Tribunale Lecco, Sezione 1 civile Ordinanza 28 febbraio 2018

L’esclusione degli interessi moratori e degli oneri di carattere eventuale dalla formazione del TEGM non può neppure essere giustificata da motivi di coerenza con la disciplina comunitaria sul credito al consumo: è evidente, infatti, che l’espressa esclusione degli interessi di mora dal calcolo del TAEG risponde, in quel particolare settore dell’ordinamento, esclusivamente a finalità di trasparenza del costo del denaro al momento della conclusione del contratto, là dove invece nella L. 108/96 il computo di talune voci nella formazione del TEGM incide sulla misura massima dei prezzi praticabili nel sistema finanziario e decide sulle possibilità di accesso al credito di alcune categorie di debitori, limitandone il raggio di libertà nella sfera economica.

 

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Tribunale Lecco, Sezione 1 civile Ordinanza 28 febbraio 2018

Integrale

TRIBUNALE DI LECCO

SEZIONE PRIMA CIVILE

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. promosso

DA

(…) e (…) con l’avv. (…)

CONTRO

BANCA (…) S.p.A., con l’Avv. (…)

Il Giudice dell’Esecuzione a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 20 febbraio 2018 ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

1 (…) e (…) contestano il diritto della Banca (…) (di seguito (…) o la “Banca”) di agire esecutivamente sul patrimonio immobiliare pignorato in forza del mutuo ipotecario n. (…), stipulato il 28 ottobre 2002 con atto pubblico a rogito del notaio

Con il contratto di mutuo ipotecario, (…) ha concesso ai coniugi (…) e (…) un finanziamento di 500.000,00 Euro, con rimborso del capitale erogato in 240 rate posticipate mensili di 3.640,08 Euro ciascuna, comprensive di capitale e di interessi, con prima scadenza il 31 dicembre 2002 e ultima scadenza il 30 novembre 2022.

Il contratto di mutuo contempla a carico dei clienti un costo del credito così articolato:

– TAN: 6,20% fisso per tutta la durata del rapporto; 6,65% per il preammortamento;

– spese di istruttoria: 0,20% sull’importo erogato;

– premio mensile per la polizza assicurativa contro i danni da incendio: 6 9,01;

– tasso di mora: tasso effettivo globale medio (TEGM) per le operazioni appartenenti alla categoria “mutui” rilevato trimestralmente dal Ministero del Tesoro ai sensi dell’art. 2, comma 1, della l. 108/96, aumentato della metà;

– penale per l’estinzione anticipata dei contratto in misura del 3% del capitale residuo del mutuo al momento della richiesta di estinzione.

Il tasso soglia determinato alla stregua dell’art. 2, comma 4, della l. 108/1996, al momento della conclusione del contratto di mutuo, risultava pari all’8,415% (cfr. Decreto del Ministero del Tesoro del 18 settembre 2002, intitolato “Rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura” e pubblicato in G.U. serie generale n. 227 del 27 settembre 2002).

In data 3 marzo 2017 (…) ha notificato ai ricorrenti atto di precetto per complessivi 317.812,35 Euro (di cui 215.884,19 Euro per il debito residuo, 93.931,00 Euro per rate insolute e 7.822,97 Euro per interessi di mora sino al 16 gennaio 2017 oltre a 171,19 Euro per spese).

In data 27 aprile 2017 la Banca ha inoltre notificato ai coniugi (…) e (…) atto di pignoramento immobiliare relativo ad alcuni immobili situati nel Comune di (…), in comproprietà dei ricorrenti per la quota di 1/2 ciascuno.

I motivi di opposizione formulati con il ricorso investono due profili completamente distinti della relazione di finanziamento. Sia pure attraverso argomenti concettualmente distinguibili tra loro i rilievi dei signori (…) e (…) si indirizzano, tuttavia, verso un unico bersaglio: mettere radicalmente in discussione il diritto di (…) di conseguire la remunerazione del prestito ipotecario contrattualmente stabilita.

La nullità delle clausole che governano la remunerazione di (…) è affermata sotto un duplice aspetto: (a) la violazione dell’obbligo della Banca di enunciare nel contratto la misura del TAEG applicato ai clienti; (b) la natura usuraria degli interessi, delle commissioni e delle remunerazioni contrattualmente pretesi dalla Banca.

