Si ritiene che, la condizione per l’impugnabilità nei termini previsti dal 2113 c.c. del verbale di conciliazione sindacale sottoscritto dal lavoratore, è data dall’ineffettività dell’assistenza prestata in sede conciliativa dal rappresentante sindacale.Premessa l’essenzialità dell’assistenza effettiva dell’esponente sindacale, idonea a sottrarre il lavoratore a quella condizione di inferiorità che, secondo la mens legis, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi, si ritiene sufficiente alla realizzazione di tale scopo l’idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l’assistenza prevista dalla legge; posto che la compresenza del predetto e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia presumere l’adeguata assistenza del primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (per il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all’attività svolta dal primo), in assenza di alcuna tempestiva deduzione né prova (dal dipendente di ciò onerato) che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta.

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Corte d’Appello|Bari|Sezione L|Civile|Sentenza|27 maggio 2022| n. 623

Data udienza 28 marzo 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI APPELLO DI BARI

SEZIONE LAVORO

composta dai magistrati:

Dott. Manuela Saracino – Presidente relatore

Dott. Pietro Mastrorilli – Consigliere

Dott. Maria Giovanna Deceglie – Consigliere ha emesso la seguente

SENTENZA

nella controversia di lavoro iscritta sul ruolo generale al n. 1722/2018

TRA

(…), rappresentato e difeso dall’avv.to SA.AL.

APPELLANTE

E

VITO (…), rappresentato e difeso dall’avv. PE.RO.

APPELLATO

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con sentenza del 31.1.2018 il Giudice del lavoro di Bari rigettava la domanda proposta da (…), avente ad oggetto la condanna di (…) al versamento della complessiva somma di Euro 115.333,19 a titolo di differenze retributive e trattamento di fine rapporto, oltre alle conseguenti prestazioni previdenziali e contributive; condannava inoltre il ricorrente al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale sentenza, con ricorso del 26.7.2018, il (…) interponeva appello chiedendo la riforma della sentenza e l’accoglimento della propria domanda.

Si costituiva (…) instando per il rigetto del gravame e la conferma della pronuncia impugnata.

In data odierna – previa trattazione della controversia tempestivamente disposta per iscritto, ai sensi dell’art. 221, 4 co., d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19), convertito, con modificazioni, in L. 17 luglio 2020, n. 77 – si svolgeva la camera di consiglio fra i Magistrati del Collegio composto in base alla tabella della Corte, dopodiché si procedeva alla pubblicazione del dispositivo in forma cartacea mediante deposito in Cancelleria.

In punto di fatto occorre premettere che, con ricorso depositato il 4.6.2015, l’appellante in epigrafe indicato deduceva di aver lavorato alle dipendenze del convenuto dal 1.2.2009 al 31.3.2014, data in cui era stato allontanato, con mansioni di autista e segretario personale, percependo una retribuzione inferiore a quella spettantegli in virtù dell’applicazione del CCNL di categoria.

Per tali ragioni adiva il Tribunale di Bari chiedendo la condanna del (…) al versamento della complessiva somma di Euro 115.333,19, quale differenza tra la retribuzione percepita e quella contrattualmente prevista in ragione del livello retributivo corrispondente alle mansioni svolte, compreso il TFR, oltre alla regolarizzazione contributiva. Il Tribunale di Bari rigettava le pretese del ricorrente accogliendo l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per intervenuta conciliazione in sede sindacale. In particolare, il giudice rilevava che:

1) Il ricorrente non aveva disconosciuto il contenuto, né la data e la firma apposta sul verbale di conciliazione il quale, ai sensi degli articoli 410 e 411 c.p.c. deve ritenersi non impugnabile a differenza di quanto previsto dall’articolo 2113 codice civile con riferimento all’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi del negozio transattivo stipulato in sede conciliativa;

2) Che il (…) non aveva impugnato la delega conferita al sindacalista (…), né aveva dedotto o provato alcunchè in merito alla nullità per difetto di effettiva rappresentanza;

3) Che il ricorrente non aveva chiarito e chiesto di provare le circostanza di fatto dalle quali desumere l’eventuale esistenza di una violenza esercitata in sede conciliativa per estorcere il suo consenso;

1) Che nel caso di specie il ricorrente non aveva nemmeno chiesto l’annullamento del verbale di conciliazione né i successivi atti e dichiarazioni rese al momento del ritiro delle sue competenze in esecuzione dell’accordo conciliativo. Con il primo motivo di gravame l’appellante lamenta l’omessa pronuncia su tutte le domande proposte nel ricorso introduttivo e quindi il vizio di mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Deduce il (…) che il rigetto della domanda principale per effetto della avvenuta conciliazione sindacale non spiega efficacia assorbente rispetto all’accertamento del carattere subordinato del rapporto di lavoro finalizzato al riconoscimento dei contributi previdenziali poiché tali domande hanno natura e valenza autonoma ed indipendente.

