in ipotesi di danno conseguente ad esercizio di una prestazione sanitaria, la struttura risponde: 1) a titolo di responsabilità contrattuale, per fatto proprio ex art. 1218 c.c., laddove vengano inadempiute obbligazioni connesse al contratti di spedalità e direttamente a carico dell’ente debitore (sicurezza delle attrezzature e degli ambienti, custodia dei pazienti, etc.); 2) per fatto dei dipendenti ovvero degli ausiliari, ex art. 1228 c.c., con riferimento all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta dal sanitario, a titolo di responsabilità contrattuale e solidale; 3) a titolo di responsabilità extracontrattuale, laddove, in conseguenza dei propri deficit organizzativi, sia conseguito al paziente un danno alla salute, autonomamente valutabile ex artt. 2059 c.c. e 32 Cost quale violazione generale del principio del neminem ledere; 4) a titolo di responsabilità precontrattuale laddove, durante le trattative e prima dell’accettazione, non abbia informato il paziente dello stato di efficienza delle proprie strumentazioni e dotazioni strutturali.

Tribunale|Benevento|Sezione 2|Civile|Sentenza|31 gennaio 2020| n. 247

Data udienza 29 gennaio 2020

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Benevento, seconda sezione civile, in persona del G.M., Dr. Gerardo Giuliano, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 1305/2014 R.G.A.C., avente ad oggetto risarcimento danni da responsabilità medica, pendente

TRA

Ro.Iz., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Re.Mi. e Gi.Ce.;

Attrice

CONTRO

Azienda Ospedaliera San Pio di Benevento (già “(…)”), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Vi.De.;

Convenuta

NONCHÉ

Ga.Fa., rappresentato e difeso dall’Avv. Vi.De.;

Convenuto

E

Ri.Ma., rappresentato e difeso dall’Avv. La.Ca. e Lu.Di.;

Convenuto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Questioni preliminari

Preliminarmente, si precisa che lo scrivente Magistrato è subentrato nella trattazione del presente procedimento all’udienza del 18.05.2016 (celebrata dal g.o.p. dott.ssa Cl.Li.).

Ancora in via preliminare, si osserva che Ga.Fa. non ha ritualmente chiamato in causa la In. (Eu.) Assicurazione S.p.A., in quanto non ha formalizzato alcuna istanza di differimento dell’udienza di prima comparizione in sede di comparsa di costituzione e risposta, per cui è decaduta dalla relativa facoltà.

Ed invero, l’istanza di differimento dell’udienza di prima comparizione è necessaria ai fini della chiamata in causa di un terzo e la relativa omissione comporta la decadenza della parte alla chiamata, come desumibile dal disposto di cui all’art. 269, co.2, c.p.c.: d’altronde, sul punto la stessa giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “in base al disposto dell’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., il convenuto che intenda chiamare in giudizio un terzo ha l’onere di inserire nella comparsa di risposta sia la formulazione della chiamata che l’istanza di spostamento della prima udienza, sicché incorre nella decadenza prevista dalla medesima di disposizione anche quando provveda solo al primo di tali adempimenti, ma non al secondo” (Cassazione civile sez. VI, 07/05/2013, n. 10579, e, in senso conforme, cfr. Cassazione civile sez. I, 14/10/2014, n. 21644).

Parimenti inammissibile è la chiamata in causa di In. S.p.A. (ora Ge. S.p.A.) avanzata da Ri.Ma. in sede di comparsa di costituzione e risposta a seguito di riassunzione del processo.

Ed invero, posto che l’evento interruttivo si è verificato dopo la prima udienza di comparizione del 16.07.2014, non può non osservarsi che nell’ambito della “prima” comparsa di costituzione e risposta depositata dal Ma. non è stata avanzata alcuna chiamata in causa del terzo, in quanto detta istanza risulta espressamente cancellata (con apposizione anche di sigla in corrispondenza delle interlineature).

Né può ritenersi tempestiva l’istanza avanzata in sede di comparsa di costituzione e risposta a seguito di riassunzione, in quanto – posto che la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa (cfr. inter alia, Cassazione civile sez. II, 19/08/2019, n. 21480)-n.21480) – al momento del deposito di tale “seconda” comparsa era già ampiamente spirato il termine entro il quale l’istanza in esame avrebbe potuto essere avanzata, per cui la parte era già decaduta dalla relativa facoltà.

A ciò si aggiunga che, in ogni caso, in sede di comparsa conclusionale, alcuna domanda di manleva è stata reiterata nei confronti di In. S.p.A. (ora Ge. S.p.A.), né risulta essere stato sollevata alcuna eccezione, doglianza o riserva di impugnativa in ordine alla mancata chiamata in causa di tale ultima società, per cui, dalla valutazione della condotta complessiva della parte deve presumersi una sua volontà inequivoca di non insistere sulla domanda pretermessa (cfr., sul punto, Cassazione civile sez. I, 03/12/2019, n. 31571).

