l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario – ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base alla quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dall’art. 2 L. n. 132 del 1968, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle “lato sensu” alberghiere.

Tribunale Rieti, civile Sentenza 19 ottobre 2018, n. 504

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE di RIETI – SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, in persona del giudice dott. Gianluca Verico e in composizione monocratica, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. 1855 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2015 vertente tra:

(…) e (…), con l’avv. PE.MA., giusta procura in atti

ATTRICI

E

AZIENDA (…), in persona del legale rappresentante p.t., con l’avv. PE.AN., giusta procura in atti

CONVENUTA

OGGETTO: risarcimento danni da responsabilità professionale

CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato (…) e (…), rispettivamente moglie e figlia del deceduto Fi.Gi., convenivano innanzi a questo Tribunale (…), per sentire accogliere le seguenti conclusioni:

“Voglia l’Ill.mo Tribunale Adito, disattesa ogni contraria istanza ed eccezione: – nel merito: riconoscere e dichiarare la responsabilità della convenuta Azienda (…) in persona del legale rappresentante p.t., nella causazione del danno subito a seguito delle omissioni sopra descritte e per l’effetto condannare l'(…) in persona del legale rapp.te p.t al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi, in favore delle attrici, sia come danno patrimoniale, sia come danno morale, quantificabili in Euro 250.000,00, oltre interessi come per legge, o comunque nella misura minore o maggiore che sarà ritenuta di giustizia. – in via subordinata: riconoscere e dichiarare la procurata perdita di chance di sopravvivenza del deceduto Fi.Gi. ed accertata la perdita di chance di sopravvivenza, per l’effetto condannare l'(…) in persona del legale rappresentante p.t. al risarcimento del danno quantificabile in Euro 180.000,00, oltre interessi come per legge o comunque nella misura minore o maggiore che sarà ritenuta di giustizia. In entrambe le ipotesi, con vittoria di spese, diritti e onorari del presente giudizio, oltre IVA e CAP come per legge”.

A fondamento della svolta domanda gli attori esponevano:

– che in data 22 aprile 2010 il Sig. Fi.Gi., a seguito di malore e già attinto da patologie cardiovascolari, si recava presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale De. di Rieti e, nell’occasione, veniva ricoverato presso il reparto di Medicina I con diagnosi di scompenso cardiopolmonare;

– che nonostante la diagnosi di degenza, soltanto in data 28/4/2010 veniva sottoposto ad ecocardiogramma e programmata coronarografia per il 3/5/2010;

– che in data 1 maggio 2010 il Sig. Fi., colto da improvviso arresto cardiaco, veniva trasferito presso il reparto di Rianimazione;

– che nonostante le proprie condizioni lo richiedessero, non veniva trasferito presso il reparto di emodinamica risultando quest’ultimo chiuso il sabato e la domenica nonché nelle ore notturne di tutti i giorni;

– che nelle giornate di sabato 1 e domenica 2 maggio, durante la degenza presso il reparto di Rianimazione, lo stesso subiva n.52 attacchi cardiaci con conseguito intervento chirurgico di angioplastica coronarica effettuato in data 3 maggio 2010 presso il reparto di Emodinamica;

– che mantenuto in coma farmacologico fino al 5 maggio a seguito dell’atto operatorio e tentato il risveglio senza esito di risposta neanche al dolore, il Sig. Fi. decedeva in data 13 maggio 2010 a causa di collasso cardiocircolatorio;

– che, proposta denuncia – querela nei confronti dei sanitari della struttura ospedaliera, sia la prima che la seconda consulenza tecnica d’ufficio concludevano escludendo la responsabilità dei sanitari per carenza del nesso di causalità e, pertanto, in data 30/7/2015 veniva disposta l’archiviazione del procedimento.

Sulla scorta delle suesposte considerazioni, parte attrice concludeva come sopra riportato.

Si costituiva in giudizio (…) che, contestando ogni profilo di responsabilità nonché la sussistenza di un nesso di causalità tra l’evento morte e la condotta dei sanitari, resisteva nel merito alla domanda attrice chiedendone il rigetto.