Con il secondo motivo di appello il (…) si duole dell’omessa pronuncia relativa alle differenze retributive per le mensilità di febbraio-marzo2014, non ricomprese nell’accordo. L’accordo sindacale, sottoscritto in data 4.2.2014 e ritenuto fondante per il rigetto del ricorso, avrebbe al più valenza – – a suo dire- – per il rapporto intercorso prima della sua sottoscrizione e non per le mensilità successive (febbraio e marzo 2014 e TFR). Con il terzo motivo di gravame l’appellante censura la sentenza nella parte in cui il Giudice ha ritenuto che la domanda di parte ricorrente dovesse essere rigettata in quanto non era stato chiesto, dalla stessa parte, l’annullamento del verbale di conciliazione. Con il quarto motivo d’appello, il (…) contesta il vizio di motivazione relativamente alla pronuncia di inammissibilità del ricorso per intervenuta conciliazione sindacale.

Assume sul punto che la sentenza impugnata sarebbe viziata in quanto avrebbe dato rilevanza alla contraddittorietà della richiesta contenuta nell’atto stragiudiziale di impugnativa notificato il 04/08/2014 (ove viene contestata la genericità dell’accordo conciliativo) mentre nel ricorso giudiziale si invoca il vizio del consenso laddove, a dire dell’appellante, la semplice lettura dei due atti consente di ritenere che essi contengono le stesse doglianze in quanto contestano l’illegittimo richiamo nel verbale di conciliazione ad un presunto rapporto di lavoro occasionale in luogo del rapporto stabile e continuativo evincibile dalla realtà dei fatti.

Ritiene che la sentenza risulta altresì censurabile in quanto il giudice di primo grado non avrebbe valutato le eccepita genericità del verbale di conciliazione omettendo persino di visionare l’atto stesso, viziato da nullità in conseguenza della indeterminabilità del suo contenuto ai sensi dell’articolo 1966 secondo comma codice civile; la transazione sarebbe nulla in quanto l’oggetto è sottratto alla disponibilità delle parti; rileva da ultimo l’assenza di motivazione in merito alla mancata ammissione delle prove testimoniali invocate dal ricorrente sul contenuto dell’accordo conciliativo.

I motivi di appello, stante la stretta correlazione tra gli stessi esistente, meritano di essere trattati congiuntamente.

L’appello è infondato.

Il (…) ha promosso ricorso ex art. 414 c.p.c. affinché si accertasse e dichiarasse che egli aveva svolto, in regime di subordinazione, mansioni di autista-segretario personale riconducibili al IV livello del CCNL Studi Professionali (CONSILP) alle dipendenze del (…) e che era stato licenziato verbalmente senza versamento del TFR, contributi previdenziali, straordinari, indennità per ferie non godute, indennità di mancato preavviso per il licenziamento.

Più nello specifico il (…) ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze del (…) dall’1.2.2009 al 31.3.2014 con mansioni di autista e segretario personale, percependo una retribuzione mensile di Euro 540,00, lavorando dal lunedì al venerdì dalle ore 8.00 alle 14.00 e dalle ore 15.00 alle ore 22.00, mentre il sabato e la domenica prestava servizio per mezza giornata, dalle 9.00 alle 13.00; di essersi recato, un fine settimana al mese, a Roma, sempre in qualità di autista e, ogni tre mesi, di aver accompagnato il (…) e sua moglie a Napoli; di essere stato disponibile 24 ore al giorno e di aver svolto mansioni di segretario personale (operazioni bancarie, spedizione e ritiro corrispondenza personale e professionale, fare la spesa, andare in farmacia, pulizie nello studio privato, aiuto per i pazienti con difficoltà deambulatorie); di aver sottoscritto, in data 4.2.2014, un verbale di conciliazione sindacale con la falsa promessa di una immediata formalizzazione del rapporto di lavoro, con il quale rinunciava ad ogni pretesa maturata in relazione alle prestazioni lavorative effettuate in favore del (…) dietro pagamento di Euro 7.500,00; di aver impugnato tale atto di transazione con un atto stragiudiziale di significazione e diffida notificato in data 4.8.2014 essendo stato il verbale stato estorto con il raggiro e dietro minaccia di una risoluzione del rapporto; di essere stato licenziato alla fine del mese di marzo.