Quanto, infine, all’applicabilità al presente giudizio del d.l. 13.9.2012, n. 158, convertito in legge 8.11.2012, n. 189 (cd. “legge Balduzzi”) e della L. 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge “Gelli” – Bianco”) per fatti verificatisi prima della loro entrata in vigore, si osserva che recentemente sono intervenute due sentenze gemelle della Suprema Corte (Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28990 e Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28994) che, con condivisibile percorso argomentativo a cui questo Giudice intende conformarsi, hanno delineato la portata di tali provvedimenti.

In particolare 1) Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28990 ha, inter alia, chiarito che “non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze-dannose già realizzatisi), l’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 settembre 2012 n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012 n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l’applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità – contrattuale od extracontrattuale per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD – criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva legge 8.3.2017 n. 24 cd. Gelli – Bianco), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum”.

Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge; né può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario.

Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, né ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie”; 2) Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28994, ha, poi, ulteriormente chiarito – peraltro conformandosi ai principi espressi da Tribunale Avellino, sez. II, 12/10/2017, n. 1806; Trib. Roma, sez. XIII, 4/10/2017, n. 18685, e anche da questo Giudice con sentenza n. 2124/2017 del 23.11.2017 – che “in tema di responsabilità sanitaria, le norme poste dagli artt. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, convertito dalla legge n. 189 del 2012, e dall’art. 7, comma 3, della legge n. 24 del 2017, non hanno efficacia retroattiva e non sono applicabili ai fatti verificatisi anteriormente alla loro entrata in vigore”, secondo quanto previsto dell’art. 11 disp. prel. c.c..

In altri termini – e riassumendo quanto sin qui argomentato – le norme sostanziali contenute nella legge n. 189 del 2012, al pari di quelle di cui alla legge n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva e non possono applicarsi ai fatti avventi in epoca precedente alla loro entrata in vigore, a differenza di quelle che, richiamando gli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private in punto di liquidazione del danno, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul quantum.

1.1 Sulla responsabilità della struttura sanitaria e del medico

Con riferimento alla qualificazione giuridica della responsabilità dell’ospedale e dei sanitari in base alla normativa applicabile al caso di specie secondo quanto precisato al punto “1.” della sentenza, si osserva che l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sviluppatasi con riferimento al tema della responsabilità medica conseguente alla negligente esecuzione di un intervento chirurgico ovvero di attività diagnostica e terapeutica in una struttura lato sensu ospedaliera (tale da ricomprendere nella nozione, pertanto, anche i presidii privati) ha portato, nel corso dell’ultimo decenni del secolo scorso, alla stesura della nota sentenza 22.1.1999, n. 589, confermata dal successivo intervento reso a Sezioni Unite nel corso del 2002 (cfr. Cass. 1.7.2002, n. 9556 nonché, più recentemente, Cass. 19.4.2006 n. 9085 e Cass. S.U., 11.1.008 n. 578) che ha chiarito la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria.

In particolare, si è ivi affermato che la responsabilità derivante per le prestazioni sanitarie rese nell’ambito di strutture lato sensu ospedaliere è di tipo contrattuale per inadempimento delle obbligazioni che la stessa struttura assume, direttamente nei confronti del paziente, di prestare la propria organizzazione aziendale per l’esecuzione dell’interventi richiesto: ed infatti, all’adempimento dell’obbligazione predetta è collegata la remunerazione della prestazione promessa, in essa incluso anche il costo inteso come rischio dell’esercizio dell’attività di impresa. In particolare, si è in presenza di un contratto atipico a prestazioni corrispettive (c.d. contratto di spedalità), che si conclude con all’atto dell’accettazione del paziente presso la struttura, e da cui, a fronte dell’obbligazione di pagamento del corrispettivo (da parte del paziente, dell’assicuratore ovvero del S.S.N.) insorgono, a carico della struttura sanitaria, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico, nonché di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni ovvero emergenze (cfr. anche Cass. 15.6.2007, n. 13593; Cass. 26.1.2006, n. 1698; Cass. 8.1.1999 n. 103).

