I casi di recesso ad nutum previsti dal codice civile per i contratti a tempo indeterminato – contratto di somministrazione (art. 1569 c.c.), di locazione (art. 1596 c.c.), di affitto (art. 1616 c.c.), di mandato (art. 1725 e 1727 c.c.), di agenzia (art. 1750 c.c.), di deposito (art. 1771 c.c.), di conto corrente (art. 1833 c.c.), di lavoro subordinato (art. 2118 c.c.) – costituiscono espressione di una regola generale in base alla quale le parti hanno sempre il potere di recedere da un contratto di durata a tempo indeterminato in modo di assicurare, da un lato, il principio di stabilità del rapporto e, dall’altro, il principio di temporaneità, secondo cui nessuno può vincolarsi all’infinito, svolgendo in tal modo la funzione di integrare il contenuto contrattuale stabilendone il termine finale (c.d. recesso determinativo che ha, appunto, la funzione di integrare i contratti di durata privi di termine finale). L’efficacia o, comunque, la legittimità del recesso determinativo è subordinata alla concessione di un idoneo termine di preavviso che valga a scongiurare il rischio che l’interruzione improvvisa ed inaspettata del rapporto danneggi l’altro contraente. Al riguardo, attesi gli evidenti elementi di similitudine che presenta il contratto di concessione di vendita rispetto al modello contrattuale della somministrazione, nella presente fattispecie viene in rilievo l’art. 1569 c.c. (somministrazione a tempo indeterminato). La norma, ponendo un principio valido per tutti i contratti di durata, stabilisce l’esigenza di un preavviso per il recesso entro un termine che, quando non è previsto contrattualmente o non è stabilito dagli usi, dovrà essere congruo avuto riguardo alla natura del rapporto (ossia, con specifico riferimento al contratto di concessione di vendita, alla maggiore o minore facilità per il concessionario – nell’ipotesi di recesso del concedente – di sostituire al recedente un altro contraente).

Tribunale|Civitavecchia|Civile|Sentenza|31 marzo 2020| n. 344

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI CIVITAVECCHIA

SEZ. CIVILE

Il Giudice, Dr. Giuseppe Bianchi, ha emesso la seguente

SENTENZA

Nella causa civile iscritta al n. 2257 del ruolo generale affari contenziosi dell’anno 2012 e rimessa in decisione in data 28.3.2020 vertente

TRA

(…) SRL , in persona del l.r.p.t., con il patrocinio degli Avv.ti D’A.RO. e PA.RO.;

PARTE ATTRICE

CONTRO

(…) SAS e (…), in persona dei rispettivi l.r.p.t., con il patrocinio degli Avv.ti DO.SI., FR.MA. e CO.PA.;

PARTI CONVENUTE

OGGETTO: Concessione di vendita

FATTO E DIRITTO

I. Con l’atto introduttivo (…) SRL ha convenuto in giudizio (…) SAS e (…) al fine di vedere accolte le seguenti conclusioni:

“1. accertare e dichiarare che il contratto di cooperazione commerciale avente ad oggetto la distribuzione, la vendita e l’assistenza sul territorio italiano delle macchine per l’agricoltura con marchio (…), è stato disdettato dalle convenute unilateralmente, senza che ne ricorresse giusta causa e senza adeguato preavviso;

2. per l’effetto, accertare e dichiarare il dovere delle convenute, anche in solido tra loro, in persona dei rispettivi rappresenti legali pro tempore, di risarcire tutti i danni subiti e subendi dall’attrice in seguito alla predetta disdetta unilaterale e senza il giusto preavviso, intimata dalle convenute;

3. conseguentemente, condannare le convenute, anche in solido tra loro, in persona dei rispettivi rappresenti legali pro tempore, a pagare all’attrice, in persona del suo rappresentante legale pro tempore, a pagare la somma di Euro 2.000.000,00 ovvero la diversa somma, maggiore o minore, che risulterà di giustizia in corso di causa e, subordinatamente, anche a titolo equitativo, con rivalutazione monetaria della somma che risulterà come sopra dovuta, dalla data del recesso per cui è causa (01.02.2012) fino alla pubblicazione della sentenza, maggiorandola degli interessi legali dalla detta data di pubblicazione e fino all’effettivo saldo, compensando ogni eventuale ragione di credito vantata dalle convenute verso l’attrice e, in particolare, con il credito per acquisti di merci effettuati nel 2012 e pari a circa Euro 60.553,90”.

