l’estensione di una servitù convenzionale e le modalità del suo esercizio devono essere desunte dal titolo, da interpretarsi con i criteri dettati dagli art. 1362 e segg. cod. civ., non potendo assumere alcun rilievo il possesso, che è criterio idoneo per stabilire il contenuto soltanto delle servitù acquistate per usucapione. Tuttavia, ove la convenzione non consenta di dirimere i dubbi al riguardo, la servitù acquistata in base a titolo negoziale deve reputarsi costituita, ai sensi dell’art. 1065 cod. civ., in modo da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minore aggravio del fondo servente.

 

Tribunale Ferrara, civile Sentenza 7 giugno 2018, n. 447

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI FERRARA

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice Marianna Cocca

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. r.g. 1732/2016, promossa da:

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. FE.AT., elettivamente domiciliata presso il difensore avv. FE.AT.

ATTORE/I

contro

(…) (C.F. (…)),

(…) (C.F. (…))

con il patrocinio dell’avv. FE.SA. elettivamente domiciliati presso il difensore avv. FE.SA.

CONVENUTO/I

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La signora (…) ha citato in giudizio i signori (…) e (…) chiedendo di accertare e dichiarare che i convenuti hanno arbitrariamente ed illegittimamente realizzato opere sull’area gravata da servitù di passaggio incondizionata e perpetua in favore del fondo dell’attrice, servitù costituita con atto del Notaio (…) in data (…) rep (…) e trascritto a (…) il 9.7.1971 part. (…), limitando fortemente l’esercizio del diritto di transito sull’area stessa, ridotta rispetto ai termini minimi previsti contrattualmente; accertare e dichiarare che, con detto comportamento, i convenuti hanno violato le disposizioni contrattuali contenute nell’atto pubblico di cui sopra a disciplina della servitù di passaggio costituita in favore del fondo dell’attrice, ponendo, altresì, in essere atti emulativi, finalizzati esclusivamente ad arrecare nocumento all’odierna attrice; condannare i convenuti, proprietari del fondo servente, a ripristinare lo stato dei luoghi interessati dal diritto di servitù, rimuovendo lo steccato di recinzione, la pensilina e qualsiasi altro ostacolo, così da permettere il libero transito sull’intera area gravata da servitù, come previsto dal citato atto pubblico; condannare i convenuti al risarcimento dei danni in favore della signora (…), come quantificati in corso di giudizio o da liquidarsi in via equitativa, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c, avendo chiaramente resistito in giudizio in mala fede, consapevoli dell’illegittima compressioni delle ragioni dell’attrice. Con vittoria di spese e compensi del presente giudizio, oltre accessori di legge, nonché delle spese della pregressa fase di mediazione innanzi all’Organismo di Conciliazione della CCIAA di Ferrara.

Si sono costituiti i signori (…) e (…) chiedendo di accertare che le condotte poste in essere dai Signori (…) ed (…) non costituiscono limitazione della servitù e quindi violazione del disposto di cui all’art. 1067 c.c., respingere tutte le istanze formulate dalla Signora (…) in merito al ripristino dello stato dei luoghi ed al pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni, dichiarando i convenuti liberi da ogni e qualsivoglia obbligo nei confronti di parte attrice; accertato che la condotta qualificata come emulativa non presenta i caratteri di cui all’art. 833 c.c., respingere l’istanza formulata in via subordinata da parte della Sig.ra (…), dichiarando i convenuti liberi da ogni e qualsivoglia obbligo nei confronti di parte attrice. Con condanna di parte attrice alla rifusione delle spese di lite sostenute dai convenuti.

Istruita la causa con l’acquisizione dei documenti depositati dalle parti ed espletamento di una CTU, è stata trattenuta in decisione all’udienza del 13/12/2017.

L’attrice e i convenuti sono proprietari di immobili confinanti in (…), loc. S., Via (…).