Peraltro, così ricostruita la fattispecie, la struttura sanitaria certamente risponde, in via contrattuale, non solo delle obbligazioni direttamente poste a proprio carico, ma anche, in via contrattuale e solidale, dell’opera svolta dai propri dipendenti ovvero ausiliari (personale medico e paramedico), secondo lo schema proprio dell’art. 1228 c.c. (Cass. Civ., Sez. III, 28/8/2009, n. 18805; Cass. Civ., Sez. III, 31/03/2015, n. 6436)

A tale proposito, peraltro, la Suprema Corte, con la sentenza 8.1.1999 n. 102 (e, in senso conforme, cfr. Cass. 22.3.2007 n. 6945) applicando in ambito sanitario principi già costantemente esposti nell’ordinario ambito contrattuale, ha ulteriormente chiarito che rispetto al detto inquadramento dogmatico non rileva la circostanza per cui il medico che ha eseguito l’intervento chirurgico (a cui può essere parificato il medico che, più in generale, ha reso la prestazione sanitaria) sia o meno inquadrato nell’organizzazione aziendale della struttura sanitaria, né che lo stesso sia stato scelto dal paziente ovvero sia di sua fiducia (cfr. Cass. 14.6.2007 n. 13593; Cass. 26.1.2006 n. 1698), posto che la prestazione del medico è comunque indispensabile alla struttura sanitaria per adempiere l’obbligazione assunta con il paziente e che, ai fini qualificatori predetti è sufficiente la sussistenza di un nesso di causalità tra l’opera del suddetto ausiliario e l’obbligo del debitore (cfr. anche Cass. 819/1970; Cass. 5150/1995).

A quanto precede, infine, aggiungasi che:

a) applicando il principio del concorso o cumulo della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (pacificamente ammesso nel nostro ordinamento, cfr., ex plurimis, Cass. 1855/1989; Cass. 6064//1994; Cass. 9750/1997), la struttura può anche essere chiamata a ristorare il danno extracontrattuale subito dal paziente e connesso al proprio deficit organizzativo. Posto, infatti, che il ristoro di tale specifica voce di danno è connessa alla violazione del diritto alla salute, di spettanza esclusiva del paziente, costituzionalmente sancito e protetto dall’art. 32 Cost., riflesso del principio del neminem ledere a prescindere dalla eventuale sussistenza di un contratto, va da sé che il “fatto storico” della inadeguata organizzazione di dei servizi necessari per la corretta esecuzione delle obbligazioni connesse al contratto di spedalità, oltre ad impedire la corretta esecuzione delle obbligazioni dedotte in contratto è idoneo, di per sé, a menomare la sfera giuridico – personale del paziente e ad integrare una autonoma voce di danno (cfr. Trib. Brescia 28.12.2004);

b) può ravvisarsi finanche una responsabilità precontrattuale della struttura, ex art. 1337 c.c., la quale, durante le trattative e prima dell’accettazione, non abbia informato il paziente dello stato di efficienza delle proprie strumentazioni e dotazioni strutturali (arg. da Cass. 30.7.2004, n. 14638), certamente rilevando, al fine di valutare il comportamento della struttura il rispetto delle regole imposte dalla legislazioni nazionale e regionale in tema di requisiti tecnologici, qualitativi e dimensionali per l’esercizio della professione sanitaria e per l’esecuzione di determinate prestazioni.

Ricapitolando, dunque, in ipotesi di danno conseguente ad esercizio di una prestazione sanitaria, la struttura risponde:

1) a titolo di responsabilità contrattuale, per fatto proprio ex art. 1218 c.c., laddove vengano inadempiute obbligazioni connesse al contratti di spedalità e direttamente a carico dell’ente debitore (sicurezza delle attrezzature e degli ambienti, custodia dei pazienti, etc.);

2) per fatto dei dipendenti ovvero degli ausiliari, ex art. 1228 c.c., con riferimento all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta dal sanitario, a titolo di responsabilità contrattuale e solidale;

3) a titolo di responsabilità extracontrattuale, laddove, in conseguenza dei propri deficit organizzativi, sia conseguito al paziente un danno alla salute, autonomamente valutabile ex artt. 2059 c.c. e 32 Cost quale violazione generale del principio del neminem ledere;

4) a titolo di responsabilità precontrattuale laddove, durante le trattative e prima dell’accettazione, non abbia informato il paziente dello stato di efficienza delle proprie strumentazioni e dotazioni strutturali.

Parimenti contrattuale, sulla base della disciplina applicabile al caso di specie, è la responsabilità del medico, anche qualora si sia trattato di contatto sociale fortuito e sinanco informale, come precisato da Cassazione civile sez. III, 03/10/2016, n. 19670, secondo la quale “in tema di attività medico-chirurgica, anche il “contatto sociale” meramente fortuito ed informale, intercorso tra medico e paziente, è idoneo a far scattare i presidi della responsabilità contrattuale”.

Quanto, invece, al consenso informato, si aderisce all’orientamento in virtù del quale per ravvisare la violazione del diritto all’autodeterminazione per l’assenza di un valido consenso informato del paziente è necessario che il ricorrente alleghi e provi l’esistenza e l’entità di un danno specificamente riferibile alla carenza di consenso informato, collocandosi il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione su due piani distinti con conseguente possibilità di riconoscere la lesione dell’uno senza che vi sia necessariamente anche la lesione dell’altro (cfr., ex pluribus, Cass. 12205/2015, Cass. 2854/2015, Cass. 12830/2014, Cass. 2847/2010, Cass. 10741/2009; Corte appello Milano, sez. I, 07/03/2016, n. 894).

