L’affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova – che deve essere fornita dal danneggiato – della sussistenza di un valido nesso causale tra l’omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall’altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell’art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta.

Puoi scaricare la presente sentenza in formato PDF, effettuando una donazione in favore del sito, attraverso l’apposito link alla fine della pagina.

Tribunale|Lecce|Sezione 1|Civile|Sentenza|1 giugno 2022| n. 1628

Data udienza 30 maggio 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale civile di Lecce – Prima Sezione civile – nella persona del giudice, dott.ssa Caterina Stasi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento civile iscritto al n. 489 del ruolo generale dell’anno 2018, avente ad oggetto: responsabilità civile, promosso

da

(…), (…) in proprio e in qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui minori (…) e (…), rappresentati e difesi dall’avv. Gi.Pa.;

– attori –

contro

Azienda Sanitaria Locale Lecce, rappresentata e difesa dall’avv. Sa.Co.;

– convenuta –

e

contro

(…), rappresentato e difeso dall’avv. Ez.Ga.;

– convenuto –

FATTO E DIRITTO

La presente controversia ha ad oggetto la domanda risarcitoria promossa da (…) e (…) in proprio e in qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui minori (…) e (…) nei confronti di Asl Lecce e (…), per il decesso della neonata (…) avvento tredici giorni dopo il parto, eseguito con taglio cesareo in via d’urgenza il giorno 7.10.2011 presso il nosocomio (…) di Casarano, ove la (…) era ricoverata dal 4.10.2011 per gravidanza giunta a termine (alla quarantesima settimana e nonostante le ripetute richieste della (…) di essere sottoposta a taglio cesareo programmato) e sottoposta a due trattamenti con Propess rispettivamente nei giorni 5.10.2011 e 11.7.2011; eseguita ecografia alle ore 15.00 del 7.10.2011, veniva evidenziata brachicardia del feto, cui seguiva la rottura dell’utero e intervento di taglio cesareo d’urgenza; la neonata nasceva viva ma poco vitale, con gravi

problemi respiratori, e in data 20.10.2011 decedeva; ancora, hanno premesso, gli attori, che la (…), in seguito a tale intervento, subiva gravissimi postumi che le determinavano l’infertilità e l’impossibilità di procreare e che il GIP avesse disposto CTU in sede di incidente probatorio, da cui emergeva la responsabilità del medico ginecologo che aveva in cura l’attrice, chiedendo dunque il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, sofferti in conseguenza della condotta dei convenuti.

Costituitosi in giudizio, (…) ha contestato in fatto ed in diritto le pretese attoree tanto nell’an tanto nel quantum debeatur, replicando di non essere stato in servizio al momento dell’intervento di TC della (…) – dovuto alla rottura imprevedibile dell’utero – e che non fosse stato commesso alcun errore nell’esecuzione del trattamento diagnostico e terapeutico praticato nei confronti dell’attrice, dal momento che anche l’operazione era perfettamente riuscita e la piccola (…) era successivamente deceduta per le conseguenze dell’insufficienza placentare subita dalla stessa.

Costituitasi a sua volta in giudizio, l’Azienda Sanitaria Locale Lecce ha contestato le pretese attoree, ribadendo che le prestazioni d’opera professionale poste in essere dal (…) e dai sanitari del nosocomio casaranese fosse stata aderente alle linee guida sanitarie e non comportò né la morte del feto né la isterectomia subtotale alla quale la (…) si sottopose nel 2014, come del resto sottolineato dall’ausiliare nominato dal giudice penale.

Espletata consulenza tecnica d’ufficio, all’udienza del 1.2.2022 la causa è stata riservata per la decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti.

La domanda è fondata e deve trovare accoglimento nei termini che seguono.

a) Panorama giurisprudenziale

Occorre in primo luogo precisare che è ormai consolidato, in dottrina e in giurisprudenza, l’inquadramento della responsabilità gravante sulla struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. SS.UU., n 577/2008). Ne consegue che la fonte del rapporto che si instaura tra paziente ed ente ospedaliero sia un atipico contratto di spedalità con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della struttura una serie di obblighi, primi fra tutti quelli di tipo lato sensu alberghieri, oltre che l’ineludibile obbligo di messa a disposizione del personale medico e paramedico ed infine quelli di apprestare tutte le necessarie obbligazioni di assistenza e protezione destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto.