– Nella loro qualità di clienti di (…) i signori (…) e (…) deducono anzitutto la nullità del mutuo per violazione dell’art. 117, comma 8, del t.u.b. (“La Banca d’Italia può prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato. I contratti difformi sono nulli”). La difformità denunciata dai ricorrenti consiste segnatamente in ciò che il contratto di mutuo stipulato con (…)” non reca l’indicazione del tasso annuo effettivo globale (TAEG) applicato al rapporto di finanziamento. La nullità del prestito ipotecario è in particolare basata sul rilievo che “con l’entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992 n. 154, relativa alle “norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”, è stato introdotto l’obbligo per le banche di indicare il tasso annuo effettivo globale praticato nei contratti bancari”. L’obbligo in questione sarebbe ricavabile dall’art. 2 delle legge n. 154/1992 il quale disponeva che le banche avrebbero dovuto “rendere pubblici in ciascun locale aperto al pubblico: a) i tassi di interesse effettivamente praticati per le operazioni di credito (…) b) le altre condizioni praticate per le operazioni di credito e di raccolta”, letto congiuntamente all’art. 4 della medesima legge (“i contratti devono indicare il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticati dall’istituto di credito (…)”).

I ricorrenti riconoscono bensì “che l’obbligo di inserire (nei contratti bancari) l’ISC/TAEG è stato reso esplicito (con delibera C1CR del 4 marzo 2003) e dalle susseguenti disposizioni di vigilanza del 25 luglio 2003” ma aggiungono che “il riferimento della legge 154 del 1992 ai tassi di interesse effettivamente praticati rende evidente che sin dal 1992 gli intermediari finanziari erano obbligati – in virtù degli obblighi di trasparenza discendenti da norme imperative – a rendere appunto trasparenti le condizioni contrattuali effettivamente praticate ricorrendo a indicatori effettivi (quali appunto il TAEG contemporaneamente introdotto dalla disciplina consumeristica)”.

In realtà la disposizione dell’art. 4 della legge 154/92 invocata dai ricorrenti per sostenere la nullità dei corrispettivi convenuti a favore della Banca, mentre prescriveva (al pari dell’art. 117 t.u.b.) che i contratti bancari avrebbero dovuto indicare “il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora”, non imponeva affatto agli intermediari di dichiarare il tasso annuo effettivo globale praticato nei rapporti con i clienti o un altro indicatore sintetico del costo del credito. Parimenti nessun obbligo di trasparenza nel senso specifico auspicato dai ricorrenti emerge, esplicitamente o implicitamente, dal Decreto del Ministero del Tesoro del 24 aprile 1992 e dal Provvedimento della Banca d’Italia del 24 maggio 1992, diretti ad attuare i principi della legge 154/92. Né l’art. 4 né la normativa di fonte regolamentare, infatti, contenevano alcun accenno all’obbligo per le banche di incorporare nel contratto la menzione del TAEG.

D’altro canto neppure può considerarsi rilevante il richiamo fatto dai ricorrenti all’art. 2 della legge 154/92 nella parte in cui obbligava gli intermediari a rendere pubblici “i tassi di interesse effettivamente praticati per le operazioni di credito e di raccolta”: in disparte il rilievo che alla data di stipula del mutuo ipotecario impugnato con il ricorso (28 ottobre 2002) era già da tempo presente nell’ordinamento bancario l’art. 116 t.u.b., il quale non recava più alcun riferimento all’espressione “lassi effettivamente praticati”, e prescindendo dall’ambiguità della locuzione in esame rispetto al concetto di TAEG impiegato dalla coeva legge 142/92, è certo, infatti, che l’art. 2 della legge 154/92 si limitava a disporre genericamente la pubblicazione “in ciascun locale aperto al pubblico”, attraverso “avvisi sintetici” e “fogli informativi”, delle condizioni economiche praticate alla clientela, senza alcuna implicazione sulla disciplina del contenuto contrattuale. Lo stesso art. 2 – si aggiunga – delegava integralmente alla Banca d’Italia il compito di impartire, conformemente alle deliberazioni del CICR, “istruzioni relative alla forma, al contenuto e alle modalità delle pubblicazioni” e di stabilire “criteri uniformi per il calcolo dei tassi d’interesse, degli interessi e degli altri elementi che incidono sul contenuto economico dei rapporti”, sicché quand’anche si ritenesse che nella delega conferita alla Banca d’Italia fosse implicitamente ricompreso anche il potere tecnico discrezionale di introdurre un’informazione obbligatoria sul TAEG da quella delega di potere regolamentare non poteva in ogni caso ricavarsi alcuna norma immediatamente vincolante per gli intermediari volta “a rendere (…) trasparenti le condizioni contrattuali effettivamente praticate ricorrendo a indicatori effettivi”.

