nei rapporti bancari regolati in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista ovvero della capitalizzazione di interessi sui conti che risultano debitori, la banca che agisce per il pagamento della somma risultante dal saldo di conto corrente deve dimostrare l’entità del proprio credito mediante la produzione degli estratti del conto corrente a partire dall’apertura del conto stesso (anche se risalente ad oltre un decennio anteriore), al fine di consentire – attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporto di dare e avere – di determinare l’esatto ammontare del credito.

 

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Tribunale Frosinone, civile Sentenza 5 luglio 2018, n. 683

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI FROSINONE

nella persona del giudice unico dott. Gianluca MAURO PELLEGRINI ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. 2365 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2013 con conclusioni precisate all’udienza del 30 giugno 2017 e vertente

TRA

(…) S.n.c., (…), (…), (…)

rappresentati e difesi dall’avv. Fa.Fa. per procura a margine dell’atto di citazione

OPPONENTI

E

(…) s.p.a.

rappresentata e difesa dall’avv. Al.Si. per procura a margine della comparsa di risposta

OPPOSTA

OGGETTO: opposizione a decreto ingiuntivo – contratti bancari

MOTIVI DELLA DECISIONE

(…) s.n.c. (nella qualità di titolare del conto corrente n. (…) – (…) aperto presso la filiale di (…) della (…) s.p.a.), (…), (…) e (…) (nella qualità di fideiussori) hanno proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 383 del 2013 con cui il Tribunale di Frosinone ha ingiunto loro di pagare alla (…) s.p.a. (quale successore a seguito di fusione per incorporazione nei diritti della (…) s.p.a.) la somma di 78.665,56 Euro oltre accessori, quale saldo passivo del conto corrente n. (…).

Gli opponenti hanno dedotto al riguardo che:

1) il credito della banca si fonda sull’applicazione illegittima di interessi anatocistici;

2) la banca ha applicato commissioni di massimo scoperto, giorni di valuta e spese trimestrali in assenza di pattuizione scritta;

3) la banca ha applicato sui saldi passivi del conto corrente interessi in misura ultralegale, in difetto di apposita pattuizione scritta.

Gli opponenti hanno concluso domandando la revoca del decreto ingiuntivo opposto, la rideterminazione dei rapporti di dare e avere intercorsi tra le parti e – in via riconvenzionale – la condanna della banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate o riscosse, per un importo di 52.965,10 Euro.

Si è costituita in giudizio la (…) S.p.A., domandando il rigetto dell’opposizione perché infondata.

I rapporti bancari intercorsi tra (…) S.n.c. e la (…) S.p.A.

Dalla documentazione depositata dalle parti e dalla ricostruzione dei rapporti bancari eseguita dal c.t.u. risulta che la società opponente ha intrattenuto con la filiale di (…) della (…) s.p.a. alias (…) s.p.a. (oggi (…) s.p.a.) un rapporto bancario regolato sul conto corrente n. (…) aperto il 28 maggio 1998.

Tale rapporto costituisce la prosecuzione del rapporto bancario inizialmente intrattenuto dalla società opponente con il (…), in seguito incorporato nella (…) s.p.a. (rapporto aperto il 2 maggio 1989 e regolato sul conto corrente n. (…)), come dimostra il fatto che:

a) il saldo finale del conto n. (…) alla data del 30 aprile 1997 è uguale al saldo iniziale del conto n. (…) alla data del 30 giugno 1997;

b) alla data del 30 aprile 1997 diversi sportelli della (…) s.p.a. furono ceduti alla (…) s.p.a. e tra questi anche lo sportello di Fiuggi.

Il conto corrente n. (…) è stato chiuso il 12 novembre 2012 (data del passaggio del conto in sofferenza).

La capitalizzazione trimestrale degli interessi

Il c.d. anatocismo bancario è attualmente disciplinato dall’art. 120, comma 2, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (T.U.B.) – introdotto dall’art. 25, comma 2, del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e modificato dall’articolo 1, comma 629, della L. 27 dicembre 2013, n. 147 e da ultimo dall’articolo 17-bis del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 8 aprile 2016, n. 49 – che ha attribuito al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (C.I.C.R.) il potere di stabilire le modalità e i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.