In favore del fondo acquistato nel 2003 da (…) risulta costituita con atto notarile del dott. (…) in data 6 luglio 1971 una servitù di passaggio. Si legge nell’atto prodotto al doc. 2 di parte attrice: “servitù di passaggio incondizionata e perpetua, a piedi o con mezzi meccanici anche semoventi, senza corrispettivo, sul passo carraio posto al lato sud-ovest per accedere lungo il tratto più breve dal viale (…) alla corte di (…) (dante causa della parte attrice); la manutenzione del passo carraio sarà a spese comuni delle due parti”.

Nell’atto si legge anche che l’altra parte contraente, ovvero (…) e (…) (dante causa della parte convenuta) inoltre, si obbligarono “a non costruire nella corte eventuali bassicomodi se non a distanza non inferiore a sei metri dalla casa, in modo da consentire il libero transito al signor (…) (dante causa della parte attrice), come convenuto più sopra per la servitù di passaggio”.

La giurisprudenza ha sottolineato che l’estensione e le modalità di esercizio della servitù, fissate dal titolo costitutivo, costituiscono il punto di riferimento dell’indagine in ordine alla sussistenza, ad opera del proprietario del fondo servente, di eventuali atti di violazione o turbativa della servitù.

In particolare, “l’estensione di una servitù convenzionale e le modalità del suo esercizio devono essere desunte dal titolo, da interpretarsi con i criteri dettati dagli art. 1362 e segg. cod. civ., non potendo assumere alcun rilievo il possesso, che è criterio idoneo per stabilire il contenuto soltanto delle servitù acquistate per usucapione. Tuttavia, ove la convenzione non consenta di dirimere i dubbi al riguardo, la servitù acquistata in base a titolo negoziale deve reputarsi costituita, ai sensi dell’art. 1065 cod. civ., in modo da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minore aggravio del fondo servente” (cfr., Cass., Sez. Seconda, Sentenza n. 14088 del 11/06/2010, in cui la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, con motivazione immune da vizi giuridici e logici, aveva ricostruito l’esatta estensione della servitù di passaggio, costituita con atto notarile, in forza della sola interpretazione del negozio; si veda anche, da ultimo, Cass., Sez. Seconda, Sentenza n. 216 del 12/01/2015).

Venendo all’esame della servitù in questione, l’attrice lamenta che i convenuti hanno occupato l’area gravata da servitù, ove è stata realizzata una pensilina) e da ultimo una staccionata a distanza inferiore di sei metri dall’abitazione, con conseguente difficoltà di esercizio della servitù, soprattutto ai fini del passaggio di mezzi come ambulanze.

I signori (…) e (…) riconoscono l’esistenza dei diritti di cui gode (…), ma sostengono di non aver mai ostacolato la servitù di passaggio e precisando che la staccionata rispetta “l’unica condizione apposta al diritto di servitù, ossia quello di costruire a distanza non inferiore ai 6 metri dall’abitazione”.

Secondo la giurisprudenza dominante, l’art. 1362, pur prescrivendo all’interprete di non limitarsi all’analisi del significato letterale delle parole, non relega tale criterio al rango di strumento interpretativo del tutto sussidiario e secondario, ma lo colloca, al contrario, nella posizione di “mezzo prioritario e fondamentale” per la corretta ricostruzione della comune intenzione dei contraenti, con la conseguenza che il giudice, prima di accedere ad altri, diversi parametri di interpretazione, è tenuto a fornire compiuta e articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale.

Orbene, nel citato contratto si fa riferimento ad una servitù di passaggio incondizionata e perpetua, a piedi o con mezzi meccanici anche semoventi: non vi è indicazione della indicazione del passaggio ma appare che le parti abbiano voluto individuarlo, prevedendo l’impegno del proprietario del fondo servente a non costruire nella corte se non a distanza non inferiore a sei metri dalla casa, in modo da consentire il libero transito come convenuto per la servitù di passaggio.