La giurisprudenza e la dottrina, poi, sono concordi nel ritenere che, per quanto concerne le obbligazioni mediche in senso stretto poste in essere da sanitari, personale paramedico e lato sensu ausiliario della struttura sanitaria, l’ente “ospedaliero risponda ex art. 1228 c.c. a titolo di responsabilità indiretta (ciò sebbene in tema di responsabilità civile l’art. 7 della L. n. 24/2017 introduce una diversa qualificazione delle responsabilità della struttura sanitaria e del sanitario, ritenendo di natura contrattuale la prima ed extracontrattuale la seconda, salvo l’obbligazione contrattuale assunta direttamente dal medico con il paziente).

Così ricostruito il rapporto, ne discende che, ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba provare innanzitutto l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli vi si trovi inserito; spetta sempre al paziente l’onus di allegare (oltreché le fasi del ricovero e del trattamento) anche l’inadempimento rappresentato dalla lesione subita, mentre la struttura dovrà dimostrare il corretto o impossibile adempimento della prestazione, dunque la sopravvenienza del caso fortuito.

Tant’è che, secondo la recentissima pronuncia della Suprema Corte, “in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali (tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica, anteriormente alla L. n. 24 del 2017), è onere del creditore-danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del “più probabile che non”, tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all’agente” (Cass. n. 10050/2022).

L’ente ospedaliero risulta quindi esonerato dal rimprovero di responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. soltanto nel caso in cui il fatto dannoso occorso al paziente in degenza si realizzi per l’insorgenza di un fattore imprevedibile e inevitabile, ovverosia dalla causazione dell’evento lesivo da parte di un fattore umano o naturale, imprevedibile ed inevitabile, riconducibile quindi al concetto di fatalità.

Spetta quindi al debitore l’onere di provare, ai sensi del citato art. 1218 c.c., l’impossibilità della prestazione (con la specifica indicazione della causa che l’ha determinata) e la non imputabilità della specifica scaturigine dell’evento lesivo occorso al paziente, perché appunto imprevedibile e inevitabile.

Per quanto da ultimo attiene all’eventuale responsabilità della struttura ospedaliera ex art. 1228 c.c., questa si configura allorché tra le incombenze affidate al personale medico o paramedico (da considerarsi ausiliari in senso lato) e l’illecito, ricorra un rapporto di stretta derivazione causale, dovendosi ritenere tale forma di responsabilità in capo all’ente che utilizza e dispone del lavoro altrui per propri fini sussista ogni qualvolta si manifesti un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta del soggetto agente e l’evento lesivo per il paziente – e restando, dunque, irrilevante la tipologia contrattuale che regola il rapporto tra casa di cura e sanitario che vi opera, se di dipendente o libero-professionista; le incombenze svolte dal preposto devono aver reso possibile quindi, o comunque agevolato, la produzione dell’evento dannoso perché dello stesso possa essere chiamato a rispondere a titolo di responsabilità ex art. 1228 c.c. l’ente ospedaliero che si serve dell’attività del preposto.

Infine, secondo i chiarimenti ermeneutici resi dalla Suprema Corte, “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito, che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto)” (Cass. n. 6209/2016); ancora, “la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza” (Cass. n. 4095/2006).

E ancora, L’affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova – che deve essere fornita dal danneggiato – della sussistenza di un valido nesso causale tra l’omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall’altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell’art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta (Cass. n. 11789/2016 e n. 12686/2011).

b) Fattispecie in esame. Profili di responsabilità.

Orbene, nel caso di specie l’istruttoria espletata ha permesso di confermare i fatti posti a fondamento dell’azione spiegata.

Come efficacemente riassunto dai cc.tt.uu. nominati, dott.ri (…) e (…), nella relazione peritale a loro firma, “trattasi del caso clinico di paziente, 30enne all’epoca dei fatti, multipara, plurigravida, alla 40esima settimana di gestazione, sottoposta ad intervento di taglio cesareo d’urgenza per rottura d’utero nel corso di un ricovero protrattosi dal 4.10.2011 al 15.10.2011 presso il Presidio Ospedaliero di Casarano (LE) – ASL Lecce. Il feto estratto, in data 07.10.2011, vivo ma poco vitale decedeva, dopo 13 giorni” (pag. 8 relazione ctu agli atti).