1.2. Sul riparto dell’onere della prova e sul nesso di causalità

Posta, dunque, la natura contrattuale dei rapporti dedotti in giudizio, il relativo riparto dell’onere della prova va delineato sulla base di quanto ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità a seguito della nota sentenza a Sezioni Unite 30.10.2001, n. 13533: in particolare, con tre sentenze pressoché coeve (cfr. Cass. 19.5.2004, n. 9471; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 21.6.2004, n. 11488), la Cassazione ha chiarito che il paziente il quale agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto ed allegare l’inadempimento del medico, restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento.

Ne discende che la distinzione di interventi di facile esecuzione e prestazioni implicanti la risoluzione di problemi tecnici di particolare complessità non rileva più quale criterio di riparto dell’onere della prova, ma deve essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando in ogni caso a carico del sanitario l’onere di provare che la prestazione era di particolare difficoltà.

In sintesi – e riassumendo quanto sin qui argomentato -:

1) il paziente deve provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica ovvero l’insorgenza di nuove malattie, senza l’onere di provare specifici e peculiari aspetti di responsabilità professionale;

2) il medico (ovvero l’ente ospedaliero o la struttura sanitaria, cfr. art. 1228 c.c.) deve provare che la prestazione fu eseguita in maniera diligente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (cfr. anche Cass. 18.4.2005, n. 7997; Cass. S.U., 11.1.2008, n. 577; Cass 24.10.2013 n. 24109; Cass. 31.7.2013, n. 18341).

Quanto, invece, al nesso di causalità tra condotta (del medico ovvero della struttura sanitaria) ed evento (danno riportato all’esito dell’operazione ovvero del trattamento sanitario), la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che nel campo dell’illecito civile, deve farsi ricorso ad un diverso giudizio qualificatorio del nesso eziologico, ravvisandone gli estremi nella regola del “più probabile che non ” (cfr., per il primo intervento in tal senso, Cass. 16.10.2007, n. 21619; nonché, in senso conforme, Cass. Sez. Un. 11.1.2008, n. 578 e Cass. civ. n. 15857/2015, secondo la quale “/”; tema di responsabilità civile, l’accertamento della sussistenza del nesso causale tra il fatto dannoso e le conseguenze pregiudizievoli riportate dal danneggiato è soggetto a una differente regola probatoria rispetto al giudizio penale, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non, mentre nel processo penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio (…)”).

2. Sui fatti sottesi alla domanda risarcitoria

Passando, quindi, alla delibazione dei fatti sottesi alla domanda risarcitoria avanzata dagli attori, la stessa è fondata per le ragioni e nei limiti di seguito esposti.

Infatti, dalla documentazione medica versata in atti dall’attrice (cfr., in particolare, copia documenti allegati sub 3, 4 e 5 alla citazione), nonché dagli esiti della C.T.U. redatta dal dott. Gi.Va. – cui nel complesso si rinvia, siccome redatta con rigore scientifico, in conformità ai quesiti posti dal precedente Giudicante e logica nelle conclusioni-, è emerso che:

1) Ro.Iz. in data 30 ottobre 2010, a seguito di una caduta accidentale, ha riportato un trauma al polso sinistro e, pertanto si è recata in pari data al P.S. dell’Ospedale “(…)” di Benevento dove, a seguito di esami strumentali, è stata evidenziata la “frattura pluriframmentaria dell’epifisi distale radio”, in virtù della quale le è stata applicata una doccia gessata e poi dimessa, avendo rifiutato il ricovero;

2) in data 2 Novembre 2010 è tornata in Ospedale per le cure previste, essendo stato programmato un intervento di riduzione della frattura, ma, nonostante si fosse sottoposta ad un ECG, ma non è stato eseguito alcun intervento perché non ritenuto più necessario;

3) ha indossato un gesso brachio metacarpale per 30 giorni circa, con la relativa rimozione avvenuta il 25 novembre 2010;

4) successivamente ha indossato un tutore a carico del polso ed ha praticato FKT dal 10 al 21 Dicembre 2010, a seguito dalla quale ha gradualmente recuperato le proprie attività, seppur lamentando un deficit di funzionalità del polso ed inestetismi in ragione dei quali ha agito in giudizio nei confronti della struttura ospedaliera e nei confronti del medico di Pronto Soccorso – dott. Ma. – e del medico ortopedico che ha ritenuto non necessaria l’operazione chirurgica – dott. Fa. -.