Con deliberazione del 9 febbraio 2000 (adottata in attuazione di quanto previsto dall’art. 25, comma 2, del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e pubblicata nella G.U. del 22 febbraio 2000, n. 43) il C.I.C.R. ha stabilito le modalità di calcolo degli interessi nei rapporti bancari regolati in conto corrente, prevedendo che:

1) l’accredito e l’addebito degli interessi deve avvenire sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti e il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità;

2) nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori;

3) il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può produrre interessi se ciò è stato contrattualmente stabilito, ma su tali interessi non è consentita la capitalizzazione periodica.

Quanto ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della deliberazione del C.I.C.R., l’art. 7 della delibera consente la capitalizzazione degli interessi sul saldo periodico del conto, previo adeguamento delle condizioni contrattuali ai criteri stabiliti dalla delibera entro il 30 giugno 2000 mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e con effetto a decorrere dal 1 luglio 2000.

Ciò premesso quanto alla validità delle clausole di capitalizzazione degli interessi contenute nei contratti stipulati (o adeguati) dopo l’entrata in vigore della deliberazione C.I.C.R. del 9 febbraio 2000, secondo un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale devono invece essere dichiarate nulle per violazione dell’art. 1283 cod. civ. le clausole che prevedevano la capitalizzazione degli interessi nei rapporti bancari regolati in conto corrente anteriormente all’adeguamento imposto dalla deliberazione del C.I.C.R. (Cass. 2374/1999, Cass. 3096/1999, Cass. 12507/1999, Cass. 6263/2001, Cass. 4498/2002, Cass. 8442/2002, Cass. 14091/2002, Cass. 2593/2003, Cass. 12222/2003; Cass., Sez. Un., 21095/2004; Cass., Sez. Un., 24418/2010).

Al riguardo si è osservato che:

a) l’art. 1283 cod. civ. – che contiene una disposizione a carattere imperativo e come tale inderogabile dalle parti – ammette la possibilità che gli interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi nella sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre (qualora venga proposta una domanda giudiziale, ovvero per effetto di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi);

b) l’art. 1283 cod. civ. potrebbe essere derogato da usi contrari a carattere normativo (artt. 1 e 8 prel.), consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento, accompagnato dalla convinzione che si tratti di comportamento (non dipendente da mero arbitrio soggettivo, ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis);

c) deve escludersi che sia mai esistita una consuetudine normativa in virtù della quale nei rapporti tra banca e cliente gli interessi a carico di quest’ultimo potessero essere capitalizzati ogni trimestre;

d) nessun rilievo possono assumere al riguardo le c.d. norme bancarie uniformi predisposte dall’associazione di categoria (Associazione (…)), trattandosi di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall’associazione alle banche associate, aventi natura pattizia e quindi idonee a determinare un uso meramente negoziale;

e) l’orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi prima di Cass. 2374/1999 non ha mai affermato l’esistenza di una norma consuetudinaria avente i caratteri dell’uso normativo, essendosi la Cassazione limitata ad affermare – sulla base di un dato di comune esperienza – che l’anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, senza che tale prassi derogatoria possa assurgere al rango di regola generale ed astratta e, quindi, a fonte del diritto;

f) non vi è alcun elemento idoneo a giustificare la conclusione che esistesse, prima del 1942, un uso normativo inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito;

g) la comune esperienza insegna che i clienti delle banche si adeguavano all’inserimento di tali clausole non perché ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, clausole che non erano suscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva un presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.

Tali principi sono stati definitivamente ribaditi da Cass., Sez. Un., 21095/2004, che ha espressamente escluso che un uso normativo relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca possa fondarsi sulla giurisprudenza formatasi a partire da Cass. 6631/1981 (che riconobbe la legittimità della relativa clausola contrattuale) e costantemente seguita dai giudici di legittimità fino al revirement del 1999.