Parti convenute, costituitesi in giudizio, hanno concluso nei termini che seguono: “Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, respinta ogni avversa istanza, eccezione e deduzione, così giudicare Nel merito – respingere le domande formulate da (…) Srl avverso (…) ed (…) SAS poiché infondate in fatto e in diritto per i motivi sopra esposti In subordine nella denegata ipotesi in cui il Tribunale adito dovesse considerare come fondate le domande di (…) Srl formulate avverso (…) ed (…) SAS – ridurre ad equità o comunque ad una somma di giustizia o all’importo che dovesse risultare dalla fase istruttoria, il risarcimento del danno dovuto da (…) ed (…) SAS a (…) Srl In via riconvenzionale – accertare e dichiarare che (…) Srl è ad oggi debitrice nei confronti di (…) SAS dell’importo di Euro 60.553, 90 e per l’effetto – condannare (…) Srl a pagare ad (…) SAS l’importo di Euro 60.553,90 oltre interessi al tasso di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002 In via di subordine e riconvenzionale nella denegata ipotesi in cui il Tribunale dovesse accertare un danno in capo a (…) Srl – compensare la predetta somma di Euro 60.553,90 con l’eventuale importo liquidato in favore di (…) Srl”.

Espletata l’istruttoria, anche con l’ausilio di un consulente traduttore per la deposizione del teste (…), la causa è stata trattenuta in decisione.

Tanto premesso, si osserva quanto segue.

II. I casi di recesso ad nutum previsti dal codice civile per i contratti a tempo indeterminato – contratto di somministrazione (art. 1569 c.c.), di locazione (art. 1596 c.c.), di affitto (art. 1616 c.c.), di mandato (art. 1725 e 1727 c.c.), di agenzia (art. 1750 c.c.), di deposito (art. 1771 c.c.), di conto corrente (art. 1833 c.c.), di lavoro subordinato (art. 2118 c.c.) – costituiscono espressione di una regola generale in base alla quale le parti hanno sempre il potere di recedere da un contratto di durata a tempo indeterminato in modo di assicurare, da un lato, il principio di stabilità del rapporto e, dall’altro, il principio di temporaneità, secondo cui nessuno può vincolarsi all’infinito, svolgendo in tal modo la funzione di integrare il contenuto contrattuale stabilendone il termine finale (c.d. recesso determinativo che ha, appunto, la funzione di integrare i contratti di durata privi di termine finale).

L’efficacia o, comunque, la legittimità del recesso determinativo è subordinata alla concessione di un idoneo termine di preavviso che valga a scongiurare il rischio che l’interruzione improvvisa ed inaspettata del rapporto danneggi l’altro contraente.

Al riguardo, attesi gli evidenti elementi di similitudine che presenta il contratto di concessione di vendita rispetto al modello contrattuale della somministrazione, nella presente fattispecie viene in rilievo l’art. 1569 c.c. (somministrazione a tempo indeterminato).

La norma, ponendo un principio valido per tutti i contratti di durata, stabilisce l’esigenza di un preavviso per il recesso entro un termine che, quando non è previsto contrattualmente o non è stabilito dagli usi, dovrà essere congruo avuto riguardo alla natura del rapporto (ossia, con specifico riferimento al contratto di concessione di vendita, alla maggiore o minore facilità per il concessionario – nell’ipotesi di recesso del concedente – di sostituire al recedente un altro contraente).

III. La domanda attorea è infondata in quanto il recesso posto in essere dalla convenuta dal contratto di concessione di vendita in Italia dei prodotti a marchio (…) appare conforme al dettato dell’art. 1569 c.c. e ai canoni di buona fede e correttezza.

IV. Con riferimento all’asserita abusività del recesso esercitato dalla convenuta, che l’attrice eccepisce richiamando ripetutamente la sentenza di legittimità n. 20106/09 (la quale, tuttavia, ha ad oggetto una ipotesi di recesso convenzionale in un contesto di dipendenza economica, laddove la presente controversia attiene ad una ipotesi di recesso legale al di fuori di una situazione di dipendenza economica), va considerato quanto segue.

