Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 20 maggio 2005, n. 19381

In tema di diffamazione a mezzo della stampa, il limite della continenza deve ritenersi superato quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica: ne consegue che la verifica circa l’adeguatezza del linguaggio alle esigenze del diritto del giornalista alla cronaca e alla critica impone innanzitutto l’accertamento della verità del fatto riportato e la proporzionalità dei termini adoperati per rapporto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico.

 

La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo:

Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.

Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 20 maggio 2005, n. 19381

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

FOSCARINI BRUNO – PRESIDENTE

CALABRESE RENATO LUIGI – CONSIGLIERE

MARINI PIER FRANCESCO – CONSIGLIERE

FERRUA GIULIANA – CONSIGLIERE

MARASCA GENNARO – CONSIGLIERE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1) An. Ma., N. IL (…)

2) Gi. Fe., N. IL (…)

3) Ar. Mo. Ed. SPA N. IL 00/00/0000

avverso SENTENZA del 30/06/2004

CORTE APPELLO di MILANO

visti gli atti, la sentenza ed il procedimento

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARINI PIER FRANCESCO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gioacchino Izzo che ha concluso per annullamento con rinvio;

Udito, per la parte civile, l’Avv.

Udito il difensore Avv.to Gr. Vo., del foro di Ro., per i ricorrenti, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

La Corte OSSERVA

Con sentenza 30.6.2004, la Corte di Appello di Milano ha respinto l’impugnazione di An. Ma. e Gi. Fe. avverso la sentenza in data 7.1.2002 con la quale il Tribunale della stessa città li aveva condannati, rispettivamente, alla pena di L. 2.000.000 di multa e di L. 1.400.000 di multa, oltre alla pena accessoria di legge ed al risarcimento del danno in solido, fra loro e con il responsabile civile, in favore della costituita parte civile, siccome colpevoli il primo di diffamazione in persona di St. Ar. in un articolo a sua firma pubblicato sul settimanale “Pa.” in data 26.6.1997 ed il secondo di omesso controllo sulla pubblicazione diffamatoria nella veste di direttore responsabile.

L’articolo in questione -titolato “Fo. Il., con gli st.”- aveva tacciato di falsità le dichiarazioni rese da St. Ar. al pubblico ministero Bo., attributive di reati nei confronti dell’Avv.to Ce. Pr. (corruzione in atti giudiziari nei confronti del giudice Consigliere Vi. Me., corruzione di un assessore regionale lombardo, utilizzazione per losche operazioni di conti correnti accesi presso la Ef.), concludendo che “l’elenco delle frottole raccontate dalla superteste Om. e documentate come tali è impressionante” e che “le denunce per calunnia da lei ricevute non si conterebbero più”.

Il primo giudice aveva ritenuto, sulla base delle acquisizioni dibattimentali, che si fosse raggiunta prova della falsità della notizia, resa in termini denigratori, almeno in ordine ad uno degli episodi narrati da St. Ar. (la gestione, da parte dell’On.le Ce. Pr., di conti correnti di soggetti indagati, dirigenti in Ef.) – per taluni riscontri oggettivi seppure il procedimento avviato dalle denunce fosse stato archiviato al pari di ogni altro ugualmente originato, nonché di non corrispondenza al vero del fatto storico che la stessa fosse stata raggiunta da plurime denunce per calunnia.

Il giudice di appello -respinta l’eccezione di nullità per mancato rispetto del termine di preavviso ex art. 375 comma 3 cod. proc. pen., nonché rigettata la richiesta di rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale -ha ravvisato nelle espressioni “A farla breve l’elenco delle frottole raccontate dalla superteste Om. e documentate come tali è impressionante; le denunce per calunnia che St. Ar. ha ricevuto non si contano più”, e solo in queste (testualmente), “l’aspetto ingiurioso del contenuto dell’articolo di cui si discute”, ritenendo le medesime come eccedenti in ogni caso il limite della continenza espositiva; e, pertanto, ha giudicato “irrilevante ed inutile l’ulteriore analisi delle singole accuse mosse da St. Ar. al fine di verificare se le notizie date dal giornalista fossero o meno vere”, rimproverando poi al direttore di non avere censurato espressioni offensive immediatamente percepibili.

Gli imputati, a mezzo del comune difensore, ricorrono per cassazione, riproponendo con un primo motivo la questione in rito già disattesa dal giudice di appello, cui rimprovera, sul punto, l’inconferente richiamo ad una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. Sez. VI, 21.11.2003), pronunciatasi in tema di invito ex art. 375 comma 3 cod. proc. pen. irrispettoso del termine di comparizione, in un caso in cui l’incombente era stato richiesto dallo stesso indagato a seguito del deposito degli atti ex art. 415 bis stesso codice; e, con un secondo motivo, deducendo la manifesta illogicità della motivazione -affetta da un ragionamento “nebuloso”- sul rilievo che il rifiuto di verificare la corrispondenza al vero della notizia pubblicata avrebbe impedito una esatta valutazione della continenza del linguaggio adottato dal giornalista per la migliore rappresentazione al lettore.