Ebbene, al riguardo, si osserva, innanzitutto, che l’accesso del 02.11.2010, per quanto non documentalmente provato, si ritiene avvenuto in quanto riconosciuto dallo stesso dott. FA. nella propria comparsa di costituzione e risposta, in cui si legge che “(…) in data 02.11.2010, il Dott. Ga.Fa., dopo che alla paziente le era stata praticata una radiografia al polso (…) alla luce di questa indagine Ex del polso, dopo riduzione, ha ritenuto pronunciarsi per un’indicazione al trattamento incruento più che giustificato e giustificabile rispetto al caso di specie (…)” (cfr. pag. 5 della comparsa di costituzione e risposta), circostanza peraltro ribadita in sede di comparsa conclusionale, nella parte in cui si legge che “(…) L’unico apporto del sanitario all’iter clinico riguardante l’attrice si rinviene allorquando, in data 02.11.2010, gli veniva sottoposta, in qualità di direttore dell’U.O.C. di Ortopedia e Traumatologia, la radiografia della Sig.ra Iz. al fine di valutare l’opportunità di intervenire chirurgicamente (…)” (cfr. pag. 6 comparsa conclusionale).

In altri termini, per stessa ammissione di uno dei medici convenuti in giudizio, in data 02.11.2010 l’attrice ha effettuato un altro accesso nella struttura ospedaliera convenuta, motivo per il quale, evidentemente, la radiografia della Iz. è stata sottoposta all’attenzione ed alla valutazione del dott. Fa. -.

Alla luce delle descritte osservazioni, il C.T.U. ha osservato, in modo argomentato e documentato – e, dunque, con valutazioni condivisibili e non censurabili – che

1) “(…) la sig.ra Iz. ebbe a presentare nell’Ottobre 2010 una frattura pluriframmentaria dell’epifisi distale del radio sinistro; tale frattura, come può evincersi dalle riproduzioni degli esami radiografici presenti in cartella, era caratterizzata dalla radializzazione e dalla dorsalizzazione del frammento distale delle frattura ed essendo, altresì, interessata la superficie articolare, avrebbe meritato una adeguata riduzione dei frammenti ed una loro eventuale stabilizzazione con mezzi di sintesi. Se, infatti, una tale frattura consolida senza che sia stata ripristinata la normale inclinazione della superficie articolare del radio, sia nel piano frontale, sia soprattutto nel piano sagittale (10), residuerà non solo un disturbo estetico della morfologia del polso ma anche un deficit funzionale, per riduzione della flessione della mano (Ma.A., Mo.C., Clinica ortopedica, Pi. ed., II Ed.) (…)” (cfr. pag. 9 della consulenza, considerazioni poi ribadite anche in sede di chiarimenti);

2): la terapia conservativa prescelta – apparecchio gessato senza il ricorso ad intervento chirurgico – ha comportato il mancato ripristino della normale inclinazione della superficie articolare del radio, che ha causato i maggiori postumi presentati dalla Iz. rispetto a quelli che avrebbe riportato qualora si fosse intervenuti chirurgicamente.;

3) il mancato ripristino dei normali rapporti articolari mediante terapia chirurgica ha comportato, secondo il criterio del “più probabile che non” il momento causale dei deficit morfologici e funzionali del polso lamenta dalla paziente ed effettivamente riscontrati dal consulente;

4) “(…) allo stato, l’obiettività esperita ha fatto rilevare una non perfetta ripresa anatomofunzionale delle strutture osteo legamentose del polso sinistro, che appare leggermente deformato in valgo con deformità “dorso di forchetta” e con modica riduzione dell’articolarità (…)”.

Né, in senso contrario a quanto appena osservato, depone la circostanza che ad esito del primo accesso in pronto soccorso del 30.10.2010 (gestito dal dott. Ma.) l’attrice abbia rifiutato il ricovero in ambiente ortopedico nonostante lo stesso fosse stato consigliato (cfr. (…) di primo accesso allegato alla citazione e sopra già citato), in quanto i convenuti – sui quali incombeva il relativo onere probatorio – non hanno documentalmente dimostrato che detto rifiuto sia stato prestato “consapevolmente”, e, cioè, a seguito di una esaustiva e comprensibile – avuto riguardo, cioè, al grado di istruzione della paziente – esposizione delle opzioni terapeutiche possibili in relazione al caso di specie, e le presumibili conseguenze derivanti dalla scelta dell’una o dell’altra opzione.

Parimenti, viene in rilievo anche il parere del dott. Fa. del 02.11.2010 che, dopo aver esaminato la radiografia, ha ritenuto di consigliare di non procedere ad alcun intervento chirurgico, in quanto, per un verso, anche in tale circostanza non risulta dedotto e documentato che tale decisione sia stata poi esaustivamente illustrata alla paziente in ordine ai presumibili esiti di terapia conservativa; e, per altro verso, è stata proprio aspetto – id est, il mancato intervento chirurgico – ad aver determinato il maggior danno patito dall’attrice all’esito della cura.