In senso radicalmente contrario alla tesi dei ricorrenti – come nota correttamente (…) nelle proprie difese – è decisiva poi la delibera CICR del 4 marzo 2003, entrata in vigore il 1 ottobre 2003, circa un anno dopo la conclusione del contratto impugnato. La delibera del CICR – si ricorda – demandava alla Banca d’Italia la prima volta proprio l’ufficio di individuare “le operazioni e i servizi per i quali, in ragione delle caratteristiche tecniche gli intermediari sono obbligati a rendere noto un “Indicatore Sintetico di Costo “(ISC) comprensivo degli interessi e degli oneri che concorrono a determinare il costo effettivo dell’operazione per il cliente, secondo la formula stabilita dalla Banca d’Italia medesima” (art. 9, comma 2). Ora, è evidente che intanto aveva senso, a dieci anni di distanza dall’emanazione del testo unico bancario, demandare alla Banca d’Italia il compito di identificare precisamente le tipologie di operazioni contrattuali assoggettate all’obbligo di pubblicazione dell’ISC nonché quello di definire la formula di calcolo di un indicatore sintetico di costo, in quanto il legislatore non aveva direttamente provveduto all’emanazione di precetti immediatamente applicabili nei rapporti interprivati tra le banche e i clienti. Delle due l’una infatti: o dal sistema della legge 154/92 e poi dal sistema del t.u.b. poteva desumersi un generale obbligo di trasparenza del TAEG pienamente definito nei suoi contorni e suscettibile di immediata applicazione indipendentemente dall’esplicazione della potestà normativa delle autorità creditizie (nel qual caso l’intervento del CICR doveva apparire manifestamente ridondante oltre che tardivo) oppure l’emersione di un simile obbligo nel contesto regolatorio dell’epoca era dovuta (ed è questa la realtà dello sviluppo della regolamentazione di settore) all’esercizio discrezionale del potere di normazione riconosciuto dalla legge alle autorità creditizie. Ed in quest’ultimo caso è altresì ovvio che finché la Banca d’Italia non esercitò il suo potere attuativo della normativa primaria (cfr. par. 8 delle Istruzioni del 25 luglio 2003) non poteva configurarsi alcun obbligo in capo agli intermediari finanziari di esplicitare il TAEG (o l’ISC) nei rapporti con la clientela. Impressione questa confermata, sul piano dell’evoluzione storica della regolamentazione in materia di trasparenza bancaria, dalla circostanza che l’emersione di un obbligo quale quello invocato dai ricorrenti, dopo l’abbandono della proposta di legge “Minervini” (n. 3167 del 24 marzo 1986), fu introdotto, a livello legislativo, soltanto con Part. 13 della legge 262/2005 il quale modificò l’art. 116 t.u.b. (concernente la pubblicità delle operazioni bancarie) con un inciso che generalizzava all’intera categoria dei contratti di erogazione del credito l’obbligo di pubblicizzare il tasso annuo effettivo globale medio (“Per le operazioni di finanziamento, comunque denominate, è pubblicizzato il tasso effettivo globale medio computato secondo le modalità stabilite a norma dell’articolo 122”).

La conclusione testé raggiunta circa l’impossibilità di configurare un obbligo di trasparenza del TAEG prima della delibera CICR del 4 marzo 2003 nei contratti bancari non è smentita ma risulta ulteriormente rafforzata a contrariis dall’art. 21 della legge 142/92 nella parte che imponeva di indicare il TAEG nei contratti di concessione di credito al consumo. E. infatti, da un lato quella speciale