La causa veniva istruita con produzioni documentali e consulenza tecnica d’ufficio e, all’udienza del 11/6/2018, veniva trattenuta per la decisione con l’assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

1. La domanda è infondata e va, pertanto, rigettata.

Deve in primo luogo rilevarsi che la Suprema Corte ha costantemente configurato la responsabilità della struttura sanitaria come di natura contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (cfr. Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 8 marzo 1979, n. 1716; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. 4 agosto 1988, n. 6707; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939; Cass. 11.4.1995, n. 4152; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336; Cass. 2 dicembre 1998, n. 12233; Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 1 settembre 1999, n. 9198; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; Cass. 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316, in motiv; Cass. 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. 14 luglio 2004, n. 13066; Cass. 23 settembre 2004, n. 19133; Cass. 2 febbraio 2005, n. 2042; Cass. 18 aprile 2005, n. 7997; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 24.5.2006, n. 12362).

Si tratta, in particolare: a) di un contratto atipico, con effetti protettivi nei confronti del terzo, che fa sorgere a carico della casa di cura privata o dell’ente ospedaliero pubblico, accanto ad obblighi lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni (cfr. sostanzialmente in tal senso Cass. SS.UU. 1.7.2002, n. 9556); b) di un contratto a prestazioni corrispettive in quanto fa sorgere anche l’obbligazione di versare il corrispettivo per la prestazione resa dalla struttura sanitaria (pubblica o privata), restando irrilevante che questa obbligazione sia estinta dal paziente, dal suo assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente.

La responsabilità contrattuale di tale struttura nei confronti del paziente può dunque derivare, a norma dell’art. 1218 c.c., sia dall’inadempimento di quelle obbligazioni che sono direttamente a carico dell’ente debitore, sia, a norma dell’art. 1228 c.c., dall’inadempimento della prestazione medico – professionale svolta direttamente dal sanitario, che assume la veste di ausiliario necessario del debitore.

È poi irrilevante stabilire, nella fattispecie che ci occupa, se detta responsabilità sia conseguenza dell’applicazione dell’art. 1228 c.c., per cui il debitore della prestazione che si sia avvalso dell’opera di ausiliari risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi, ovvero del principio di immedesimazione organica, per cui l’operato del personale dipendente di qualsiasi ente pubblico o privato ed inserito nell’organizzazione del servizio determina la responsabilità diretta dell’ente medesimo, essendo attribuibile all’ente stesso l’attività del suo personale (cfr. Cass. Civ. n. 9269/1997 e Cass. Civ. n. 10719/2000).

Infatti, ciò che rileva, in questa sede, è che la struttura sia contrattualmente responsabile se il suo medico versi almeno in colpa, applicandosi il corrispondente regime dell’onere probatorio.

L’affermata natura contrattuale della responsabilità della casa di cura, del resto, non ha mancato di trovare il conforto delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, le quali con la ormai notissima sentenza dell’11 gennaio 2008, n. 577 hanno prestato sostanziale adesione a tale opzione ermeneutica, affermando che, “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria” (cfr. Cass. 25.2.2005, n. 4058).

In definitiva, può ritenersi approdo unanimemente condiviso l’inquadramento della responsabilità della struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporti la conclusione di un contratto.

Peraltro, deve ritenersi sufficiente il fatto che la struttura sanitaria comunque si sia avvalsa dell’opera del medico, non valendo ad escludere la sua responsabilità la circostanza che ad eseguire l’intervento sia un medico di fiducia del paziente, sempre che la scelta cada (anche tacitamente) su un professionista inserito nella struttura sanitaria ovvero che si avvalga di tale struttura, giacché la scelta del paziente risulta in tale ipotesi operata pur sempre nell’ambito di quella più generale ed a monte effettuata dalla struttura sanitaria, come del pari irrilevante è che la scelta venga fatta dalla struttura sanitaria con (anche tacito) consenso del paziente (cfr. Cassazione civile, sez. III, 13/04/2007, n. 8826; Cass. 14 giugno 2007 n. 13953; Cass. n. 9085 del 2006).

A tale stregua, la responsabilità che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo deriva riposa invero sul principio cuius commoda eius et incommoda.

Né in argomento vale distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso del soggetto agente, al fine di considerare interrotto il rapporto in base al quale l’ente è chiamato a rispondere, giacché è al riguardo sufficiente la mera occasionalità necessaria (v. Cass., 17/5/2001, n. 6756; Cass., 15/2/2000, n. 1682).

In conclusione l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario – ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base alla quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dall’art. 2 L. n. 132 del 1968, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle “lato sensu” alberghiere (ex multis Cass. 8826 del 13/04/2007).