Alla luce delle esposte considerazioni, dunque, si ritiene esaustivamente provato il nesso causale tra la condotta dei sanitari convenuti in relazione alla non corretta gestione del caso clinico in esame ed il danno patito dall’attrice avente ad oggetto la non perfetta ripresa anatomofunzionale delle strutture osteo-legamentose del polso sinistro, avendo il consulente ha chiaramente evidenziato (cfr. supra):

1) il comportamento tenuto dai medici nel trattamento sanitario praticato, avendone indicato le relative modalità nel senso appena descritto;

2) quale sarebbe stata la terapia opportuna (trattamento chirurgico);

3) le condotte omissive e commissive tenute dai sanitari – colpose e contrarie alle leges artis – relative alla scelta terapeutica adottata e non esaustivamente illustrata alla paziente;

4) l’accertamento, in conformità al criterio del “più probabile che non”, del nesso eziologico tra le condotte descritte e l’evento finale.

In conclusione, la gestione complessiva del caso, sia sotto il profilo terapeutico, sia sotto il profilo delle decisioni relative al ricovero della paziente, hanno determinato, secondo il giudizio probabilistico sopra descritto, il verificarsi del danno lamentato dalla Iz..

Va, poi precisato che, non essendo stata avanzata alcuna domanda di regresso, non si è proceduto alla graduazione “interna” delle singole responsabilità dei medici in relazione ai fatti per cui è causa.

Alcun danno, invece, si ritiene debba essere liquidato con riferimento alla mancata acquisizione del consenso informato, avendo al riguardo l’attrice avanzato una domanda generica ed apodittica, e senza un esaustiva deduzione e prova dell’esistenza e l’entità di un danno specificamente riferibile alla carenza di consenso informato: in altri termini, se, per un verso, si ritiene esaustivamente dedotta e dimostrata la lesione del diritto alla salute; è pur vero, per altro verso, che non è stata dedotta e dimostrata in modo altrettanto esaustivo l’an ed il quantum relativo alla lesione del diritto all’autodeterminazione.

3. Sulla liquidazione del danno

Accertata, la responsabilità della struttura ospedaliera e dei medici nella causazione del sinistro in esame nella misura e nei limiti di cui ai paragrafi che precedono, occorre procedere alla liquidazione dei danni patiti dall’attrice.

Orbene, sulla scorta della sentenza n. 184/86 della Corte Costituzionale, il danno alla salute (o danno biologico), in quanto consistente nell’alterazione peggiorativa dell’integrità psicofisica del soggetto, costituisce la componente prioritaria del danno alla persona.

Lo stesso assorbe le voci elaborate in giurisprudenza – riflettenti la capacità lavorativa generica, il danno alla vita di relazione ed il danno estetico – e va liquidato tenendo conto di una uniformità pecuniaria di base, senza trascurare l’incidenza che la menomazione ha dispiegato sulle attività della vita quotidiana del danneggiato.

Il danno alla salute va, pertanto, valutato e risarcito con criteri identici per tutti coloro che si trovano in identiche condizioni, prescindendo quindi da posizioni sociali, professionali, economiche e simili, salva, tuttavia, l’applicazione di correttivi in relazione ad accertate peculiarità del caso concreto. Se è dimostrato che il soggetto ha subito, altresì, ripercussioni sul piano patrimoniale (spese, perdite, mancati utili) anche tale danno va risarcito; ove, infine, il fatto sia inquadrabile in una ipotesi di reato ovvero, più in generale, si sia verificata la lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente garantito, andrà risarcito anche il danno non patrimoniale.

In tal modo resta esclusa ogni duplicazione risarcitoria in quanto il danno alla capacità di reddito è risarcibile solo se vi sia una specifica incidenza della lesione sulla capacità di guadagno del soggetto.

Non viene, cioè, in considerazione il concetto di invalidità incidente sulla capacità lavorativa generica; solo alla dimostrazione dell’incidenza dell’invalidità sulla capacità lavorativa specifica, consegue il risarcimento del danno patrimoniale lamentato.

Alla luce dell’orientamento prospettato, parte attrice, non avendo dimostrato – né allegato – di aver riportato nell’incidente per cui è causa alcuna menomazione specifica alla propria capacità lavorativa, va risarcita unicamente in relazione al danno alla salute.

Sul punto, ricostruita nei termini che precedono la dinamica della vicenda dedotta in giudizio ed in considerazione della compatibilità riscontrata dal nominato C.T.U. tra le lesioni lamentate e gli eventi supra descritti, ritiene questo Giudice che la parte attrice abbia fornito la prova richiestale.