Da una interpretazione del tenore delle dichiarazioni emerge come la volontà delle parti fosse di lasciare libero un passaggio di almeno sei metri rispetto all’abitazione. Peraltro, tale interpretazione è confermata anche dai convenuti i quali, sin dalla comparsa di costituzione e risposta, hanno allegato che la staccionata è stata “costruita nel rispetto delle distanze stabilite nel titolo costitutivo della servitù, ossia a 6 metri dall’abitazione”.

Dunque non vi è contestazione circa il fatto che il titolo sia stato interpretato dai contraenti e dai successivi aventi causa nel senso che il passaggio dovesse essere garantito nella misura di sei metri rispetto all’abitazione: in alcun modo i convenuti hanno allegato che il titolo fa riferimento a bassocomodi, quindi a corpi di fabbrica staccati e non, come nel caso di specie, a staccionate.

In buona sostanza, entrambe le parti sono concordi nell’interpretare il contratto nel senso che il passaggio deve essere garantito ad una distanza di sei metri dall’abitazione, non ritenendo rilevante che sia individuato mediante corpo di fabbrica od altro manufatto.

Acquisito al processo tale dato nell’ottica del principio di non contestazione, va rilevato che il punto nodale – su cui vi è contrasto tra le parti – concerne quindi la necessità di stabilire cosa debba intendersi per abitazione.

È pacifico infatti che, successivamente, alla scrittura del 1971 è stato realizzato il corpo dell’ingresso sporgente dell’abitazione dei convenuti (trattasi di un corpo sporgente e di una pensilina con altezza di m. 2,00 da terra): dunque, quando venne costituita la servitù di passaggio era edificato solo il corpo principale della casa, mentre successivamente è stato realizzato un ampliamento.

In sostanza, secondo parte attrice la distanza di sei metri deve essere considerata dall’abitazione per come ampliata; mentre nell’interpretazione dei convenuti, che costituisce il presupposto della realizzazione della staccionata, lo spazio di sei metri va considerato rispetto al corpo principale dell’abitazione.

La situazione di fatto risulta chiara dai rilievi del c.t.u. geom. Pa.Ce.

Infatti, se la distanza tra il filo esterno del muro del corpo principale del fabbricato di proprietà dei convenuti e la staccionata varia da un minimo di ml. 6,00 ad un massimo di ml. 6,12 (e, quindi, come evidenziano i convenuti, rispetta la distanza individuata dal titolo), invece la distanza tra il filo esterno del muro del corpo sporgente del fabbricato di proprietà dei convenuti e la staccionata varia da un minimo di ml. 4,72 ad un massimo di ml. 4,79 ed ancora la distanza tra l’estremità più esterna della pensilina a sbalzo dal corpo sporgente del fabbricato di proprietà dei convenuti e la staccionata varia da un minimo di ml. 3,70 ad un massimo di ml. 3,74.

Orbene, va condivisa l’interpretazione prospettata dall’attrice, dovendo il termine abitazione essere interpretato ricomprendendo anche gli eventuali ampliamenti della stessa.

Come evidenzia lo stesso consulente di parte convenuta, la concessione edilizia onerosa ottenuta dai signor (…) e (…) rilasciata in data 18/04/1987 è finalizzata alla “realizzazione dell’ingresso sporgente”, quindi di un corpo integrato all’abitazione stessa e facente parte di essa.

Dunque lo spazio di sei metri deve essere calcolato in relazione all’abitazione, intesa quale corpo unico, comprensiva, allo stato attuale, dell’ingresso sporgente e di ogni eventuale ampliamento.

Diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo di concludere che, fissato il passaggio a sei metri dal corpo di fabbrica originario, lo stesso possa poi essere progressivamente ridotto mediante ampliamenti dell’abitazione, sempre irrilevanti.

La chiarezza del titolo contrattuale in punto di distanza da osservare (elemento sul quale, come si è detto, non v’è contestazione tra le parti) rende non dirimente l’esame circa gli altri elementi legati all’esercizio della servitù, con riferimento, per esempio, alla tipologia dei mezzi di cui deve essere garantito l’accesso. Va comunque evidenziato che il c.t.u. che il c.t.u. ha rilevato come la manovra dalla proprietà di (…) verso la pubblica via ha un margine modesto ed obbliga all’esecuzione di una serie di brevi e successive manovre che vanno comunque eseguite all’interno della corte di proprietà dell’attrice.