Va ritenuto, pertanto, che anche nel caso in esame, concernente un’ipotesi di responsabilità di una struttura sanitaria per il pregiudizio che si assume conseguito a causa di una condotta colposa dei medici della struttura, debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale (cfr. Cass. 19 febbraio 2013 n. 4030).

2. Ciò posto, va ribadito che trattasi di responsabilità professionale contrattuale, per la quale la giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che, ai fini del riparto dell’onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione, mentre deve soltanto allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi sia stato ovvero che, pur esistendo, esso non sia stato eziologicamente rilevante.

In applicazione di tutti i suesposti principi va, dunque, esaminata la domanda attorea tenendo conto che era onere di parte attrice dimostrare l’esistenza del contratto con la struttura sanitaria ed allegare l’inadempimento (o comunque l’inesatto adempimento) delle prestazioni medico professionali rese nei confronti del defunto Fi.Gi. da parte dei convenuti, restando, invece, a carico di questi ultimi la prova che le medesime prestazioni erano state eseguite in modo diligente e che il decesso del paziente era stato determinato da un evento imprevisto, imprevedibile ovvero inevitabile.

Orbene, incontestata tra le parti la sussistenza di un contratto atipico di spedalità tra la parte convenuta e il Fi.Gi. concluso in data 22/4/2018, occorre a questo punto accertare, innanzitutto, la sussistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento di danno verificatosi e, quindi, valutare se quella condotta causalmente rilevante abbia avuto o meno natura colposa o dolosa.

In altri termini, solo dopo aver riscontrato l’esistenza di un nesso eziologico si rende necessario valutare il profilo soggettivo della sussistenza di una condotta colposa o dolosa in capo al convenuto.

E’ necessario preliminarmente, dunque, secondo i principi generali di cui all’art. 2697 cod. civ., che il paziente dimostri il nesso di causalità tra l’evento lesivo della sua salute e la condotta del medico, dovendosi dimostrare che il peggioramento delle condizioni di salute sia connesso causalmente al comportamento del medico. Sul punto, infatti, si è affermato che “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, secondo l’orientamento consolidatosi in sede di legittimità, compete al paziente che si assuma danneggiato dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno del quale chiede il risarcimento. Ne consegue che se al termine dell’istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata” (Cassazione civile, sez. III, 19/07/2018, n. 19204).

Ebbene, è appena il caso di ricordare che in tema di responsabilità civile il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.

Invero, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità civile, per l’accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica. Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne risulti conseguenza “altamente probabile e verosimile”, secondo la regola del “più probabile che non” o della “preponderanza dell’evidenza”, da ritenersi criterio di giudizio non sovrapponibile a quello penalistico dell'”oltre ogni ragionevole dubbio” (cfr. sul punto Cass. 26 giugno 2007, n. 14759 e Cass. 11 maggio 2009, n. 10745).

Ne deriva che, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso (Cass. civ. n. 16123/2010).

Risulta, dunque, necessario accertare che il comportamento diligente e perito del sanitario avrebbe avuto la probabilità di prevenire o elidere le conseguenze dannose concretamente verificatesi. Probabilità, ovviamente, non meramente statistica, ma di natura logico – razionale.

In definitiva, deve ritenersi sussistente un valido nesso causale tra la condotta colposa del sanitario e l’evento lesivo, allorché, se fosse stata tenuta la condotta diligente, prudente e perita, l’evento dannoso non si sarebbe verificato: giudizio da compiere non sulla base di calcoli statistici o probabilistici, ma unicamente sulla base di un giudizio di ragionevole verosimiglianza, che va compiuto alla stregua degli elementi di conferma (tra cui soprattutto l’esclusione di altri possibili e alternativi processi causali) disponibili in relazione al caso concreto.

Peraltro, si è di recente affermato che per il paziente/danneggiato, l’onere probatorio in ordine alla ricorrenza del nesso di causalità materiale – quando l’impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema che egli presentava – si sostanzia nella prova che l’esecuzione della prestazione si sia inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali costituiti dall’insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente (così Cass. civ. n. 20904/2013).

3. Nel caso di specie, all’esito dell’istruttoria espletata il Tribunale ritiene che parte attrice non abbia assolto al proprio onere di dimostrare la ricorrenza del nesso di causalità.