Il danno subito ha determinato nella parte attrice degli esiti permanenti rispetto ai quali il nominato consulente, Dr. Gi.Va. ha osservato che “A… ) una condivisibile scelta terapeutica avrebbe comunque condizionato dei postumi valutabili sul 4%, laddove oggi la sig.ra Iz. presenta menomazioni valutabili sul 6%, sicchè può essere riconosciuto solo il 2% di maggior danno (…)” (cfr. pag. 2 delle risposte del C.T.U. alle osservazioni di parte): ha, dunque, riscontrato un cd. “danno differenziale” per la cui liquidazione, tuttavia, in adesione alla costante giurisprudenza di merito e di legittimità (cfr. inter alia, Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28986; Corte appello Venezia, 16/10/2017, n. 2275), si deve procedere alla differenza tra il montante risarcitorio previsto dal sistema tabellare e quello corrispondente all’invalidità ineliminabile e normalmente risultante dal trattamento medico: ne consegue che, in un primo momento, bisogna liquidare il danno in euro; e, successivamente, effettuare le operazioni aritmetiche, senza procedere alla differenza tra le due percentuali. In altri termini, non si deve procedere alla differenza tra la percentuale di danno biologico riscontrata e quella che si sarebbe comunque verificata all’esito del trattamento terapeutico corretto (nel caso di specie, 6% – 4%= 2%); bensì è necessario dapprima calcolare i risarcimenti per le due percentuali di invalidità (nel caso di specie, 6% e 4%), e, poi, calcolare la differenza fra i montanti risarcitori già tradotti in Euro.

In applicazione di tali principi, si osserva, quanto al criterio di liquidazione di tale voce di danno, che il Tribunale, alla luce delle sentenze Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28990 e Cassazione civile sez. III, 11/11/2019, n. 28994 già citate al paragrafo “1” della presente sentenza (e considerato che, comunque, si tratta di lesioni cd. micropermanenti), fa riferimento alle tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD (in particolare, quelle aggiornate dal d.m. 22.07.2019), applicabili al caso in esame per le ragioni già sopra esposte. Alla stregua dei parametri indicati dalle predette tabelle, e tenuto conto che l’attrice, al momento dei fatti di causa aveva 52 anni, va riconosciuta a Ro.Iz., a titolo di risarcimento danni, la somma ottenuta con il seguente procedimento: 1) Euro 6.561,39 quale danno biologico da invalidità permanente nella misura del 6%; 2) Euro 3.345,02, quale danno biologico da invalidità permanente nella misura del 4%; 3) Euro 3.216,37, quale danno biologico differenziale risultante dalla differenza tra i montanti risarcitori di cui ai precedenti punti 1) e 2).

Nulla, invece, va riconosciuto a titolo di I.T.P. I.T.T., avendo il consulente condivisibilmente argomentato che l’invalidità patita dalla Iz. sarebbe stata la stessa anche qualora fosse stata adottata la scelta terapeutica migliore, e, cioè, l’intervento chirurgico.

Null’altro va liquidato, infine, sub specie di danno non patrimoniale, in quanto parte attrice, da un lato, lo ha richiesto in modo del tutto vago e generico; e, dall’altro lato, non ha allegato – né, soprattutto, provato – il c.d. danno morale eventualmente patito in conseguenza dell’errato trattamento terapeutico subito: ne consegue che tale danno non è risarcibile, secondo la nuova concezione che di esso hanno fornito le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la nota sentenza 18.11.2008, n. 26972.

In particolare, osserva il Tribunale come in tale circostanza sia stato chiarito che “nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria d danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata.

Sofferenza la cu intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre i primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazione patologiche della sofferenza.

Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area de danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà del primo”).

Né si può ritenere che tale voce d danno possa ritenersi ricorrente in re ipsa, in quanto non si ravvisa la sussistenza della lesione di diritti costituzionalmente protetti ultronei rispetto a quello alla salute già liquidato, ed aderendo questo Giudice all’orientamento giurisprudenziale che nega decisamente l’esistenza di una autonoma voce di danno qualificabile come “esistenziale” e sganciata da una copertura di carattere costituzionale, in considerazione della circostanza per cui essa finisce per apportare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione dell’apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma (l’art. 2059 cod. civ.) a fini specifici della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta da legislatore ordinario né è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c. che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona, ritenuti inviolabili dalla norma costituzionale” (cfr. Cass. 15.7.2005, n. 15022 e Cass. 9.11.2006, n. 23918).

In conclusione, Azienda Ospedaliera (…), Ga.Fa. e Ri.Ma. vanno condannati, in solido tra loro, a risarcire il danno subito da Ro.Iz., liquidato in Euro 3.216,37.