disposizione (poi sostituita dall’art. 122 del t.u.b.) aveva un campo di applicazione ristretto ad un particolare segmento dell’operatività bancaria delimitato nel suo perimetro dalle direttive 87/102/CE e 90/88/CE (ora direttiva 2008/48/CE); dall’altro, la delibera CICR 8 luglio 1992 dedicata, appunto, alla disciplina e ai criteri di definizione del tasso annuo effettivo globale in attuazione della legge 142/92 presentava anch’essa riferimenti chiaramente circoscritti al fenomeno del credito al consumo così escludendo dal proprio raggio di applicazione altre aree dell’attività creditizia. Potrebbe porsi allora in via ipotetica la questione dell’applicazione dell’art. 21 della l. 142/92 al mutuo ipotecario concluso dai signori e (…) e (…). Un simile risultato sarebbe condizionato però alla riconducibilità della fattispecie concreta sotto il regime speciale del credito al consumo. Senonché restano estranee alla relativa disciplina, nell’ordinamento nazionale, le concessioni di credito per importi superiori a sessanta milioni di Lire (art. 18, comma 3, l. 142/92, 121, comma 4, lett. a) e 161 t.u.b.), con la conseguenza che il rapporto di finanziamento oggetto della presente controversia non potrebbe in ogni caso esservi attratto in ragione dell’entità del credito erogato dalla Banca ai signori (…) e (…) di gran lunga superiore al limite stabilito dalla legge.

– Sgomberato il quadro dalla censura riguardante il vizio di trasparenza della relazione contrattuale, assai più complessa appare la questione della natura usuraria dei corrispettivi pretesi dalla Banca. I ricorrenti deducono la nullità della convenzione sugli interessi e la conseguente gratuità del mutuo erogato da (…) allegando che il TEG applicato al contratto di mutuo è superiore al tasso soglia del trimestre di riferimento (¡.e. terzo trimestre 2002), pari al TEGM rilevato dal MEF aumentato della metà (=8,415%). A questo proposito i signori (…) e (…) invocano l’indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità la quale afferma da tempo che “ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c. e dell’art. 644 c.p. si considerano usurari gli interessi che superano il limite stabilito nella legge al momento in cui sono promessi oppure convenuti a qualunque titolo, e quindi anche a titolo di interessi moratoria (così Cass. 9 gennaio 2013, n. 350 ove il richiamo a Corte Cost. 25 febbraio 2002, n. 29 che aveva avallato l’ipotesi che “il riferimento, contenuto nell’art. I, comma I, del decreto – legge n. 394 del 2000, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori”).

All’affermazione della natura usuraria della convenzione sugli interessi i ricorrenti pervengono sia sommando tra loro il tasso corrispettivo (6,402%) e gli interessi moratori nella misura indicata nell’art. 5 del contratto di mutuo, sia, in alternativa, sommando il tasso corrispettivo e la commissione di estinzione anticipata del prestito fissata nel 3% del capitale rimborsato, atteso che anche in questo caso, – si sostiene – prescindendo dagli interessi moratori, “il risultato (della somma) (9,402%) sarebbe comunque superiore al tasso soglia dell’8,415%, con conseguente fatuità del mutuo ex art. 1815 c.c.”.

Pur nei limiti di cognizione propri della fase cautelare e nella consapevolezza della varietà degli argomenti proposti in dottrina e giurisprudenza al riguardo, il Tribunale ritiene che la difesa avanzata dai ricorrenti per affermare la gratuità del prestito concesso dalla Banca non possa essere accolta per i motivi che si passa di seguito brevemente ad illustrare.

– Il problema della rilevanza degli interessi moratori ai fini della verifica del superamento del tasso soglia è da qualche tempo oggetto di una discussione assai vivace e articolata. Alla soluzione affermativa accolta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass. 22 aprile 2000, 5286, Cass. 4 aprile 2003, n. 5324 e la citata Cass. 9 gennaio 2013, n. 350, Cass. 6 marzo 2017, n. 5598) si contrappongono, oltre che una parte della dottrina e l’orientamento dell’Arbitro bancario e finanziario (decisioni, 28 marzo 2014, n. 1875 e 23 maggio 2014, n. 3412, 29 maggio 2015, n. 4430, 22 aprile 2016, n. 3734 e 12 gennaio 2017, n. 108), una più recente posizione della Corte di Cassazione (Cass. 22 giugno 2016, n. 12965) la quale ha aderito alla tesi “che sostiene la necessità di utilizzare, nella rilevazione dei tassi usurari, dati tra loro effettivamente comparabili (…)” atteso che “è ragionevole che debba attendersi simmetria tra la metodologia di calcolo del TEGMe quella di calcolo dello specifico TEG contrattuale”.