Invero, gli attori lamentano un ritardo negli accertamenti diagnostici e terapeutici, segnatamente la mancata tempestività nell’esecuzione della coronarografia che, ove effettuata tempestivamente, avrebbe a dire degli esponenti determinato un differente esito della vicenda clinica in oggetto.

Più in particolare, parte attrice sostiene che l’arresto cardiaco si verificava il sabato 1/5/2018, mentre l’intervento chirurgico veniva effettuato solo il 3/5/2018, stante la chiusura del reparto di emodinamica nei giorni pre – festivi e festivi, nonché la notte di ogni giorno della settimana, il cui funzionamento parziale peraltro non veniva comunicato con immediatezza ai familiari, così impedendogli di operare scelte alternative quali il trasferimento in altra struttura.

In questo contesto, va evidenziato che dalla lettura della CTU e della successiva nota integrativa emerge innanzitutto che il Fi.Gi., già al momento del ricovero presso la struttura ospedaliera, versava in una situazione critica, essendo affetto da patologie di natura cardiovascolare sin dal 2002, come dichiarato dalla stessa parte attrice, il cui quadro generale era composto da “cardiopatia ischemica e ridotta cinesi globale, malattia dei tre vasi coronarici, PTCA + stent su cx nel 2003, diabete mellito”.

Afferma il c.t.u. che il Fi. presentava, al momento del ricovero, “uno scompenso cardiopolmonare in soggetto con recente episodio di dolore toracico ed affetto da diabete mellito, ipertensione arteriosa con pregresso trattamento con apposizione di stent di malattia aterosclerotica coronarica”.

In merito, invece, all’intervento di coronarografia eseguito, a detta di parte attrice, tardivamente, il ctu ha qualificato l’episodio di scompenso acuto con fibrillazione ventricolare come imprevedibile, in quanto “inseritosi in una situazione clinica che appariva da circa dieci giorni di assoluta stabilità dal punto di vista clinico e che ebbe ad insorgere in maniera del tutto inattesa in data 01/05/ 2010 determinando una sofferenza ipossica cerebrale che infine condusse a morte il paziente”.

Inoltre, si ritiene che anche un’auspicata anticipazione dell’esame coronarografico a seguito degli arresti cardiaci occorsi al Sig. Fi. non avrebbe comunque potuto mutare o incidere in senso favorevole sulla sopravvivenza del paziente. Ha evidenziato, infatti, il ctu che “seppure con criterio ex post potrebbe essere definita come condotta poco brillante aver programmato la coronarografia solo per il 3 maggio 2010, essa comunque non avrebbe a mio parere modificato in modo sostanziale l’iter clinico fino all’exitus visto il grave substrato delle arterie coronarie del paziente dovendosi ribadire che non vi erano segni e/o sintomi che dovessero decisamente indicare l’esecuzione dell’esame coronarografico prima della data in cui lo stesso venne effettivamente programmato”.

Il c.t.u. ha concluso, pertanto, affermando che “sulla base degli elementi clinici a disposizione non sono individuabili comportamenti alternativi esigibili da parte dei sanitari che ebbero in cura il paziente”.

Peraltro, alla medesima conclusione giungeva anche il consulente del P.M., dott. Patrizio Rossi, nel precedente procedimento penale conclusosi con l’archiviazione, il quale concludeva per l’assenza di profili di responsabilità dei sanitari “sia perché sotto il profilo scientifico non vi sono elementi concreti per valutare gli effetti di un più precoce trattamento e per dire, con un giudizio di elevata probabilità, che se fosse stata eseguita immediatamente la coronarografia il paziente si sarebbe salvato o avrebbe avuto maggiori/significative possibilità di sopravvivenza, sia perché l’evento finale che ha portato al decesso (occlusione di stent) appare un fatale recidiva autonoma ed indipendente dalle procedure precedenti”.

Ed ancora, tali conclusioni veniva confermate anche dalla seconda consulenza del P.M., dott. Le.Gr., il quale affermava che “dall’esame della documentazione sanitaria agli atti non sono stati riscontrati errori diagnostici o terapeutici né ritardi che siano in nesso causale con il decesso del Fi.”.