Nella liquidazione di tale danno, qualificandosi come debito di valore, deve altresì tenersi conto del nocumento finanziario subito dal soggetto danneggiato a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovutagli a titolo di risarcimento: questo ulteriore danno, invero, ben può essere liquidato con la tecnica degli interessi, con la precisazione, tuttavia, che detti interessi non debbono essere calcolati né sulla somma originaria, né su quella rivalutata al momento della liquidazione, dovendo gli stessi computarsi, piuttosto, o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno, ovvero in base ad un indice di rivalutazione medio (Cfr., ex multiis, Cass. civ. 01.07.2002 n. 9517).

Per ottenere l’effetto pratico del riconoscimento degli interessi calcolati sulla somma rivalutata in base ad un indice di rivalutazione medio, questo Giudicante reputa opportuno ordinare il pagamento in favore di Ro.Iz. degli interessi al tasso legale dal 30.10.2010 – quale data di primo accesso dell’attrice al pronto soccorso della struttura ospedaliera convenuta – sulla somma complessiva innanzi liquidata all’attualità (pari ad Euro 3.216.37) ma devalutata, in base agli indici ISTAT, al 30.10.2010, e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 30.10.2010 e fino al momento del deposito della presente decisione, sulla somma di volta in volta risultante dalla rivalutazione di quella sopra precisata, con divieto di anatocismo.

Dal momento della pronunzia della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo, infine, con la trasformazione dell’obbligazione di valore in debito di valuta, dovranno essere corrisposti, sulle somma totale sopra liquidata all’attualità, gli ulteriori interessi al tasso legale, ex art. 1282 cod. civ. (cfr., in tal senso, Cass. 3 dicembre 1999 n. 13470; Cass. 21 aprile 1998 n. 4030).

4. Sulle spese di lite.

Le spese di lite seguono la soccombenza dei convenuti, in solido tra loro, e vengono liquidate secondo i parametri del D.M. 55/2014 ricompresi nello scaglione tra Euro 1.101,00 ed Euro 5.200,00 con loro attribuzione in favore degli Avv.ti Gi.Ce. e Re.Mi., dichiaratisi antistatari ex art. 93 cod. proc. civ..

Parimenti, le spese di C.T.U. – come già liquidate nel corso del giudizio – seguono la soccombenza dei convenuti, in solido tra loro.

P.Q.M.

Il Tribunale di Benevento, seconda sezione civile, in persona del G.M., Dr. Gerardo Giuliano, definitivamente pronunziando sulla causa iscritta al n. 1305/2014 del R.G.A.C., ogni contraria istanza, difesa, eccezione e conclusione disattesa, così provvede:

1. accoglie, per le causali e nei limiti di cui in motivazione, la domanda avanzata dall’attrice, e, per l’effetto:

2. CONDANNA AZIENDA OSPEDALIERA (…), GA.FA. e Ri.Ma., in solido tra loro, al pagamento, per le causali di cui in motivazione ed in favore di Ro.Iz., della somma di Euro 3.216,37., oltre interessi al tasso legale dal 30.10.2010 fino al momento del deposito della presente decisione, sulla somma complessiva innanzi liquidata all’attualità ma devalutate, in base agli indici ISTAT, al 30.10.2010 e, quindi, anno per anno, ed a partire dal 26.08.2010 e fino al momento del deposito della presente decisione, sulle somme di volta in volta risultanti dalla rivalutazione di quelle sopra precisate, con divieto di anatocismo;

3. condanna, altresì, Azienda Ospedaliera (…), Ga.Fa. e Ri.Ma., in solido tra loro al pagamento, in favore di Ro.Iz., degli interessi al saggio legale – sulle somme risultanti all’esito dell’operazione di cui al punto”2.” del presente dispositivo – dalla data del deposito della presente sentenza e fino alla solutio;

4. CONDANNA AZIENDA OSPEDALIERA (…), GA.FA. e Ri.Ma., in solido tra loro al pagamento, per le causali di cui in motivazione ed in favore di Ro.Iz. delle spese di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 2.907,00, così suddivisi: Euro 477,00 per esborsi ed Euro 2.430,00 per compenso professionale, più 15% sul compenso professionale per rimborso forfettario spese generali, oltre I.V.A. e C.P.A., se dovute, come per legge, con attribuzione in favore degli Avv.ti Gi.Ce. e Re.Mi., dichiaratasi antistataria ex art. 93 cod. proc. Civ;

5. pone definitivamente a carico di Azienda Ospedaliera (…), Ga.Fa. e Ri.Ma., in solido tra loro, le spese della C.T.U., come già liquidate in corso di causa.

Così deciso in Benevento il 29 gennaio 2020.

Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2020.

1 Comment

  • Alfredo Ciminelli

    La sentenza è fatta molto bene.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.