Tanto premesso, rileva la Corte che deve essere condiviso il ragionamento del primo giudice, non scalfito dalle argomentazioni sollevata nel gravame.

Va considerato che in data 4.2.2014 il (…) aveva sottoscritto, presso la sede dell’U.S.P.P.I. di Bari al C.so (…) 30 ed alla presenza di (…) e di (…), in qualità di segretario generale dell’USPPI, un verbale di conciliazione sindacale. Il verbale era relativo “al rapporto occasionale intercorso tra le parti nel periodo dal 15.2.2009 all’1.2.2014 e concerne eventuali differenze retributive, mensilità suppletive, ferie, permessi, festività, mansioni, qualifica, dimissioni o licenziamento, indennità sostitutiva del preavviso, trattamento di fine rapporto, contributi assistenziali e previdenziali, natura del rapporto, pretese di natura indennitaria e/o risarcitoria (anche fisica, materiale, biologica e morale), nonché ogni altra pretesa di qualsiasi genere…”. Il lavoratore accettava dunque l’accordo a fronte della corresponsione di Euro 7.500,00, in tre tranches, a partire da febbraio 2014. Tale accordo veniva stipulato in seguito al conferimento, pure contenuto nel predetto verbale e sottoscritto nella premessa con apposita firma dal (…), del “formale incarico al dr. (…), nella qualità di cui innanzi, al fine di rappresentanza e tutela dei propri diritti di cui al presente verbale. Dichiara, altresì, che la propria sottoscrizione dovrà intendersi anche per ratifica dell’operato del dr. (…)”.

Rispetto a tale conciliazione, il Tribunale ha correttamente ritenuto verificata l’ipotesi prevista dagli artt. 411 c.p.c. e 2113 c.c..

Nel caso in esame, difatti trova applicazione l’art. 2113 c.c. che espressamente prevede: “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., non sono valide.

(II). L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.

(III). Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.

(IV). Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185,410 e 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile”. Osserva la Corte che l’invalidità delle rinunzie e transazioni aventi per oggetto il diritto del prestatore di lavoro derivante da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., pertanto trova il suo limite d’applicazione nella previsione di cui all’ultimo comma. Secondo tale comma sono comunque salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli art. 185, 410 e 411, 412 ter e quater c.p.c..

Mentre la rinunzia, in quanto negozio unilaterale non recettizio, sortisce l’effetto dell’estinzione dei diritti patrimoniali connessi al rapporto di lavoro e già acquisiti al patrimonio del lavoratore, anche in assenza del beneficiario, la transazione, in quanto contratto, richiede l’incontro delle volontà di tutte le parti interessate e la contestuale sottoscrizione del verbale di conciliazione (cfr. Cassazione civile, sez. lav., n. 16168/04). Il negozio transattivo stipulato in sede conciliativa, giudiziale o stragiudiziale, in forza dell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., è assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale dell’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l’intervento del terzo investito di una funzione pubblica (giudice, autorità amministrativa, associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore.

Secondo la giurisprudenza di legittimità “per il combinato disposto degli articoli 2113 c.c. e 410 e 411 c.p.c. le rinunce e transazioni aventi a oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione sindacale, non sono impugnabili ai sensi dei commi 2 e 3 dell’articolo 2113 c.c. solo a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentati sindacali sia stata effettiva, consentendo al lavoratore di sapere a quale diritto rinuncia e in che misura, e, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto si evinca la res dubia oggetto della lite (in atto o potenziale) e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’articolo 1965 del codice civile” (Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024).

Sempre in questo senso, “le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c., e pertanto rimangono irrilevanti, attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto ex art. 2113 c.c., gli eventuali vizi formali del procedimento di formazione della conciliazione sindacale” (Cass. 24/3/2004 n. 5940).

L’art. 2113 c.c. è applicabile anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un’azione giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale; ne consegue che, ai sensi del citato articolo, restano impugnabili nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio (Cass.4 settembre 2018, n. 21617).