Anche l’accesso di un mezzo di soccorso (e a maggior ragione la manovra di rientro sulla pubblica via dello stesso), secondo il c.t.u. non risulterebbe agevole: “la pensilina a sbalzo dal corpo sporgente del fabbricato di proprietà dei sigg.ri (…), essendo alta dal terreno mt, 2,00, potrebbe divenire un ostacolo, in quanto un’ambulanza, secondo i manuali di corretta progettazione, abbisogna di una sagoma libera di passaggio in altezza non inferiore a mt. 3,00 (e non inferiore a ml. 2,50 in larghezza)”.

Dunque, anche sotto il profilo dell’esercizio di fatto del passaggio come stabilito nel titolo, l’eccezione dei convenuti secondo cui esso sarebbe comunque garantito, in ragione del fatto che la distanza di sei metri indicata (ed oggettivamente ampia) si accompagna alla definizione della servitù come “incondizionata”, all’uso di locuzioni quali “distanza non inferiore a sei metri dalla casa, in modo da consentire il libero transito al signor (…), come convenuto più sopra per la servitù di passaggio”, che ribadiscono come quei sei metri siano strumentali a rappresentare la volontà dei contraenti di garantire non il minimo passaggio necessario (come rilevato allo stato attuale dal c.t.u.), ma un passaggio totalmente libero che non richieda le “particolari abilità di guida”, che il c.t.u. reputa invece necessarie allo stato attuale.

A nulla rileva la circostanza che per un periodo in luogo della staccionata sia stata collocata una siete, non essendo in questione, nella presente causa, la tutela sotto il profilo del possesso.

La staccionata va quindi rimossa come richiesto dall’attrice e qualunque manufatto potrà essere costruito dai convenuti garantendo uno spazio di passaggio della larghezza di sei metri dall’abitazione, per come si presenti (quindi allo stato attuale, rispetto alla pensilina).

Nessuna opera si rende necessaria, invece, sulla pensilina o su altri manufatti di proprietà dei convenuti.

La domanda di accertamento di atti emulativi da parte dei convenuti va invece respinta.

Il divieto disposto all’art. 833 c.c. impedisce al proprietario di porre in essere tutti quegli atti che non hanno altro scopo se non quello di nuocere o arrecare molestia ad altri.

Fondamento della norma è il principio dell’abuso del diritto, quale limite all’esercizio pieno ed esclusivo del diritto soggettivo, con la funzione di inibire gli atti che risulterebbero nocivi per i terzi.

In ogni caso, per aversi “atti emulativi”, è necessario il concorso di due elementi indefettibili, consistenti nella mancanza di utilità, nel comportamento posto in essere, per chi compie l’attività (elemento oggettivo) e la consapevolezza e volontà di nuocere o arrecare molestie ad altri (elemento soggettivo – c.d. animus nocendi).

Quanto all’elemento oggettivo, il comportamento di emulazione deve essere caratterizzato dall’esclusiva finalità di arrecare danno o molestia ad altri e non deve essere sorretto da nessun’altra giustificazione di ordine economico e morale.

Viene sul punto in rilievo il secondo requisito richiesto dall’art. 833 c.c., strettamente connesso al primo, l’elemento soggettivo.