Ad avviso della Corte il giudizio in punto di usurarietà “si basa infatti, in tal caso, sul raffronto tra un dato concreto (lo specifico TEG applicato nell’ambito del contratto oggetto di contenzioso) e un dato astratto (il TEGM rilevato con riferimento alla tipologia di appartenenza del contratto in questione), sicché – se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo – il dato che se ne ricava non può che essere in principio viziato”.

“In definitiva, può sostenersi” – soggiunge la Corte – “che quand’anche le rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia dovessero considerarsi inficiate da un profilo di illegittimità (per contrarietà alle norme primarie regolanti la materia, secondo le argomentazioni della giurisprudenza penalistica (…)), questo non potrebbe in alcun modo tradursi nella possibilità, per l’interprete, di prescindervi, ove sia in gioco – in una unitaria dimensione afflittiva della libertà contrattuale ed economica – l’applicazione delle sanzioni penali e civili, derivanti dalla fattispecie della cd. usura presunta, dovendosi allora ritenere radicalmente inapplicabile la disciplina antiusura per difetto dei tassi soglia rilevati dall’amministrazione. Ed in effetti, l’utilizzo di metodologie e formule matematiche alternative, non potrebbe che riguardare tanto la verifica del concreto TEG contrattuale, quanto quella del TEGM: il che significa che il giudice – chiamato a verificare il rispetto della soglia antiusura – non potrebbe limitarsi a raffrontare il TEG ricavabile mediante l’utilizzo di criteri diversi da quelli elaborati dalla Banca d’Italia, con il TEGM rilevato proprio a seguito dell’utilizzo di questi ultimi, ma sarebbe tenuto a procedere ad una nuova rilevazione del TEGM, sulla scorta dei parametri così ritenuti validi, per poi operare il confronto con il TEG del rapporto dedotto in giudizio”.

A quest’ultimo orientamento della Corte, ispirato ad un principio di necessaria simmetria tra le voci che compongono il TEGM e quelle che entrano nel calcolo del costo complessivo del singolo finanziamento – si segnala a beneficio delle parti – ha prestato adesione anche il Tribunale di Lecco in un’ordinanza collegiale del 23 gennaio 2018 (est. Tr.), pronunciata in fase di reclamo ex art. 624 c.p.c., ove si legge, tra l’altro, che nella verifica del rispetto del tasso soglia “non si può ignorare l’ineludibile esigenza, sottolineata anche dalla recente giurisprudenza di legittimità di applicare parametri omogenei”.

A riprova del grave contrasto di vedute e dell’oscillazione degli orientamenti in questa materia, peraltro la questione se debba affermarsi la necessaria omogeneità tra gli oneri economici presi in considerazione ai fini delle rilevazioni trimestrali dei TEGM, da un lato, e gli oneri economici su cui si deve esercitare la verifica dell’eventuale usurarietà dei negozi posti in essere dall’autonomia dei privati, dall’altro, è stata da ultimo rimessa al Primo Presidente della Corte di Cassazione per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, nell’ambito di un giudizio riguardante il diverso profilo del regime applicabile alla commissione di massimo scoperto, in quanto “questione di massima di particolare importanza” ex art. 374 cod. proc. civ.. (Cass. sez. I civ., ord. 20 giugno 2017, n. 15188).

– Ciò premesso ed approfondendo un poco il tema, il Tribunale osserva anzitutto che, nonostante talune opinioni contrarie, non può esservi alcun ragionevole dubbio sulla rilevanza degli interessi moratori ai fini del vaglio di usurarietà del singolo rapporto creditizio. Anche svalutando l’argomento letterale fondato sull’amplissima formulazione dell’art. 644 cod. pen., già di per sé capace di abbracciare, con l’unica eccezione delle imposte e tasse, il carico complessivo delle “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese (…) collegate alla erogazione del credito”, è invero decisivo il rilievo che l’interesse moratorio si configura per il prenditore dei fondi come una voce, sia pure eventuale, del costo del denaro. E’ certo, infatti, che l’interesse moratorio costituisce una compensazione o comunque un vantaggio patrimoniale conferito al creditore per il caso in cui il godimento del denaro prestato al debitore si protragga invito domino per un certo tempo. E costituisce una compensazione o un vantaggio patrimoniale che in via eventuale spetta al creditore nei confronti del debitore per il fatto obiettivo del godimento invito domino del denaro dato a credito “anche se il creditore non prova di aver sofferto un danno” (art. 1224 cod. civ.).