Dalla citata relazione, val la pena riportare i passaggi più salienti, specificamente, quanto al diario clinico: “la signora (…) veniva seguita durante l’intero corso della gestazione dal Dott. (…) presso l’Ospedale di Casarano. Dalla documentazione sanitaria esaminata risulta che la gestazione proseguiva regolarmente sino al 4.10.2011, data in cui, alla 40esima settimana di gestazione, veniva ricoverata presso l’Ospedale di Casarano.

Il ricovero risultava finalizzato all’espletamento del parto, trattandosi di gravidanza protratta in pluripara.

In data 4.10.2011, la (…) accedeva in reparto, effettuava gli esami di routine, e veniva sottoposta a n. 2 registrazioni cardiotocografiche di circa 30 minuti (alle ore 9:00 e alle ore 14:40) in cui la frequenza cardiaca fetale era regolare e la sonda tocografica non rilevava attività contrattile spontanea. All’ingresso, la visita ostetrica documentava unicamente la presenza di collo centralizzato chiuso.

Il 5.10.2011, alle ore 7 e 52, iniziava una registrazione cardiotocografica in cui compare alle 8 e 17 una contrazione spontanea seguita da altre 5 contrazioni di minore entità, precisamente tra le ore 11 e 30 e le 11 e 50. Alle ore 9:00 veniva applicato Propess3 sino alle ore 15:30.

In data 6.10.2011 veniva eseguito ulteriore monitoraggio cardiotocografico privo di alcuna interpretazione eccetto data ed ora.

In data 7.10.2011, effettuati dalle ore 7:16 alle ore 8:00 e dalle 10:01 alle 10:50, definiti rassicurante. Il Propess veniva applicato alle ore 8:00 senza ulteriore specificazione temporale o raccordo clinico-ostetrico.

Nella medesima data alle ore 15:00 veniva annotato in cartella clinica la comparsa di anomalie del battito cardiaco fetale, bradicardia, (nella cartella clinica non è allegata copia di tale tracciato cardiotocografico), per cui veniva data l’indicazione per intervenire chirurgicamente mediante taglio cesareo d’urgenza. Nel verbale dell’intervento chirurgico non risulta segnalato l’orario di inizio dello stesso. In corrispondenza della sezione della cartella clinica dedicata al parto veniva segnalato l’orario di nascita della neonata, ore 15:45. L’intervento terminava alle ore 17:30.

Le condizioni cliniche della neonata nell’immediatezza del parto risultavano gravi (Indice di Apgar4 a l’=0, a 5’=2 a 10’=5) e tali da richiederne l’immediato trasferimento presso struttura sanitaria di I livello con Terapia Intensiva Neonatale. Nell’immediatezza del parto veniva sottoposta a manovre di rianimazione neonatale avanzate con intubazione orotracheale, ventilazione meccanica, massaggio cardiaco esterno, somministrazione di adrenalina per via endotracheale, di bicarbonato di sodio e soluzione fisiologica per via endovenosa; stabilizzata veniva trasferita presso la Terapia Intensiva Neonatale dell’Ospedale di Tricase, ove decedeva in data 20.10.2011 (13 giorni dopo la nascita)” (pagg. 10 ss.).

Quanto alle considerazioni medico-legali, tutte svolte con argomentazioni coerenti e prive di vizi logici, che il Tribunale condivide e fa proprie e che, debitamente motivate, hanno resistito alle censure delle parti, gli ausiliari incaricati hanno individuato profili di colpa medica nella gestione del caso per cui è giudizio: in primo luogo “la documentazione sanitaria evidenzia una gestione assistenziale e relativa al monitoraggio ostetrico della paziente connotata da una condotta non conforme alla regola cautelare, durante e successivamente il posizionamento del dispositivo vaginale per l’induzione del travaglio, in data 5.10 e 7.10.2011.