La stessa Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che “l’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti” precisando che “l’abuso del diritto è da escludere allorché il recesso non motivato dal contratto sia consentito dalla legge” (Cass. 10568/13).

Alla luce di tali premesse, nel caso in esame non può ravvisarsi alcuna contrarietà del recesso posto in essere dalla convenuta (…) SAS al principio di buona fede oggettiva.

Nella fattispecie in esame viene, infatti, in considerazione una ipotesi di “recesso dal contratto consentito dalla legge”, trattandosi – come sopra esposto – di un principio (quello che ammette il recesso dai vincoli perpetui) riconosciuto da dottrina e giurisprudenza e pacificamente incluso tra le cause di recesso “ammesse dalla legge” di cui all’art. 1372, comma 2, c.c..

Inoltre, nell’ipotesi del recesso determinativo, per un verso, non può immaginarsi l’esercizio del diritto potestativo al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il recesso viene riconosciuto, in quanto l’ordinamento attribuisce la libertà di liberarsi dal rapporto al solo scopo di porre un termine finale a vincoli di durata indefinita; per altro verso, la correttezza delle modalità di esercizio del recesso e la proporzione tra interesse perseguito dal recedente e sacrificio inflitto agli interessi della controparte possono assumere rilevanza esclusivamente in sede di valutazione dell’unico limite cui è condizionata la legittimità di tale tipologia di recesso, costituito dalla necessità di un congruo preavviso (quindi la valutazione della correttezza e della proporzionalità del recesso si risolve nel giudizio di congruità preavviso concesso dal recedente).

V. Venendo alla valutazione in merito alla congruità del preavviso concesso dalla convenuta, vanno preliminarmente richiamati i principi, pienamente condivisibili, affermati a tale proposito dalla giurisprudenza di merito con specifico riferimento al rapporto di concessione di vendita (Trib. Monza, 17.4.2000):

– il preavviso è congruo quando sia garantita al concessionario la possibilità di ammortizzare gli investimenti che lo scioglimento del rapporto rende irrecuperabili, riducendo così gli effetti negativi conseguenti alle spese effettuate dalla stessa parte in considerazione di un rapporto presumibilmente di lunga durata;

– il recesso è illecito, per violazione del dovere di protezione che incombe al concedente, quando questo sia intimato prima che sia trascorso un lasso di tempo sufficiente ad accordare al concessionario una ragionevole chance di recupero degli investimenti irrecuperabili;

– l’impiego di ingenti strutture organizzative deve essere provato in concreto, con riguardo all’attività del singolo concessionario, in quanto può anche essere che la commercializzazione dei beni del concedente in realtà non abbia richiesto la predisposizione di alcuna struttura particolare al concessionario o che questo sia rivenditore di prodotti di diversi concedenti;

– sulla base dell’art. 2697 c.c., spetta alla parte che lamenta l’illegittimità del recesso dimostrare che il preavviso non è congruo, ovverosia che ha effettuato delle spese confidando nella continuazione del rapporto e che la brevità del preavviso non ha permesso di ammortizzare tali investimenti.

Quest’ultima conclusione (relativa all’onere della prova in capo alla parte destinataria del recesso) risulta confermata anche dalla giurisprudenza di legittimità: “è la parte che assume l’illegittimità del recesso (ad esempio per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede) che ha l’onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova nel caso concreto” (Cass. 6186/08).

In applicazione dei suddetti principi deve escludersi la fondatezza della domanda attorea volta all’accertamento della incongruità del termine di preavviso della durata di sei mesi concesso dalla convenuta.