In definitiva, all’esito dell’istruttoria espletata e della c.t.u. – le cui risultanze, siccome frutto di valutazioni logiche, coerenti ed esenti da profili di censura sotto l’aspetto motivazionale, vengono interamente fatte proprie da questo Tribunale – si ritiene che la condotta alternativa asseritamente doverosa, ovvero l’anticipazione del trattamento di coronarografia, non avrebbe comunque assunto alcuna rilevanza causale.

Sulla base delle considerazioni svolte, pertanto, si deve escludere, alla luce del criterio del “più probabile che non”, che l’evento morte sia eziologicamente riconducibile alla condotta di parte convenuta.

4. Quanto, invece, alla domanda risarcitoria del danno da perdita di chance, va innanzitutto osservato che il diritto del malato alle proprie chance è diritto intermedio ed autonomo, mediano tra quello alla vita e quello alla salute, intendendosi l’aspettativa della guarigione da parte del paziente come “bene” differente ed autonomo rispetto alla salute stessa (Cass. Civ. n. 21254/2012).

Orbene, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la perdita di chance di vita, come diritto soggettivo avente una propria autonomia ontologica, “sussiste ogniqualvolta sia possibile affermare, sulla base di indagini statistiche e studi di settore su base epidemiologica, che vi fosse al momento dell’illecito una possibilità di maggiore sopravvivenza, indipendentemente dalla percentuale di probabilità che in concreto il risultato potesse essere conseguito, atteso che quest’ultimo elemento va ad incidere esclusivamente sul quantum risarcitorio e non già sull’an” (cfr. sul punto Cass. 27 marzo 2014, n. 7195; Cass. 27 novembre 2012, n. 20996; Cass. 18 settembre 2008, n. 23846).

Si è ulteriormente precisato, peraltro, che in caso di perdita di una “chance” a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al “risultato perduto”, ma andrà commisurato, in via equitativa, alla “possibilità perduta” di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa).

Tuttavia, “tale possibilità”, per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico – percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto” (Cassazione civile, sez. III, 09/03/2018, n. 5641).

In altri termini, ai fini della risarcibilità del danno da perita di chance di guarigione rivendicato dagli eredi di un paziente deceduto, deve potersi affermare che la predetta chance di guarigione (perduta) sia effettiva e concreta (e, quindi, tale da potersi dire già concretamente e seriamente posseduta dal danneggiato), così da rappresentarsi come una entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e non una mera aspettativa di fatto.

In questo contesto, deve ritenersi di sicuro rilievo la precisazione del c.t.u., che sul punto ha affermato testualmente che “appare pertanto del tutto irrilevante, dal punto di vista causale, il fatto che la coronarografia e della PTCA siano state eseguite il 3 maggio anziché in data 1 maggio 2010 ovverosia immediatamente dopo il verificarsi dell’arresto cardiaco stesso. Detto arresto cardiaco ebbe a determinare una encefalopatia anossica responsabile dello stato comatoso, del peggioramento della condizione del soggetto ed in ultima analisi della morte dello stesso. Pertanto l’anticipazione al 01.05.2010 della esecuzione di detto esame non avrebbe determinato alcuna modificazione della vicenda clinica stante che fu l’arresto stesso a determinare la patologia grave da cui era affetto il soggetto”.

Dalle conclusioni del c.t.u. si deve ritenere che la mancata anticipazione dell’intervento non abbia determinato neanche la lesione della chance di guarigione, con la conseguenza che la possibilità di guarigione asseritamente lesa debba qualificarsi, al più, come mera aspettativa di fatto e, come tale, non meritevole di tutela risarcitoria.

Ne consegue che anche la domanda subordinata di risarcimento del danno da perdita di chance deve essere rigettata.

5.Le spese di lite seguono la soccombenza e sono poste a carico di parte attrice nella misura liquidata in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

Le spese della CTU devono essere poste definitivamente a carico di parte attrice.

P.Q.M.

Il Tribunale di Rieti in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda in epigrafe, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattese, così provvede:

– rigetta le domande proposte da (…) e (…);

– condanna (…) e (…), in solido tra loro, alla rifusione delle spese di giudizio in favore di AZIENDA (…), in persona del legale rappresentante p.t., che liquida in complessivi Euro7.795,00 per compenso professionale, oltre al rimborso forfetario di spese generali e accessori come per legge;

– pone definitivamente a carico di (…) e (…), in solido tra loro, le spese di CTU.

Così deciso in Rieti il 18 ottobre 2018.

Depositata in Cancelleria il 19 ottobre 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.