In applicazione di tali principi va dunque dichiarata la nullità della clausola contrattuale – in vigore fino al 30 giugno 2000 – che prevede la chiusura contabile trimestrale del conto corrente che risulti a debito e la capitalizzazione degli interessi passivi maturati sulle somme dovute dal cliente alla banca, con conseguente diritto per il cliente di ripetere gli eventuali pagamenti già effettuati a tale titolo (ovvero di rifiutare legittimamente il pagamento degli interessi ancora dovuti in virtù di tale clausola e che risultino computati dalla banca nel saldo passivo del conto corrente di cui venga chiesto il pagamento).

Dichiarata la nullità della clausola contrattuale che consente la capitalizzazione trimestrale, e posto che il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 cod. civ. osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale, gli interessi a debito del correntista devono infatti essere conteggiati senza operare alcuna capitalizzazione (Cass., Sez. Un., 24418/2010).

Nel caso in esame non si pone invece nessun problema per il periodo successivo alla entrata in vigore della delibera C.I.C.R. (recte: per il periodo successivo a quello di efficacia delle disposizioni transitorie contenute nell’art. 7 della delibera), posto che la banca si è adeguata ai criteri contenuti nella delibera, dandone comunicazione mediante avviso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale: con la conseguenza che, per gli interessi maturati a decorrere dal 1 luglio 2000, deve essere tenuta ferma la loro capitalizzazione in sede di ricalcolo del saldo di conto corrente.

La commissione di massimo scoperto

Prima degli interventi normativi succedutisi tra il 2009 e il 2012, l’espressione “commissione di massimo scoperto” è stata utilizzata nella prassi bancaria per individuare una pluralità di fattispecie che spaziavano dal pagamento di una somma percentuale calcolata sull’affidamento accordato dalla banca e non utilizzato dal cliente (commissione di mancato utilizzo), al pagamento di un corrispettivo alla banca per aver tenuto a disposizione del cliente una certa somma per un certo lasso di tempo (commissione di affidamento), al pagamento di una somma percentuale sull’ammontare massimo del fido utilizzato (commissione di massimo scoperto), fino alla molteplice combinazione di tali modelli, in cui la commissione era calcolata o meno in funzione di una durata minima di utilizzo del fido – anche con riferimento ai c.d. fidi di fatto derivanti da sconfinamenti di conto corrente (c.d. scoperture) – e applicata, in aggiunta agli interessi, sul picco massimo di prelievi effettuati a valere su una determinata apertura di credito ovvero su una somma pari alla media del suo effettivo utilizzo.

Ciò premesso quanto alla mancanza di una nozione unitaria di commissione di massimo scoperto, si osserva che mentre una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto che le clausole che prevedono il pagamento della commissione di massimo scoperto siano nulle per difetto di causa, altra più condivisibile giurisprudenza di merito ha ritenuto che tali clausole possano essere validamente pattuite dalle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale, a condizione che:

a) l’onere aggiuntivo che viene posto a carico del cliente risulti determinato o determinabile (art. 1346 cod. civ.), ciò che accade quando siano noti la misura del tasso applicato, i criteri di calcolo della commissione e la sua periodicità;

b) la pattuizione risponda ai requisiti di forma previsti dall’art. 117, comma 4, TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari.

In assenza di tali requisiti non si può ravvisare l’esistenza di un accordo tra le parti su tale pattuizione accessoria (non potendosi ritenere che il cliente abbia prestato un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e delle sue conseguenze economiche) e l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si tradurrebbe in una imposizione unilaterale della banca priva di base giuridica.

Il ricalcolo delle rispettive partite di dare e di avere in esecuzione del rapporto bancario oggetto del presente giudizio va dunque effettuato tenendo conto dei principi sopra indicati, espungendo dal saldo finale le somme addebitate a titolo di commissione di massimo scoperto in mancanza di prova dell’esistenza di un accordo scritto tra le parti.