La Corte di Cassazione ha anche di recente affermato che: “come è stato da questa Corte precisato, in materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali – della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale – sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c. (v. Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024);

dalla scrittura contenente la transazione devono risultare gli elementi essenziali del negozio, e quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la res dubia, vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite (v. Cass. n. 24024/2013 cit.);

per res dubia si intende l’incertezza, almeno nell’opinione delle parti, circa il rapporto giuridico intercorrente tra le stesse e le rispettive contrapposte pretese e la corrispettività del sacrificio sopportato, o meglio le reciproche concessioni (v. Cass. 1 aprile 2010, n. 7999; Cass. 6 maggio 2003, n. 6961; Cass. 22 febbraio 2000, n. 1980), senza che di tali pretese sia necessaria l’esteriorizzazione (v. Cass. 6 giugno 2011, n. 12211; Cass. 21 settembre 2005, n. 18616) e senza che acquisti rilievo l’eventuale squilibrio tra il datum ed il retentum (v. Cass. 30 aprile 2015, n. 8808; Cass. 3 aprile 2003, n. 5139; Cass. n. 1980/2000 cit.) dovendosi, a tal fine, ricordare che l’art. 1970 c.c., esclude che la transazione possa essere rescissa per causa di lesione in quanto la considerazione dei reciproci sacrifici e vantaggi derivanti dal contratto ha carattere soggettivo, essendo rimessa all’autonomia negoziale delle parti; il giudice, quindi, non è tenuto a valutare la congruità delle determinazioni delle parti rispetto alle reciproche concessioni dovendo solo accettarne la reale volontà negoziale;

la transazione, come già evidenziato, può essere diretta ad una regolamentazione degli interessi anche in relazione ad un “pericolo di lite” (cfr. Cass. 4 maggio 2016, n. 8917; Cass. n. 24024/2013 cit.); è stato, altresì, precisato che, in tema di transazione, poiché dalla normativa codicistica sulle obbligazioni si evince la regola generale che l’adempimento di una obbligazione pecuniaria, anche se relativa ad un rapporto di lavoro, deve essere eseguito in un’unica soluzione, potendo il creditore, ai sensi dell’art. 1181 c.c., rifiutare un adempimento parziale (salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente), la dilazione di pagamento, accordata su richiesta del debitore, costituisce una parziale rinuncia e, come tale, integra una “concessione” ai sensi dell’art. 1965 c.c., essendo, come detto, irrilevante l’equivalenza tra le reciproche concessioni (v. Cass. 3 settembre 2013, n. 20160);

tali reciproche concessioni, inoltre, devono essere intese in relazione alle rispettive pretese e contestazioni dei litiganti e quindi non già in relazione ai diritti effettivamente spettanti a ciascuna delle stesse secondo la legge (così Cass. 4 settembre 1990, n. 9114); come da questa Corte, poi, più volte affermato (v. ex plurimis Cass. 28 maggio 2003, n. 8467; Cass. 6 marzo 2004, n. 4261; Cass. 17 marzo 2005, n. 5788; Cass. 7 settembre 2005, n. 17817; Cass. 18 aprile 2008, n. 10218) l’interpretazione del contratto è riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ovvero per inadeguatezza della motivazione. “(cfr. Cass. n. 9006/19).

Applicando i principi di diritto richiamati nella citata sentenza alla fattispecie in esame, si ritiene che, alla luce del chiaro tenore letterale dell’accordo sindacale, la condizione per l’impugnabilità nei termini previsti dal 2113 c.c. del verbale di conciliazione sottoscritto dal (…), sarebbe stata la dimostrazione dell’ineffettività dell’assistenza prestata in sede conciliativa dal rappresentante sindacale.

Nel caso di specie non è stata nemmeno formulata nel ricorso introduttivo del giudizio alcuna deduzione utile a dimostrare l’ineffettività dell’assistenza da parte del Brescia. Premessa l’essenzialità dell’assistenza effettiva dell’esponente sindacale, idonea a sottrarre il lavoratore a quella condizione di inferiorità che, secondo la mens legis, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi, si ritiene sufficiente alla realizzazione di tale scopo l’idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l’assistenza prevista dalla legge; posto che la compresenza del predetto e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia presumere l’adeguata assistenza del primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (per il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all’attività svolta dal primo), in assenza di alcuna tempestiva deduzione né prova (dal dipendente di ciò onerato) che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta (Cass. 3 settembre 2003, n. 12858).

Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, mancando una “tempestiva deduzione” in merito, si ritiene di fatto sussistente l’adeguatezza dell’assistenza al lavoratore in sede conciliativa, spiegatasi in seguito conferimento dell’incarico al sindacalista da parte del (…) e della sottoscrizione dell’accordo in presenza dello stesso.

Inoltre, la reciprocità delle concessioni necessaria alla qualificazione come atto di transazione dell’accordo tra lavoratore e datore di lavoro (Cass. 4 ottobre 2007, n. 20780; Cass. 7 novembre 2018, n. 28448), deve poi essere intesa in correlazione alle pretese e contestazioni delle parti, non in relazione ai diritti effettivamente a ciascuna spettanti (Cass. 4 settembre 1990, n. 9114).

Nell’atto sottoscritto dal (…), detta reciprocità è integrata dall’accettazione dal lavoratore della somma offerta e dalla rinuncia, sempre a titolo di transazione, ad ogni maggior somma, diritto o pretesa derivante da e per effetto del predetto rapporto occasionale di lavoro, anche per titoli non espressamente previsti nel presente verbale da una parte e, dall’altra, dall’erogazione da parte del datore di lavoro delle somme indicate. Va detto, peraltro, che il Tribunale si è espresso proprio in tali termini, posto che ha (cfr. pag. 3 dell’impugnata sentenza) chiaramente rilevato che il ricorrente non aveva articolato alcun mezzo di prova tendente a dimostrare, da un lato, l’ipotesi della violenza come causa di annullamento della conciliazione e, dall’altro, la mancanza di effettiva assistenza da parte del sindacalista.

Trattasi di pronuncia rispetto alla quale nulla viene dedotto nel gravame.

Con il secondo motivo di appello, il ricorrente deduce l’omesso esame di un punto decisivo per la controversia da parte del giudice, ossia la domanda di riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a carattere subordinato e conseguente attribuzione delle differenze retributive e TFR per i mesi di febbraio e marzo 2014, eccependo il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c..

Anche tale motivo risulta infondato.

Il verbale di conciliazione, sottoscritto dal (…) in data 4.2.2014, riguarda infatti l’intero rapporto lavorativo (occasionale) intercorso tra le parti e ciò è comprensibile dal fatto che in tale accordo è ricompreso anche il TFR.

Oltretutto, già nel ricorso introduttivo non emerge alcuna deduzione specifica secondo la quale il lavoratore avrebbe continuato a lavorare anche dopo la sottoscrizione di tale accordo e fino al 31.3.2014.

Rileva la Corte che per fondare il diritto del lavoratore a percepire differenze retributive rispetto alle somme asseritamente percepite nel corso del rapporto di lavoro, sarebbe stato necessario confortare la domanda con una prova documentale che, nella specie, è mancata (buste paga, corrispondenza fra le parti, ecc.). Non risulta infatti alcuna allegazione che attesti la prosecuzione del rapporto dalla sottoscrizione dell’accordo sindacale in data 2.4.2014 fino al 31.3.2014, data in cui il lavoratore sostiene di essere stato licenziato. In questa situazione processuale, che non corrisponde alla prospettazione attorea, non è consentito ritenere la meritevolezza della domanda in una qualche misura apprezzabile ai sensi dell’art. 36 Cost., per cui sarebbe tecnicamente errato procedere a una consulenza contabile esplorativa.

La liquidazione equitativa ex art. 432 c.p.c., d’altro canto, postula la certezza del diritto, che in questa controversia non è stata raggiunta, costituendo un potere del giudice esercitabile soltanto nell’ipotesi in cui sia individuata, con adeguata e corretta motivazione, l’obiettiva impossibilità di una determinazione dell’importo della somma dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo.

Ritiene dunque la Corte che la domanda del ricorrente non possa trovare accoglimento e, pertanto, la sentenza va confermata.

Le spese del giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza dell’appellante.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…), con ricorso

depositato in data 26.7.2018, avverso la sentenza resa in data 31.1.2018 dal Tribunale di Bari, giudice del lavoro, nei confronti di (…), così provvede:

rigetta l’appello;

conferma l’impugnata sentenza;

condanna l’appellante a pagare al (…) le spese di questo secondo grado del giudizio, che liquida in complessivi Euro 2400,00 oltre agli accessori di legge, e che distrae in favore del procuratore antistatario;

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Così deciso in Bari il 28 marzo 2022.

Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2022.

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Avv. Umberto Davide

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