Per converso non v’è dubbio che il pagamento dell’interesse moratorio si configuri per il debitore come un sacrificio patrimoniale inerente alla erogazione del credito che diventa attuale nel momento della mora. Proprio perché lo svolgimento patologico del rapporto creditizio prospetta, al pari del suo svolgimento fisiologico, una vicenda di arricchimento del creditore e reciprocamente di impoverimento del debitore, anche per l’interesse moratorio, si pone senz’altro, come in generale per qualunque altra voce di costo del credito, almeno potenzialmente, una questione di equilibrio tra i vantaggi e i sacrifici distribuiti tra le parti del contratto, suscettibile di scrutinio giudiziale sotto il profilo dell’usura. Soprattutto tenuto conto che, come emerge dalla discussione parlamentare che portò alla sua approvazione, lo strumento repressivo creato dalla L. 108/96 è destinato in prima battuta a contrastare il fenomeno dell’usura criminale (e non a contenere il costo del credito bancario), non si può, infatti, trascurare che le medesime esigenze di protezione dei debitori nonché di repressione delle condotte illecite che giustificano il controllo pubblico del costo del denaro ricorrono in egual misura sia che tale costo venga rivestito della forma giuridica dell’interesse corrispettivo sia che venga rivestito di qualsiasi altra diversa forma. E tanto basta, ad avviso del Tribunale, per affermare l’applicabilità del sistema della L. 108/96 anche agli interessi moratori e agli altri oneri eventuali che possono essere convenuti tra le parti di una relazione di finanziamento.

– Per contrastare questo risultato non è sufficiente opporre la disomogeneità funzionale degli interessi moratori nel campo del diritto privato, affermandone la natura risarcitoria anziché corrispettiva. Premesso che la letteratura privatistica più autorevole è da tempo pervenuta, sotto più aspetti, ad una ricostruzione sostanzialmente unitaria delle diverse tipologie di interessi, gli è che la disciplina repressiva dell’usura dettata dalla L. 108/96 si configura essenzialmente come uno strumento pubblicistico di regolazione del mercato cosicché il significato delle espressioni e la portata dei concetti impiegati in quel contesto non possono essere univocamente derivati dalle nozioni del diritto privato. E’ sufficiente osservare per convincersene che la nozione di corrispettività usata dall’art. 644 c.p. (“in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità”) non presenta alcun legame con la corrispondente categoria civilistica e che quindi risulta sostanzialmente sterile qualsiasi discorso in ordine alla funzione sinallagmatica, risarcitoria o indennitaria delle varie tipologie di interessi tradizionalmente studiate dalla dottrina di diritto civile. Ciò, peraltro, è dimostrato ulteriormente, se ve ne fosse bisogno, dalla circostanza che per la determinazione del tasso di interesse usurario non devono considerarsi esclusivamente gli “interessi” ma si deve tener conto, secondo il chiaro tenore della legge, delle “commissioni”, delle “remunerazioni a qualsiasi titolo” e delle “spese”, escluse quelle per imposte e tasse, “collegate” alla erogazione del credito, laddove è indubbio, da un lato, che le “spese” non stanno in alcun rapporto sinallagmatico con il prestito di denaro; dall’altro, che non vi sarebbe stata la necessità di escludere esplicitamente le imposte e le tasse se si fosse adottato un concetto di “tasso usurario” ristretto al pagamento dell’interesse corrispettivo; infine ma non per ultimo, che l’espressione generalissima “remunerazioni a qualsiasi titolo” si presta a comprendere qualunque esborso posto a carico del prenditore per ottenere il godimento del denaro, ivi incluso, per quanto rileva in questa sede, l’esborso dovuto per l’estinzione anticipata del rapporto di finanziamento.