La compilazione della cartella clinica risulta lacunosa, incompleta, priva di raccordi temporali (in particolare vi è mancanza di annotazioni in merito a data ed ora) tra gli accertamenti strumentali (tracciati, ecografici) e le scelte terapeutiche, cui la paziente veniva sottoposta e l’evoluzione ostetrica del caso. Più precisamente, la cartella clinica è priva di annotazioni ostetriche e mediche puntuali e periodiche, integrate da altrettanto incomplete e poco esaustive interpretazioni dei tracciati cardiotocografici effettuati durante la degenza. Tali lacune documentali riguardano, peraltro, il lasso temporale che intercorre tra il secondo posizionamento del dispositivo vaginale per l’induzione del parto (ore 9:00 del 7.10.2011) e la segnalazione (ore 15:00 del 7.10.2011) delle alterazioni cardiotocografiche (bradicardia) ed ecografiche (presentazione trasversa del feto con polo cefalico a sx) che inducevano i sanitari a predisporre l’espletamento del parto mediante taglio cesareo.

La carenza documentale relativa al suddetto tracciato cardiotocografico non rende possibile la valutazione della risposta contrattile uterina nelle ore successive al posizionamento del Propess, nonché del benessere fetale e, più nel dettaglio, non permette di valutare la comparsa di anomalie del BCF, dato utile per indicare, di intervenire in anticipo evitando l’aggravamento delle condizioni fetali” (pag. 12 elaborato peritale).

In altre parole, la documentazione medica fornita dai convenuti appare carente e lacunosa ai fini della valutazione del caso specifico, ciò che non può che militare a sfavore dei sanitari che ebbero in cura la (…).

In secondo luogo, profilo che assume preminente rilievo, a parere del Tribunale: “la signora (…) era giunta al termine (40ma settimana) della sua quinta gravidanza di cui 3 terminate con parto spontaneo; secondo i protocolli l’induzione avrebbe dovuto essere praticata a 41 settimane e 2 giorni, e nel frattempo si sarebbero dovute controllare ogni 3 o 4 gg. le condizioni fetali. Non vi sono documenti che esplicano le motivazioni cliniche per cui è stata praticata l’induzione” (pag. 13).

E ancora, con particolare riguardo alla condotta del dott. Michele (…): “dal punto di vista clinico i documenti esaminati permettono di affermare che la mancanza del monitoraggio cardiotocografico continuo, in particolare dopo che, con ogni probabilità, era iniziata l’attività contrattile è da considerarsi come una condotta non conforme alle regole cautelari attese; vi erano tutti i presupposti, continuando la registrazione CTGF, per poter definire con anticipo la grave condizione rappresentata dalla rottura d’utero e di conseguenza evitare il grave danno ipossico fetale” (pag. 13).

Il dato medico-legale si fa via via più severo: in riferimento ad eventuali profili di colpa grave in capo ai sanitari dell’ospedale di Casarano “dall’analisi della documentazione sanitaria, emergono elementi di criticità in capo ai sanitari delle Strutture che ebbero a prendere in carico la Sig.ra (…)”.

La rottura d’utero, diagnosticata in data 7.10.2011, insorgeva a seguito di duplice induzione farmacologica del parto, in cui l’evoluzione ostetrica non è stata correttamente riferita per cui, non risultando documentata, è solo prospettabile con criterio di probabilità qualificata.

La rottura d’utero, pur avendo una bassa incidenza (1:1000), rappresenta un evento acuto, improvviso e ad evoluzione rapida, con elevato tasso di morbilità materno-fetale che necessita di inquadramento clinico e terapeutico immediato. L’iter diagnostico-terapeutico necessario all’approccio di tale condizione patologica richiede non solo una preparazione adeguata del singolo professionista sanitario e del personale paramedico che lo assiste, che deve diagnosticare le manifestazioni cliniche fetali che precedono la rottura d’utero, come l’ipercontrattilità o le manifestazioni iniziali di sofferenza ipossica, ma anche un’adeguata organizzazione d’equipe (ostetrico, anestesista, personale di sala operatoria) e prevedere un protocollo d’emergenza che consenta la fruibilità in tempi molto ridotti della sala operatoria. Nel caso di specie, le lacune documentali già discusse impediscono di esprimersi in maniera esaustiva in merito alle procedure diagnostiche messe in atto, soprattutto circa la tempestività delle stesse. Nonostante ciò, le singole annotazioni riportate in cartella danno concretezza alla considerazione che il monitoraggio cardiotocografico, (del quale vi è carenza documentale), integrato alla valutazione ecografica avrebbero indicato la necessità di un rapidissimo espletamento chirurgico del parto, questa risultando la scelta terapeutica adeguata e necessaria al caso” (pagg. 14-15).