La ricostruzione dei rispettivi rapporti di dare e avere tra le parti alla luce dei criteri precedentemente illustrati

Il c.t.u. – dott. Stefano Pizzutelli – ha proceduto alla complessiva ricostruzione dei rispettivi rapporti di dare e avere tra le parti alla luce della documentazione contabile prodotta in giudizio, elaborando una pluralità di conteggi che tengono conto dei quesiti formulati dal giudice.

I conteggi sono stati eseguiti tenendo conto della mancanza di prova dell’esistenza di pattuizioni scritte che regolino le singole condizioni economiche applicate al rapporto bancario (e ciò a prescindere dalle condizioni generali di contratto depositate dalla banca): il che spiega l’infondatezza della doglianza della difesa della banca (che all’udienza del 31 maggio 2016 si è lamentata del fatto che il c.t.u. non abbia tenuto conto del documento allegato alla memoria ex art. 183, sesto comma, n. 2 c.p.c.) in quanto il documento in questione non indica le condizioni economiche che la banca ha applicato nel corso del rapporto (misura del tasso di interesse ultralegale; pattuizione scritta di commissioni di massimo scoperto e spese varie; ecc.).

I conteggi sono stati inoltre eseguiti tenendo conto della indisponibilità degli estratti conto relativi all’intera durata del rapporto (pag. 12 della relazione depositata l’11 aprile 2016).

Tra le varie ipotesi di calcolo che sono state demandate al c.t.u. questo tribunale ritiene di dover procedere alla ricostruzione dei rapporti di dare e avere tra le parti sulla base dei conteggi in cui il consulente ha ricalcolato il saldo di conto corrente:

– eliminando la capitalizzazione degli interessi sul conto n. (…) (trattandosi di un conto chiuso anteriormente al 30 giugno 2000);

– applicando la capitalizzazione degli interessi a decorrere dal 1 luglio 2000 sul conto n. (…);

– applicando i tassi di sostituzione ex art. 117, comma 7, D.Lgs. n. 385 del 1993 (mancando la prova della pattuizione scritta del tasso di interesse ultralegale applicato dalla banca);

– escludendo l’applicazione della commissione di massimo scoperto (mancando la prova della sua pattuizione scritta);

– eliminando le spese e le altre competenze non concordate dalle parti.

Alla luce di tali criteri e dei conteggi eseguiti dal c.t.u. risulta dunque che alla data di estinzione del rapporto bancario e del passaggio del conto corrente in sofferenza (12 novembre 2012) il conto corrente così riliquidato presentasse in realtà un saldo attivo a favore della correntista di 28.027,18 Euro (Tabella B.7 di cui alla relazione depositata l’ 11 aprile 2016).

L’opposizione avverso il decreto ingiuntivo va pertanto accolta, in quanto non vi è prova del fatto che la (…) s.p.a. sia creditrice nei confronti degli odierni opponenti.

All’accoglimento dell’opposizione non segue – come invece vorrebbero gli opponenti – l’automatico accoglimento della domanda riconvenzionale di condanna della banca al pagamento del saldo positivo ricalcolato dal c.t.u.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, nei rapporti bancari regolati in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista ovvero della capitalizzazione di interessi sui conti che risultano debitori, la banca che agisce per il pagamento della somma risultante dal saldo di conto corrente deve dimostrare l’entità del proprio credito mediante la produzione degli estratti del conto corrente a partire dall’apertura del conto stesso (anche se risalente ad oltre un decennio anteriore), al fine di consentire – attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporto di dare e avere – di determinare l’esatto ammontare del credito (Cass. 21597/2013; Cass. 1842/2011, Cass. 23974/2010; Cass. 17679/2009; Cass. 10692/2007).

Quando non sono disponibili tutti gli estratti conto relativi al rapporto in contestazione, si pone il problema di stabilire quale sia il dato numerico di partenza dal quale ricostruire il rapporto dare/avere, se quello risultante dal primo degli estratti conti disponibili oppure il cosiddetto saldo zero.