– Le medesime esigenze di tutela del debitore contro l’applicazione di prezzi fuori mercato che giustificano l’inclusione nel TEG dell’interesse moratorio (e della commissione di estinzione anticipata) rendono irrilevante dal punto di vista del sistema della L. 108/96 l’affermazione secondo cui gli interessi di mora (o la commissione di estinzione anticipata) costituiscono oneri soltanto “eventuali” e non attuali della concessione di credito: questa obiezione lungi dal potere escludere gli interessi moratori (e gli altri oneri eventuali) dalla costruzione del TEG pone, infatti, esclusivamente la questione di diritto, assai complessa e che non interessa affrontare in questa sede, se e in che limiti gli interessi moratori vadano sommati o invece sostituiti e in che modo all’interesse corrispettivo nell’evenienza della mora.

– Appurata l’astratta rilevanza degli interessi moratori (e della commissione per l’estinzione anticipata) ai fini del giudizio di usurarietà del singolo rapporto creditizio, è peraltro necessario interrogarsi su un ulteriore aspetto del problema: come debba essere costruito e accertato il tasso effettivo globale medio che costituisce la base cui applicare il margine al di sopra del quale può predicarsi la usurarietà del tasso praticato nelle transazioni private (art. 2, comma 1, L. 108/86). A tale riguardo non può non osservarsi, con una parte delle dottrina e della giurisprudenza, che il TEGM rilevato trimestralmente da MEF, sentita la Banca d’Italia, a partire dal quale, sin dalla metà degli anni ’90, è stato individuato il costo massimo del denaro consentito dalla legge (tasso soglia), non includeva e tutt’ora non include gli interessi moratori né le commissioni per l’estinzione anticipata del rapporto di finanziamento (Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio, par. C4). La mancata considerazione di tali voci nella formazione del TEGM è stata motivata, come è noto, dalla Banca d’Italia con una comunicazione del 3 luglio 2013 con la quale l’Autorità ha osservato che gli interessi di mora “sono esclusi dal calcolo del TEG (operato dal singolo intermediario e quindi anche dalle segnalazioni di vigilanza alla stregua delle quali è costruito il TEGM), perché non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parte del cliente. L’esclusione evita di considerare nella media operazioni con andamento anomalo. Infatti, essendo gli interessi moratori più alti, per compensare la banca del mancato adempimento, se inclusi nel TEG medio potrebbero determinare un eccessivo innalzamento delle soglie, in danno della clientela. Tale impostazione è coerente con la disciplina comunitaria sul credito al consumo che esclude dal calcolo del TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) le somme pagate per l’inadempimento di un qualsiasi obbligo contrattuale, inclusi gli interessi di mora”.

Sennonché l’argomento avanzato dalla Banca d’Italia secondo cui la mancata considerazione degli interessi moratori mira ad escludere dalla formazione del TEGM le “operazioni con andamento anomalo” e ad impedire “un eccessivo innalzamento delle soglie, in danno della clientela” suscita notevoli perplessità.

– Il Tribunale osserva in linea generale che la fissazione per legge o in via amministrativa di prezzi minimi o massimi influenza negativamente l’offerta di beni e servizi, ostacola il cornetto funzionamento del processo di allocativo svolto dal sistema dei prezzi e pone un grave limite alla libertà di scelta dei consumatori e delle imprese.

In un ordinamento costituzionale che si ispira “al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (art. 119 TFUE già art. 4 TCE) il ricorso a questo tipo di intervento pubblico deve pertanto essere giustificato da imperfezioni del mercato (market failures) che non possono essere altrimenti fronteggiate con strumenti meno invasivi e deve comunque essere subordinato al rispetto di condizioni rigorose al fine di evitare che la fissazione autoritativa dei prezzi si risolva in una restrizione irragionevole dell’attività economica non proporzionata alle finalità di interesse pubblico perseguite o dichiarate (art. 1 D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27). In ogni caso – si deve aggiungere – al pari di altre misure di regolazione dell’accesso e dell’esercizio delle attività economiche anche tale tipo di intervento deve formare oggetto di un’interpretazione restrittiva (art. 3, comma 7, D.L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni dalla dall’art. 1, comma I, della L. 14 settembre 2011, n. 148).