Invero l’attrice

– sul piano assertivo, non ha allegato di avere effettuato spese confidando nella continuazione del rapporto per un periodo superiore a sei mesi; non ha dedotto che la brevità del preavviso non abbia permesso la riconversione dell’attività o di ammortizzare gli investimenti compiuti in considerazione di un rapporto di durata superiore ai sei mesi; non ha allegato alcuna difficoltà nel sostituire i prodotti forniti dalla convenuta con quelli dati da altro concedente; non ha dedotto che il lasso temporale di sei mesi fosse insufficiente per consentirle di intensificare i rapporti con i clienti già in essere e/o di cercarne di nuovi al fine di sostituire i prodotti forniti dalla convenuta; non ha indicato elementi concreti che imponessero la concessione di un preavviso più ampio di quello che di fatto è stato concesso (6 mesi); non ha allegato quali sarebbero state, nell’ipotesi di concessione di un preavviso maggiore, le modifiche che sarebbero state approntate per adeguare la propria attività imprenditoriale ed evitare i danni di cui si rivendica in questa sede il ristoro;

– ha articolato una molteplicità di capitoli di prova orale vertenti su fatti generici (capp. 1.1, 1.2, 1.3, 1.31, 1.45, 1.48), irrilevanti ai fini del decidere o non contestati (capp. 1.4, 1.5, 1.6, 1.7, 1.8, 1.10, 1.11, 1.12, 1.16, 1.17, 1.20, 1.29, 1.38, 1.39, 1.40. 1.41, 1.44) e allegati tardivamente solo con la seconda memoria di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. (con la conseguenza che i mezzi di prova diretti a dimostrarli risultano inammissibili, potendo il diritto alla prova essere esercitato solo relativamente a fatti tempestivamente allegati: capp. 1.9, 1.13, 1.14, 1.15, 1.18, 1.19, 1.21, 1.22, 1.23, 1.24, 1.25, 1.26, 1.27, 1.28, 1.30, 1.32, 1.33, 1.34, 1.35, 1.36, 1.37, 1.42, 1.43, 1.46, 1.47);

– ha depositato una ingente molte di documentazione (n. 2721 documenti) che, poiché non accompagnata da una, neppure minima, specifica allegazione in atti (attesa la totale assenza negli scritti dell’attrice di qualsivoglia richiamo a singoli documenti o a gruppi di essi: anche negli scritti conclusionali l’attrice si limita infatti a richiamare in blocco la “documentazione depositata in atti”), risulta inutilizzabile in omaggio al principio secondo cui il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti solo nel caso in cui la parte interessata esponga nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese (derivandone altrimenti per la controparte l’impossibilità di controdedurre e risultando per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione: Cass. 5711/05; Cass. 10267/05; Cass. 23976/04), essendogli viceversa inibito utilizzare documenti che non siano stati specificamente richiamati nella domanda o negli atti di parte successivi (Cass., 2435/08; Cass. 2076/02: “non è sufficiente che una determinata circostanza sia acquisita al processo attraverso la produzione di un documento ad opera di una delle parti in causa, essendo, invece, necessario che la parte, interessata a far valere la circostanza, ne faccia oggetto della propria tesi difensiva, richiamandola al momento della produzione o anche successivamente”);

– onerata ex art. 2697 c.c., non ha offerto alcun elemento, neppure sul piano meramente indiziario, che lasci presumere l’effettuazione degli investimenti elencati da pag. 20 a pag. 23 dell’atto introduttivo, non essendo stata minimamente indicato da quali documenti emergerebbe la sopportazione di costi legati specificamente alla commercializzazione dei prodotti a marchio (…);

– onerata ex art. 2697 c.c., non ha offerto alcun elemento, neppure sul piano meramente indiziario, a riprova di avere approntato una “rete di vendita composta da 90 rivenditori presenti in 18 regioni, 51 province e 78 città”, né ha provato di avere impiegato alcuna struttura organizzativa specificamente dedicata al rapporto di concessione in questione. Anche a voler superare i rilevi di inammissibilità sopra svolti con riguardo alla produzione documentale attorea, dalla documentazione prodotta, comunque, non si ricaverebbe il compimento di specifici investimenti legati alla commercializzazione del prodotto (…), posto che i contratti di agenzia e procacciamento d’affari depositati (allegati nn. 2144, 2155, 2238-bis e 2310, individuati dalla controparte a pagg. 16-17 della terza memoria) hanno ad oggetto la commercializzazione di una pluralità di marchi (oltre a (…) anche i marchi (…)) e, dunque, non rappresentano degli investimenti correlati specificamente alla vendita dei prodotti (…);