Applicando i criteri di riparto dell’onere della prova previsti dall’articolo 2697 c.c., occorre distinguere due possibili situazioni.

Quando è la banca ad agire per il pagamento, essa non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione ai sensi degli articoli 2220 cod. civ. e 119, comma 4, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385.

Il fatto che sia previsto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili per un periodo di tempo limitato significa soltanto che la banca non può essere chiamata a rispondere sotto alcun profilo della mancata conservazione di tali scritture per un periodo più ampio, ma non implica anche una condizione di favore rispetto alla pretesa creditoria fatta valere in giudizio, non essendo la banca per ciò solo sollevata dall’onere di dare piena dimostrazione del credito vantato.

Ne deriva che, nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, in quanto tale obbligo non può sollevarla dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo anteriore (Cass. 20688/2013; Cass. n. 1842/2011; Cass. 23974/2010).

Poiché spetta a chi agisce in giudizio dare prova della fondatezza delle proprie ragioni, la ricostruzione dell’andamento del rapporto deve essere effettuata partendo dal saldo del primo estratto conto disponibile, se esso è a credito per il cliente. Nel caso in cui il primo estratto conto disponibile sia a debito per il cliente, occorre invece partire dal saldo zero, non potendo andare in pregiudizio del cliente l’impossibilità – derivante da causa a lui non imputabile – di ricostruire quale sia stato l’andamento reale del conto corrente (Cass. n. 1842/2011; Cass. n. 23974/2010).

Regole diverse si applicano nel caso in cui sia il correntista ad agire con l’azione di accertamento negativo del credito ed eventuale ripetizione dell’indebito. In questi casi, infatti, è onere del correntista fornire la prova dell’estratto conto iniziale (Cass. 9201/2015, in motivazione), mancando il quale la ricostruzione dei rapporti di dare/avere deve essere circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti conto, senza poter muovere da un saldo zero nel caso in cui il primo estratto conto disponibile sia a debito per il cliente (in questo senso v. già Trib. Bari 11 febbraio 2015, n. 591; Trib. Reggio Emilia, 23 aprile 2014, n. 650; App. Milano 6 dicembre 2012; Trib. Nocera Inferiore 29 gennaio 2013, Trib. Bari sez. dist. Monopoli 17 novembre 2011).

Applicando tali principi al caso di specie si osserva che la società opponente non può avvantaggiarsi – ai fini della domanda di ripetizione dell’indebito – del risultato positivo della riliquidazione del saldo del conto corrente eseguita applicando i criteri che regolano l’onere della prova a carico della banca, in quanto il saldo del conto corrente ricalcolato dal c.t.u. non corrisponde ad un credito effettivo che la correntista può vantare nei confronti della banca, ma – non essendo disponibili gli estratti conto integrali dall’inizio alla fine del rapporto – costituisce un mero risultato algebrico ottenuto espungendo in sede di ricalcolo tutti i movimenti di cui la banca non è riuscita a provare l’esistenza.

Occorre pertanto rimettere la causa sul ruolo istruttorio con separata ordinanza, al fine di istruire la domanda di ripetizione dell’indebito proposta dalla società opponente, essendo all’uopo necessario incaricare il c.t.u. di eseguire un nuovo conteggio che tenga conto dei criteri sopra illustrati che regolano l’onere probatorio posto a carico del correntista che agisca per la ripetizione dell’indebito.

P.Q.M.

Il giudice, non definitivamente pronunciando, così provvede:

1) revoca il decreto ingiuntivo n. 383 del 2013 del Tribunale di Frosinone;

2) rigetta le domande spiegate dalla (…) s.p.a. nei confronti degli opponenti;

3) rimette la causa sul ruolo istruttorio con separata ordinanza, al fine di istruire la domanda di ripetizione dell’indebito spiegata da (…) s.n.c. nei confronti della (…) s.p.a.

Così deciso in Frosinone il 5 luglio 2018.

Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.