Individuate in termini perfettamente intellegibili ed esaustivi le condotte caratterizzate da colpa professionale, la c.t.u. espletata ha consentito di accertare anche la sussistenza del nesso causale tra il decesso della neonata e il trattamento diagnostico-terapeutico eseguito dai sanitari convenuti nei confronti della (…): “il decesso della neonata (…), con criterio di probabilità qualificata è da porre in relazione causale con le scelte operative che determinarono l’aumentato rischio, poi attuatosi, di rottura d’utero concretizzando un’imprudenza operativa classificabile come violazione di regola cautelare. Si precisa al riguardo che a fronte di condizioni ostetriche non permittenti, la scelta di procedere con l’induzione al parto avrebbe dovuto comportare una programmazione clinico-operativa proporzionata al rischio noto, evitando la produzione degli eventi avversi e consentendo la tempestiva gestione diagnostico-terapeutica degli stessi; tale pianificazione non risulta nel caso concreto attuata. A seguito dell’insorgenza dell’evento avverso (rottura dell’utero), le procedure chirurgiche a carico della madre e del prodotto del concepimento furono adeguate ma non tempestive. Le procedure volte a fronteggiare l’emergenza comportarono il sacrificio di un annesso (ovaia e tuba) senza che tale attività chirurgica possa ritenersi ascrivibile a manchevolezze nella fase di gestione della complicanza” (pag. 15).

Secondo gli esperti incaricati, insomma, non solo le scelte operative dei sanitari aumentarono il rischio di rottura dell’utero, così irrimediabilmente esponendo al pericolo la piccola e la madre, ma le procedure diagnostiche poste in essere a seguito dell’insorgenza di tale – pure prevedibile – evento furono intempestive, seppure adeguate e comportarono, altresì, la perdita di ovaio e tuba da parte della paziente.

Le conclusioni a cui è pervenuto il collegio peritale non risultano minate dalle osservazioni critiche delle parti, per i motivi ampiamente esaminati dai ccttuu nominati, che il tribunale condivide e fa propri.

Le ragioni che conducono a tali considerazioni, sopra testualmente descritte, sono chiare: tanto il (…), tanto gli altri sanitari del reparto dell’ospedale, decisero di indurre il parto ad una donna che non aveva ancora finito la gestazione, contravvenendo le linee guida che consentono tale trattamento solo dalla 41esima settimana in poi, aumentando e provocando “con grado di probabilità media” gli eventi lesivi per cui si chiede il ristoro.

Tanto la morte della neonata tanto le lesioni riportate dalla (…) verosimiglianza si sarebbero potute evitare (“con criterio di prevalenza”) qualora la paziente fosse stata sottoposta ad un intervento di taglio cesareo programmato.

Del resto, le risultanze peritali non sono affatto smentite dalla lettura della ctu espletata nel corso del procedimento penale celebratosi a carico del (…) (all. 13 fascicolo di parte attrice) che evidenzia i medesimi profili colposi e causali su cui si sono ampiamente soffermati i ccttuu nominati nel presente giudizio.

Accertata la sussistenza della responsabilità dei sanitari della struttura convenuta che provocarono colposamente il decesso della neonata e le lesioni subite dalla (…), a causa del trattamento diagnostico e terapeutico sciatto e inadeguato al caso di specie, nei termini esaustivamente spiegati dall’ausiliare nominato, occorre quantificare i danni da liquidarsi in favore degli attori.

c. Profili risarcitori.

c.1.) danno biologico sofferto da (…).

Come accertato dal c.t.u. dott. Lorenzo Polo, “nel corso dell’intervento, accertata la lacerazione dell’utero, non si sono presentate difficoltà tecniche riferite alla gestione della breccia uterina; si sono inoltre evidenziate le necessità operative che hanno comportato l’asportazione di un annesso (ovaio e salpinge)” (pag. 13 elaborato peritale),da cui è disceso un danno biologico stimato dall’ausiliare nella misura del 7% (sette per cento).