– l’attrice non mai ha specificamente contestato il fatto che “(…) SRL, quando entrò in contatto con (…), già disponeva di una propria rete commerciale per la distribuzione degli altri prodotti, anche concorrenziali con quelli di (…), di cui era rivenditore. Dunque (…) non ha dovuto far altro che proporre agli stessi suoi clienti, mediante la rete di vendita già in essere, anche i macchinari a marchio (…)”, risultando quindi incontroverso che la commercializzazione dei beni del concedente non abbia di fatto richiesto al concessionario la predisposizione di alcuna struttura ulteriore rispetto a quella già precedentemente in essere per la rivendita di prodotti di diversi concedenti, con conseguente impossibilità, già in astratto, di ipotizzare la mancanza di un tempo idoneo per poter riorganizzare la propria attività, non essendo in realtà necessaria alcuna riorganizzazione.

Anche a non considerare che l’attrice si è completamente sottratta all’onere di provare l’incongruità del termine, ulteriori considerazioni portano in ogni caso ad escludere che il preavviso semestrale possa essere ritenuto incongruo: da un lato, sul piano generale, l’applicabilità analogica della norma (art. 1750, comma 3, c.c.) che, per il contratto di agenzia, prevede un preavviso minimo di sei mesi per i rapporti di durata superiore a sei anni (essendo, nell’ipotesi in esame, il rapporto durato otto anni); dall’altro, nel caso specifico, assume valore decisivo il rilevo marginale che la rivendita dei prodotti a marchio (…) rivestiva nella complessiva attività dell’attrice, rappresentando circa il 6,6% del fatturato complessivo della società (come allegato dalla società attrice: “per l’attrice le vendite dei prodotti (…) delle convenute valevano il 15% del suo fatturato”): un preavviso della durata di sei mesi, che avrebbe potuto essere considerato incongruo laddove tra le parti fosse stato pattuito un obbligo per l’attrice di commercializzare solo i prodotti a marchio (…), non può viceversa essere giudicato incongruo nel caso di specie, ove non solo non è stata pattuita alcuna esclusiva a favore dell’attrice ma risulta che l’attività di quest’ultima si sia esplicata principalmente (per il 93,4%) attraverso la rivendita di prodotti forniti da diversi concedenti.

In conclusione, il termine di preavviso concesso risulta del tutto congruo rispetto alle concrete peculiarità del rapporto oggetto del presente giudizio.

Ne discende la legittimità del recesso e l’infondatezza, per assenza di danno-evento, della domanda volta al risarcimento dei danni derivati dalla pretesa illegittimità del recesso stesso.

VI. La domanda riconvenzionale proposta da (…) SAS è fondata.

L’esistenza del credito è stata infatti ripetutamente riconosciuta negli scritti difensivi dell’attrice (a partire dalla prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.), che, muovendo dal falso presupposto relativo all’illegittimità del recesso, ha invocato la regola inadimplenti non est adimplendum per sottrarsi al pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo per la merce acquistata.

Parte attrice va, pertanto, condannata al pagamento della somma di Euro 60.553, 90 oltre interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002 decorrenti dalla data di proposizione della domanda riconvenzionale (9.4.2013).

VII. Le spese del giudizio vanno poste a carico della parte soccombente, nella misura liquidata in dispositivo sulla base dei valori minimi dello scaglione di riferimento in considerazione dell’unicità, sul piano sostanziale, della posizione delle convenute.

Le spese liquidate a favore del consulente traduttore vanno poste definitivamente a carico della parte attrice.

P.Q.M.

il Tribunale di Civitavecchia, definitivamente pronunciando, assorbita o disattesa ogni altra istanza, domanda o eccezione, così provvede:

– rigetta le domande attoree;

– accoglie la domanda riconvenzionale e, per l’effetto, condanna (…) SRL a pagare in favore di (…) SAS la somma di Euro 60.553, 90 oltre interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002 decorrenti dal 9.4.2013;

– condanna (…) SRL alla rifusione, in favore delle controparti, delle spese processuali, che liquida in Euro 21.424,00, oltre rimborso spese generali, iva e cpa come per legge, in favore di ciascuna parte convenuta;

– pone le spese di CTU definitivamente a carico di parte attrice.

Così deciso in Civitavecchia il 30 marzo 2020.

Depositata in Cancelleria il 31 marzo 2020.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.