L’intenzione di nuocere ad altri deve essere il solo scopo che determina il soggetto al compimento dell’atto. Un comportamento antigiuridico del proprietario, che pure gli arreca in ogni modo un qualsiasi vantaggio, esula dall’ipotesi disciplinata dall’art. 833 c.c. La formulazione della norma, che prevede la mancanza di ogni utilità per il proprietario, ne determina l’inapplicabilità ai casi in cui si persegua un utile anche minimo, futuro o di natura non economica. In particolare, come ribadito anche da recente giurisprudenza, “l’atto emulativo vietato ex art. 833 c.c. presuppone lo scopo esclusivo di nuocere o di recare pregiudizio ad altri, in assenza di una qualsiasi utilità per il proprietario, sicché non è riconducibile a tale categoria un atto comunque rispondente ad un interesse del proprietario” (Cass, Sez.. Seconda, Sentenza n. 1209 del 22/01/2016).

L’onere di provare l’animus nocendi incombe ai sensi dell’art. 2697 c.c. sull’attore, cioè su colui che alleghi di aver subito il danno o la molestia e consiste nel provare l’intenzione del proprietario di recare molestia ad altri.

I presupposti sin qui individuati appaiono del tutto carenti nel caso di specie.

Nella specie, la staccionata ha lo scopo di delimitare il passaggio: per quanto essa si sia collocata ad una distanza ritenuta non congrua rispetto al titolo costitutivo della servitù, in alcun modo la costruzione della stessa si connota come un atto avente lo scopo esclusivo di recare molestia.

Restano assorbiti i profili risarcitori, non sussistendo la condotta emulativa e non essendo comunque allegato e provato il danno subito dall’attrice, che non ha adempiuto all’onere della prova sul punto, sussistente anche allorché venga richiesta una liquidazione equitativa: “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa; esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno”. (Cass., Sez. Seconda, Sentenza n. 4310 del 22/02/2018).

Il rigetto della domanda ex art. 833 c.c. e della domanda risarcitoria induce al rigetto della domanda formulata ex art. 96 c.p.c., essendo carente il presupposto della totale soccombenza.

Per la stessa ragione, le spese di lite vanno regolate avendo riguardo al criterio della soccombenza reciproca. Come anche di recente ribadito dalla Suprema Corte, “la regolazione delle spese di lite può avvenire in base alla soccombenza integrale, che determina la condanna dell’unica parte soccombente al pagamento integrale di tali spese (art. 91 c.p.c.), ovvero in base alla reciproca parziale soccombenza, che si fonda sul principio di causalità degli oneri processuali e comporta la possibile compensazione totale o parziale di essi (art. 92, comma 2, c.p.c.); a tale fine, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta”. (Cass., Sez. Terza, Sentenza n. 3438 del 22/02/2016, Rv. 638888).

Nel caso di specie, le spese vanno compensate nella misura della metà; per il resto, vanno poste a carico dei convenuti, vista la loro prevalente soccombenza.

Esse sono liquidate in dispositivo, tenuto conto, per quanto riguarda i compensi professionali, della nota spese depositata dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014, alla luce dell’attività complessivamente svolta e dello scaglione di riferimento (in particolare, già nella misura della metà: Euro 810,00 per fase di studio, Euro 570,00 per fase introduttiva, Euro 860,00 per fase istruttoria, Euro 1380,00 per fase decisoria). Le spese della fase di mediazione, richieste nelle conclusioni, non sono state inserite nella nota spese di parte attrice, né gli esborsi di questa fase risultano documentati.

Le spese di c.t.u., già liquidate, vanno poste a carico di parte convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda di (…) nei confronti di (…) e (…), ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

– accoglie parzialmente la domanda e, per l’effetto, ordina ai convenuti di rimuovere la staccionata collocata sulla loro proprietà in B., loc. S., Via P., in posizione prospiciente la pensilina a sbalzo dal corpo sporgente del fabbricato di proprietà dei convenuti;

– rigetta le residue domande proposte da (…);

– dichiara tenuti e condanna i signori (…) e (…) alla rifusione in favore di (…) della metà delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 272,50 per esborsi ed Euro 3.620,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario per spese generali nella misura del 15%, IVA e c.p.a. con aliquote di legge e se dovute;

– compensa nel resto le spese di lite;

– pone le spese di c.t.u. a carico di parte convenuta.

Così deciso in Ferrara il 4 giugno 2018.

Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.