Ciò premesso, posto che il danno non patrimoniale di cui trattasi non può essere provato nel suo preciso ammontare e va pertanto liquidato con valutazione equitativa, ai fini della quantificazione delle somme spettanti all’attore a titolo di risarcimento del pregiudizio de quo, il Tribunale ritiene di fare applicazione delle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dall’Osservatorio per la giustizia civile del Tribunale di Milano, anche in considerazione del fatto che, come precisato dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 12408/2011, gli importi in essa contenuti costituiranno dalla data di detta pronuncia, per la giurisprudenza della Corte, il valore da ritenersi “equo” ai fini del risarcimento del danno alla persona, e cioè quello in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad alimentarne o ridurne l’entità.

Occorre, inoltre, evidenziare che le predette tabelle prevedono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente a “lesione permanente dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale”, nei suoi risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore”, “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione, vale a dire la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di così detto danno biologico “standard” e di così detto “danno morale”, apparendo, dunque, conformi ai principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella nota sentenza n. 26972/2008.

Ebbene, giova rimarcare che le richiamate tabelle fanno corretta applicazione di tali principi, nella misura in cui muovono dalla presunzione, in base all’id quod plerumque accidit, che ogni lesione dell’integrità psico-fisica che cagioni una determinata percentuale di invalidità permanente produca, altresì, delle ripercussioni nella sfera dinamico-relazionale del soggetto danneggiato ed arrechi al medesimo una sofferenza soggettiva, l’entità delle quali è stata quantificata, come già evidenziato, sulla scorta di valori monetari “medi”, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini “standardizzabili” in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia a quanto agli aspetti sofferenza soggettiva).

In tal modo esse consentono di pervenire ad una liquidazione unitaria dei diversi aspetti (danno biologico, danno alla vita di relazione, sofferenza soggettiva) del danno non patrimoniale da lesione dell’integrità psico-fisica.

Tali tabelle contengono, inoltre, per ogni punto di invalidità permanente, delle percentuali di aumento, al fine di pervenire ad un’adeguata personalizzazione della liquidazione, qualora, sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dal danneggiato, emerga che l’entità dei predetti risvolti del danno non patrimoniale superi il valore medio previsto dalla tabella.

Facendo applicazione delle tabelle milanesi, utilizzate in tutto il territorio nazionale ai fini di una liquidazione standardizzata del danno non patrimoniale, tenuto conto che all’epoca dell’evento la (…) aveva trenta anni, l’importo che le spetta a titolo di risarcimento del danno biologico e del danno morale si ritiene pari ad Euro 13.452,00.

c.2) danno da perdita del rapporto parentale: (…), (…), (…) e (…).

Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità e di merito, “il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta” (Cass. n. 1788/2019, n. 11212/2019).

L’inadempimento della struttura debitrice della prestazione lede i diritti inviolabili della persona ovvero, oltre a quelli della minore, anche i diritti della madre e del padre ((…)) e dei fratelli di (…), (…) e (…).

Appare infatti evidente che la morte della neonata, provocate dai sanitari della ASL convenuta, abbiano comportato un radicale sconvolgimento emotivo ed un’immensa sofferenza interiore per i genitori della piccola, dovuti alla definitiva perdita della figlia, della frustrazione di non poter veder crescere e conoscere la creatura che aveva attraversato senza alcuna difficoltà clinica l’intera gravidanza.

Il danno non patrimoniale – in favore dei genitori in proprio – andrà liquidato in via equitativa, non avendo a disposizione tabelle risarcitorie anche per detta tipologia di danno, potendosi assumere quale parametro generale di riferimento le stesse tabelle del Tribunale di Roma, relative al danno da perdita del rapporto parentale, con una riduzione equitativa delle stesse del 50%, trattandosi di morte di una persona con cui, al di là del vincolo di sangue, non si era creata alcuna relazione, visto il lasso di tempo brevissimo tra la nascita di (…) e il suo decesso.

