Le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

Tribunale Civitavecchia, Sezione Lavoro civile Sentenza 10 gennaio 2019, n. 5

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Civitavecchia, Sezione Lavoro, in persona della Dott.ssa Irene Abrusci, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nelle cause riunite iscritte ai nn. 1215 e 1340 RG degli Affari Civili Contenziosi dell’anno 2015 e vertenti

TRA

(…), elettivamente domiciliato in Roma, Via (…) nello studio dell’Avv. G.Ce., che lo rappresenta e difende per procura alle liti

RICORRENTE

E

(…) S.R.L., rappresentata e difesa dall’Avv. F.Pa. per procura alle liti

RESISTENTE

FATTO E DIRITTO

Con ricorso in riassunzione (a seguito di declaratoria di incompetenza per territorio da parte del Tribunale di Roma) depositato l’11.06.2015 ed iscritto al n. RG 1215/2015 (…), assumendo di aver lavorato continuativamente e con prestazione personale presso il ristorante pizzeria “(…)” nel periodo dal 2.02.2012 al 28.10.2012, svolgendo le mansioni di amministratore della società nonché addetto ai tavoli, all’approvvigionamento delle derrate ed al coordinamento del personale dipendente, assumendo di aver percepito la retribuzione mensile solo fino al mese di agosto del 2012, chiedeva al Tribunale di:

– condannare la società al pagamento in suo favore della complessiva somma di Euro 9.769,23, oltre interessi e rivalutazione;

– con vittoria di spese, competenze e onorari, da distrarsi.

(…) S.R.L. si costituiva eccependo l’incompetenza del giudice del lavoro, la nullità della domanda, e, nel merito, contestando in toto le avverse pretese e chiedendone il rigetto.

Con successivo ricorso in riassunzione depositato il 20.06.2015 ed iscritto al n. RG 1340/2015 (…) S.R.L. riassumeva il medesimo giudizio istaurato dal (…) presso il Tribunale di Roma.

Le cause, riunite per identità oggettiva e soggettiva, istruite documentalmente, previa concessione di un termine per il deposito di note difensive, venivano discusse e decise all’udienza odierna come da dispositivo.

Va premesso che dal tenore complessivo dell’atto introduttivo del giudizio si evince chiaramente che il (…) ha inteso domandare il pagamento della retribuzione relativa ai mesi di settembre, ottobre e novembre 2012 in forza di un asserito rapporto di lavoro subordinato intercorso con (…) S.R.L., rapporto che si sarebbe – nella prospettazione attorea – affiancato all’esercizio della carica di amministratore della suddetta società.

Che sia questo l’esatto tenore della domanda emerge, invero, dalla circostanza che sia stata domandata proprio la “retribuzione” computata su base mensile e non il corrispettivo per l’esercizio della carica di amministratore ex art. 2225 c.c. (che, come noto, non costituisce retribuzione in senso proprio e non è computato sulla base del solo periodo temporale di messa a disposizione della prestazione lavorativa, come avviene nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, bensì, in mancanza di diversa determinazione delle parti, sulla scorta del risultato ottenuto e del lavoro necessario per ottenerlo).

Del resto, il (…) fonda le proprie pretese sulla circostanza che egli ha lavorato “per l’intera fascia oraria (circa 60 ore settimanali)” svolgendo oltre alle mansioni di amministratore quelle di addetto al servizio ai tavoli, all’approvvigionamento delle derrate ed al coordinamento del personale e non anche sul fatto che egli avrebbe ottenuto un determinato risultato nell’esercizio della carica sociale.

A ciò si aggiunga che, anche se nello scarno ricorso introduttivo non viene qualificato (in termini di autonomia o subordinazione) il rapporto di lavoro inter partes, all’udienza del 28.11.2016 il procuratore di parte ricorrente ha significativamente precisato che “nonostante nelle buste paga sia indicata la qualifica di amministratore il ricorrente ha svolto contestualmente anche attività di lavoro subordinato come indicato in ricorso”.

Stando così le cose deve essere immediatamente respinta l’eccezione di incompetenza funzionale del giudice del lavoro, risultando la domanda attorea pienamente ascrivibile a quelle individuate dall’art. 409 c.p.c. Sotto altro profilo deve essere anche esclusa la rilevanza, nel presente giudizio, della transazione del 29.11.2012 (doc. 1 di parte res.), attinendo la stessa ai rapporti societari tra le parti ed ai compensi relativi alla funzione di amministrazione della società.

Sempre in limine litis ritiene il Giudice che debba essere disattesa l’eccezione di nullità del ricorso, posto che l’atto introduttivo del giudizio soddisfa i requisiti ex art. 414 c.p.c. quanto alla causa petendi e al petitum, tanto da aver consentito alla parte convenuta un’adeguata difesa, con gli effetti di cui all’art. 156 c.p.c. Nondimeno, le innegabili carenze del ricorso si rifletteranno, come si vedrà nel prosieguo, sul distinto piano dell’accoglimento della domanda.

Passando all’esame nel merito della domanda avanzata nel ricorso, con riferimento al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di lavoro autonomo e subordinato, si osserva che la attribuzione della qualifica sociale (pacificamente il (…) ha svolto le funzioni di amministratore della società resistente) non è di per se incompatibile con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato inter partes, occorrendo, però, che emergano, in concreto, da un lato lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita e, da un altro lato, l’effettivo vincolo di subordinazione gerarchica.

Da ultimo, la S.C. ha avuto modo di ribadire che “Le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società” (Cassazione civile sez. I, 13/03/2018, n.6095).

Nel caso di specie nessuno dei due elementi è stato compiutamente allegato da parte attrice: da un lato, infatti, il (…) ha omesso di descrivere puntualmente le mansioni svolte in qualità di amministratore della società evidenziandone la distinzione rispetto a quelle asseritamente inerenti al diverso rapporto di lavoro subordinato (si consideri che alcune delle attività descritte nel punto 3 del ricorso quali l’approvvigionamento delle derrate ed il coordinamento del personale ben possono ascriversi ai compiti propri di un amministratore); da un altro lato, alcuna allegazione è contenuta nel ricorso in ordine alla soggezione al vincolo di subordinazione gerarchica, non essendo stato neppure indicato chi ed in che modo avrebbe esercitato il potere direttivo, di controllo e disciplinare sul (…).

Alla luce di tali carenze assertive, sarebbe stato del tutto superfluo svolgere attività istruttoria sui capitoli formulati nel ricorso perché anche qualora fossero state confermate dai testi le circostanze dedotte, queste non sarebbero state sufficienti a dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

In conclusione va, dunque, affermato che il (…) non ha assolto all’onere di provare (non avendolo compiutamente allegato) che – nonostante la carica sociale ricoperta – egli era sottoposto al potere direttivo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro, così da determinare l’instaurazione di un rapporto di lavoro di natura subordinata.

Quanto alle somme ricevute dal (…) in ragione della carica sociale ricoperta (e risultanti dai prospetti paga in atti), queste vanno correttamente qualificate come compensi spettanti al professionista ex art. 2225 c.c.

Alla luce delle svolte considerazioni, il ricorso deve essere respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono come di regola la soccombenza.

P.Q.M.

Respinge il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.310 di cui Euro 2.008,00 per compensi ed Euro 302 per spese generali oltre iva e cpa.

Così deciso in Civitavecchia il 10 gennaio 2019.

Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 2019.

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Avv. Umberto Davide

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