Il primo motivo è infondato.

Vero è, infatti, che l’art. 180 cod. proc. pen. ricomprende nella categoria delle nullità a regime intermedio quelle previste dall’art. 178 stesso codice e che, fra queste, espressamente, quelle, alla lettera c), che concernono l’intervento dell’imputato, certamente menomato anche quando egli non possa avvalersi del termine minimo assicuratogli dalla legge onde apprestare la più utile difesa; e, tuttavia, la disciplina della nullità della fattispecie denunciata non può non essere coordinata con quanto previsto, specificamente, dall’art. 416 cod. proc. pen. (già nella formulazione testuale vigente all’epoca), che sanziona di nullità la richiesta di rinvio a giudizio “se non preceduta dall’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio ai sensi dell’articolo 375 comma 3”.

Per il principio di tassatività ex art. 177 cod. proc. pen., che non tollera applicazioni analogiche od interpretazioni estensive, dunque, la sanzione di nullità non può operare oltre la testuale previsione normativa che, facendo espresso richiamo al solo comma 3 e non anche al comma 4 -in cui è prescritto che l’invito a presentarsi sia notificato almeno tre giorni prima di quello fissato per la comparizione (salva la possibilità di abbreviazione per ragioni di urgenza)- relega la nullità stessa alla categoria di quelle relative (art. 181 cod. proc. pen.) e, nella specie, sanata perché -pure non presentatosi l’indagato a rendere l’interrogatorio- non dedotta entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1 cod. proc. pen.

Non rileva, dunque, che la sentenza impugnata abbia respinto l’eccezione di nullità facendo rinvio giurisprudenziale ad una ipotesi di invito, irrispettoso del termine dilatorio, rivolto ad imputato che aveva richiesto di essere interrogato post deposito degli atti ex art. 415 bis cod. proc. pen. -donde la meno grave compressione dello strumento di difesa- perché in ogni caso la sanzione di nullità, gravida di conseguenze per investire ogni atto successivo alla richiesta di rinvio a giudizio, è prevista per la sola ipotesi di totale omissione dell’invito.

Le esposte ragioni di reiezione del motivo non negano, peraltro, il principio, già fermo nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’omissione dell’invito a rendere l’interrogatorio prima dell’emissione del decreto di citazione a giudizio, concernendo una facoltà di intervento dell’imputato, costituisce nullità a regime intermedio (Cass. Sez. III, 29.3.2001 n. 17760, Venturi; Cass. Sez. III, 26.11.2001/6.2.2002 n. 4526, Er Regraui), tale principio essendo stato dettato, appunto, nella distinta ipotesi della totale omissione dell’invito.

Fondato, viceversa, è il secondo motivo di impugnazione.

Vero è, infatti, che, ai fini dell’applicazione dell’esimente del diritto di cronaca o di critica, il limite della continenza espositiva postula, secondo l’insegnamento del giudice di legittimità, non soltanto che il fatto divulgato sia vero, ma anche che la cronaca non vada al di là di quanto è strettamente necessario per l’appagamento del pubblico interesse all’informazione e che la critica non trasmodi in attacco personale consapevolmente lesivo della sfera privata altrui, senza alcuna finalità di pubblico interesse (Cass. Sez. V, 6.2.1981 n. 5385, Marzullo).

Sul presupposto ineludibile della corrispondenza al vero del fatto oggettivamente diffamatorio divulgato, e dello interesse pubblico alla conoscenza del fatto stesso, la continenza, in concreto, viene poi colta, dal giudice di legittimità, nella moderazione, proporzione e misura del dictum, con l’ulteriore precisazione che il concetto non va però inteso in senso assoluto, sicché non possono ritenersi vietati coloriture o toni aspri e polemici rientranti nel costume e termini oggettivamente offensivi che non abbiano equivalenti e non siano sovrabbondanti ai fini del concetto da esprimere o della descrizione del fatto assoggettato a critica (Cass. Sez. V, 3.5.1985 n. 8581, Ruschini e, identicamente, Cass. Sez. V, 23.4.1986 n. 10151, Emiliani).

Ha altresì precisato, il giudice di legittimità, che, in tema di diffamazione, l’esercizio di un diritto scrimina se il fatto offensivo sia vero, e che la verità del fatto deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell’accertamento del dolo e dell’esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l’atto diffamatorio e alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione e, tuttavia, ha ricordato, poiché la norma incrimina anche la propalazione di fatti veri, l’esimente postula il limite della continenza, cui va assegnata “una duplice prospettazione, soggettiva e oggettiva, formale e sostanziale, in quanto desumibile da due elementi essenziali, sintomatici di serenità, misura e proporzione”: di tal che, in relazione all’intero contenuto espositivo dell’articolo ed al complesso della pubblicazione, la divulgazione, od il commento, di un fatto vero non scrimina se i termini adottati si traducano in insulti ovvero in espressioni gratuite, non necessarie, volgari, umilianti o dileggianti, ovvero siano affermazioni in sé diffamatorie (Cass. Sez. V, 23.2.1998 n. 5767, Saturni).