Pertanto, i genitori di (…) avranno diritto alla somma di Euro 140.000,00 per ognuno, spettando invece ai fratelli, all’epoca rispettivamente di dodici e di dieci anni, e quindi perfettamente in grado di comprendere la vicenda, la somma di Euro 70.000,00 a testa; pertanto, i convenuti dovranno essere condannati a pagare in favore degli attori il complessivo ammontare di Euro 420.000,00, somma equativamente liquidata con moneta corrente, oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data del fatto e annualmente rivalutata al saldo.

c.3) danno tanatologico (…)

“In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico “stricto sensu” (ovvero danno al bene “salute”), al quale, nell’unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell'”exitus”, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, in tale ipotesi, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso” (Cass. n. 23153/2019); ancora, “in tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subìto dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l’intensità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo. Dai pregiudizi risarcibili “iure hereditatis” si differenzia radicalmente il danno da perdita del rapporto parentale che spetta “iure proprio” ai congiunti per la lesione della relazione parentale che li legava al defunto e che è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione, ma non anche il rapporto di convivenza, non assurgendo quest’ultimo a connotato minimo di relativa esistenza” (Cass. n. 21837/2019).

Ancora più di recente, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 5448/2020, ha avuto modo di argomentare che “le espressioni “danno biologico terminale”, “danno tanatologico”, “danno catastrofale” non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e cioè possono essere utilizzate come “mera sintesi descrittiva” (conf. Cass. 18056/2019 e Cass. S.U. 15350/2015) e che vada, inoltre, ribadita l’irrilevanza della qualificazione dell’obbligo risarcitorio quale sanzione civilistica per il reato, atteso la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile dalla responsabilità penale e la “obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza… e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltreché consolatoria)” (Cass. S.U. 15350/2015).

Secondo i giudici di legittimità, la perdita della vita, di per sè non risarcibile quale danno subito in proprio dalla persona deceduta in caso di decesso immediato o dopo pochissimo tempo dalle lesioni riportate (Cass. S.U. 15350/2015, v. anche Cass. 14940/2016), va risarcita, nel caso di decesso avvenuto dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni (ipotesi in questione), sotto il duplice profilo del danno biologico c.d. terminale e del danno morale terminale.

Nell’unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, tuttavia, può talora aggiungersi a siffatto “danno biologico terminale” anche un peculiare danno morale, ovvero il danno consistente nella sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire (c.d. “danno morale terminale” o “danno da lucida agonia” o “danno catastrofale o catastrofico”).

Conclusivamente, per la citata pronuncia, “detto “danno morale terminale”, si risolve nella “paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali” ed è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in difetto di tale consapevolezza, non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni (conf. Cass. 13547/2014); in tal caso, infatti, il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività cui la vittima si sarebbe dedicata se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, sicché, al contrario del danno alla salute, l’esistenza stessa del pregiudizio in esame presuppone che la vittima sia cosciente, atteso che se la vittima non è consapevole della fine imminente non è nemmeno concepibile che possa prefigurarsela ed addolorarsi per essa” (Cass. n. 5448/2020).

Appare evidente che, nel caso di specie, essendo la minore del tutto incosciente e inconsapevole dal momento della nascita al momento del decesso, verificatosi pochi giorni dopo il parto, non abbia subito alcun patimento interiore, così come teorizzato dalle summenzionate pronunce, sicché tale voce di danno non può essere liquidata.

d. Spese di lite.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Le spese di CTU, liquidate con separato provvedimento, devono essere poste definitivamente a carico di parte convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale di Lecce, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa, così provvede:

1) condanna i convenuti al pagamento della somma di Euro 13.452,00 in favore di (…), per i motivi di cui al punto c1) oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data del fatto e annualmente rivalutata secondo gli indici ISTAT FOI fino al di del saldo;

2) condanna i convenuti al pagamento della somma di Euro 420.000,00, in favore degli attori, per le causali di cui in narrativa (punto c2) oltre ad interessi legali sulla somma devalutata alla data del fatto e annualmente rivalutata secondo gli indici ISTAT FOI fino al di dell’effettivo saldo;

3) pone definitivamente le spese di ctu a carico dei convenuti;

4) condanna i convenuti alla refusione delle spese di lite in favore degli attori, liquidate in Euro 545,00 per spese vive ed Euro 21.350,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, in favore dell’avv. Gi.Pa., dichiaratosi antistatario.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Così deciso in Lecce il 30 maggio 2022.

Depositata in Cancelleria l’1 giugno 2022.

Puoi scaricare il contenuto in allegato effettuando una donazione in favore del sito attraverso il seguente link

Inserisci importo donazione € (min €1.00)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.