre T.A. ha rinunciato all’eredità, per il tramite del suo amministratore di sostegno, in data 18.9.2018 e la rinuncia all’eredità di T.F. è intervenuta il 6.6.2018. Trova allora applicazione quanto già evidenziato da Cass. sez. 6 – 2, con ordinanza n. 15690 del 23/07/2020 (in conformità ad un orientamento consolidato): “L’immissione in possesso dei beni ereditari non comporta accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi la compie, la volontà di accettare, cionondimeno, se il chiamato nel possesso o compossesso anche di un solo bene ereditario non forma l’inventario nel termine di tre mesi decorrenti dal momento di inizio del possesso, viene considerato erede puro e semplice; tale onere condiziona, non solo, la facoltà di accettare con beneficio d’inventario, ma anche quella di rinunciare all’eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del “de cuius”. La decorrenza del termine per compiere l’inventario va individuata nel momento di apertura della successione, posto che, come ricordato, i figli di T.S. già risiedevano nell’immobile di M..

Va, infine, osservato che la condizione di beneficiario di amministrazione di sostegno di T.A. non determina l’allungamento del termine per la presentazione dell’inventario previsto dall’art. 489 cod. civ. in quanto detta norma si riferisce agli interdetti ed agli inabilitati (oltre che ai minori) e non è stato nemmeno dedotto che il Giudice Tutelare nel decreto di nomina – neppure prodotto in giudizio

– o con altro successivo provvedimento si sia avvalso della facoltà di cui all’art. 411, ultimo comma, cod. civ. (secondo cui è possibile “disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno”).

Gli appellati non hanno formulato altre contestazioni relative al credito fatto valere dal B.B. in sede monitoria, vantato nei confronti di F.I.R.B. s.r.l (oggi fallita) e garantito da S.T. con fideiussione omnibus sottoscritta in data 30.5.2005.

Tale credito risulta comprovato:

– dal contratto di apertura di credito in conto corrente con garanzia ipotecaria dell'(…) rep n. (…) notaio S.D.P.;

– dagli estratti del conto corrente n. (…),

– dall’atto integrativo di apertura di credito di conto corrente con garanzia ipotecaria del (…) rep n (…) notaio R.S.D.P.

– dall’atto di ricognizione di debito del (…) rep n. (…) notaio S.D.P..

Gli appellati vanno, pertanto, condannati al pagamento della somma capitale già ingiunta in sede monitoria oltre ad interessi al tasso Euribor 3 M base dalla domanda (monitoria) al saldo.

La novità degli istituti rilevanti per la decisione dell’appello e la peculiarità delle questioni trattate giustificano la compensazione integrale delle spese di lite di entrambi i gradi.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando sull’appello proposto da R.S.S. s.r.l. per il tramite della procuratrice P.C.S. s.p.a. nei confronti di T.A. e di T.F. avverso la sentenza n. 946/2020 pronunciata il 19.6.2020 dal Tribunale di Venezia, lo accoglie e in riforma della sentenza appellata:

– condanna T.A. e T.F. al pagamento in favore dell’appellante di Euro 371.639,04 oltre ad interessi Euribor 3M base dalla domanda al saldo;

– dichiara compensate le spese di entrambi i gradi; Conclusione

Così deciso in Venezia, il 18 novembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2022.

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Avv. Umberto Davide

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