Orbene, incontestabile (e riconosciuto in sentenza) che ragioni di pubblico interesse giustificassero la pubblicazione delle notizie circa le accuse di reato rivolte dalla teste nei confronti dell’On.le Ce. Pr. -venendone coinvolti magistrati, assessori regionali e funzionari di banca- deve rilevarsi che il giudice di appello si è discostato dai richiamati principi nel momento stesso in cui ha abdicato alla verifica di verità del fatto narrato, non soltanto, perché limite fondamentale per l’applicazione della esimente invocata, ma anche perché il giudizio circa la continenza espositiva è rimasto privato del necessario punto di riferimento.

Il limite della continenza espositiva, invero, può e deve dirsi superato, per quanto si è detto, dalla oggettiva capacità denigratoria delle espressioni, perché non necessarie (sovrabbondanti) alla esposizione del fatto (cronaca) o al commento del medesimo (critica) e, più precisamente, nella ipotesi in cui il linguaggio risulti pretestuosamente adottato per una gratuita aggressione ad personam; ma è evidente, allora, che una verifica “dell’eccesso” espositivo non può rinunciare all’accertamento -specie se sollecitato dall’imputato che invochi l’esimente del diritto di cronaca o di critica- in ordine alla ipotesi di necessità, ovvero indispensabilità, dei termini adottati, a descrivere il fatto ovvero commentare la notizia.

Mutilato dell’accertamento di verità del fatto riportato nell’articolo, infatti, il giudizio di incontinenza espositiva perde un parametro essenziale cui ancorarsi, essendo lecito al giornalista riferire o commentare la notizia con termini anche particolarmente severi ed aspri se essi sono adeguati comunque a rendere al lettore la gravità di un fatto veramente accaduto; tanto più, poi, è necessaria -ai fini di corretto apprezzamento della valenza lesiva delle espressioni- la verifica della verità storica del fatto, quanto più questo presenti oggettivi profili di rilevante interesse pubblico (come nella specie), e la serietà e gravità dei fatti denunciati si presti ad un commento della vicenda, in termini assolutamente non inadeguati a rappresentare e l’una e l’altra.

E’ a tal punto evidente che, nella specie, il giudizio di una capacità gratuitamente denigratoria alla espressione “frottole”, a commento delle dichiarazioni della testimone -soltanto su tal punto ritenute lesive della reputazione (testualmente, “… queste e soltanto queste integrano l’aspetto ingiurioso del contenuto dell’articolo di cui si discute”)- si giustifica logicamente soltanto se riferibile all’accertata falsità del fatto narrato (l’infondatezza di tutte le accuse indirizzate all’On.le Ce. Pr.); giudizio, peraltro, che, nella valutazione del giudice di merito, si presenta “indebolito”, se non addirittura confliggente, rispetto a quello di segno opposto implicito nella esclusione, dall’area della denigrazione, delle esplicite affermazioni di “falsità” contenute nell’articolo con riferimento a ciascuna dichiarazione accusatoria, essendo al medesimo sotteso, nel linguaggio e nella accezione comune, un significato di voluta non corrispondenza al vero, con riflessi almeno parimenti apprezzabili in ordine al patrimonio morale del soggetto destinatario delle medesime.

Ove accertata la “falsità”, parziale o totale, delle dichiarazioni della testimone, infatti, l’incontinenza espositiva colta nella sola espressione “frottole”, usata dal giornalista, meriterebbe opportunamente di essere riesaminata e rivalutata, onde stabilire se le stesse abbiano palesemente ecceduto la necessità di rendere la più puntuale informazione al lettore circa gli esatti termini della vicenda narrata o, al contrario, se le stesse siansi a tal fine rivelate proporzionate ed indispensabili nel linguaggio figurato ed incisivo proprio di un giornalismo di denuncia.

Deve aggiungersi, poi, che l’ulteriore frase “le denunce per calunnia, nei confronti di St. Ar. non si contano più” -ritenuta dal primo giudice offensiva perché in realtà la teste sarebbe risultata raggiunta “solo da tre o quattro, tutte archiviate, esclusa una”- non risulta particolarmente indagata e, peraltro, il giudizio di inadeguatezza espositiva -trascurate le considerazioni del giudice di primo grado che, sul punto, ha ritenuto destituite di fondamento le narrazioni accusatorie della teste per almeno tre dei quattro episodi riferiti al pubblico ministero- anche in questo caso avrebbe dovuto affrontare il tema di verità del fatto, essendo evidente il nesso tra tale tema e la rappresentazione di una testimone pluridenunciata per ipotesi di calunnia.

L’impugnata sentenza, conclusivamente, deve essere annullata con rinvio per nuovo esame, emendato dei vizi motivazionali sopra esposti e rispettoso dei ricordati principi di diritto, ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

P.Q.M.

La Corte,

annulla l’impugnata sentenza, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

 

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Avv. Umberto Davide

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