Il Tribunale osserva altresì che nella misura in cui lo strumento repressivo disegnato dalla L. 108/96 è destinato a trovare applicazione, non soltanto al fenomeno drammatico dell’usura criminale in senso stretto o agli scambi tra privati individui che si svolgono extra – mercato (negli stretti limiti in cui ciò è consentito ai privati senza infrangere le riserve di attività presidiate dall’art. 132 t.u.b.), ma anche all’attività degli intermediari bancari, traducendosi in una forma di controllo pubblico sul costo del denaro, l’interpretazione della relativa disciplina deve armonizzarsi con gli obiettivi della regolamentazione prudenziale a cui sono sottoposte le banche secondo il diritto dell’Unione Europea. In questo ambito l’interpretazione della legge non può pertanto proporsi, direttamente o indirettamente, l’obiettivo redistributivo di promuovere l’erogazione del credito a tassi e condizioni ‘calmierati’ rispetto a quelli che sarebbero applicabili in base all’effettivo merito creditizio dei singoli prenditori (art. 8 direttiva 2008/48/CE e le Disposizioni di vigilanza per le banche, Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 della Banca d’Italia). Ciò implica che l’individuazione di una soglia legale dei tassi di interesse inidonea a riflettere fedelmente le diverse classi di rischio dei prenditori comporta l’esclusione dall’accesso al mercato del credito bancario dei debitori che appartengono alle classi più rischiose, senza che possa attuarsi a cura della banca un aggiustamento del prezzo per consentire l’accesso al credito di questa categoria di soggetti. Da questo punto di vista la disciplina sull’usura, applicata al mercato del credito istituzionale (discorso diverso naturalmente vale per gli scambi finanziari tra privati conclusi fuori mercato e quindi per l’usura criminale), realizza una discriminazione a discapito dei debitori che non possono ottenere finanziamenti a tassi sotto la soglia legalmente predeterminata mentre è quanto meno dubbio che possa arrecare loro alcun beneficio.

– Tenuto conto della eccezionale incidenza della disciplina sull’usura sul funzionamento del sistema dei prezzi, sulla libertà di accesso al credito degli individui e delle imprese e considerato soprattutto il pericolo che la pretesa funzione calmierante della L. 108/96 abbia a precludere l’accesso al credito bancario dei debitori più rischiosi, sospingendo imprese e famiglie verso l’usura criminale – effetto questo socialmente indesiderabile e sicuramente non voluto dal legislatore degli anni ’90 -, il Tribunale ritiene che sia inaccettabile l’opinione talora professata in dottrina e in giurisprudenza (Trib. Udine, 26 settembre 2014, Trib. Torino, 26 aprile 2016 e 13 settembre 2017) secondo cui il meccanismo di determinazione del TEGM (e, quindi, del tasso soglia) disegnato dalla L. 108/96 avrebbe lo scopo di stabilire il prezzo “normale”, “ordinario” o “fisiologico” del credito bancario depurato da tutti i costi che hanno natura “eventuale”, “straordinaria” o “patologica”. Da un lato, infatti, qualunque tentativo di tracciare una distinzione oggettiva tra un prezzo “normale”, “ordinario” o “fisiologico” e un prezzo “straordinario” o “patologico” urta con l’antichissima massima secondo cui “res tantum valel quantum vendi poteste (Digesto, 35, 2, 63); dall’altro, l’opinione in esame finisce per ignorare la struttura essenziale del congegno di determinazione del tasso soglia delineato dalla legge: il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari (art. 2 comma 4) non è stabilito dal legislatore in un tasso predeterminato una volta per tutte, bensì deve essere “rilevato” (i.e. appreso) dal Ministero dell’Economia, con l’ausilio tecnico della Banca d’Italia, attraverso un idoneo procedimento di accertamento dei prezzi che si formano sul mercato dei capitali. L’attività conoscitiva incombente sull’Autorità amministrativa non ha per oggetto un qualsiasi tasso medio praticato tra privati disponibili ad uno scambio finanziario ma è diretto ad accertare il “tasso effettivo globale medio” praticato dalle “banche e dagli intermediari finanziari” abilitati ai sensi degli art. 106 e 107 del t.u.b.. Ciò significa, da un lato, che l’attività amministrativa di rilevazione dei prezzi di mercato deve necessariamente coinvolgere, da un punto di vista soggettivo, l’operatività di tutti gli intermediari nazionali autorizzati all’esercizio dell’attività bancaria e alla concessione di finanziamenti (anche mediante apposite consultazioni pubbliche ex art. 23 D.lgs. 262/2005); dall’altro, che tale accertamento deve assumere come proprio specifico oggetto di conoscenza tutte le “commissioni”, “remunerazioni a qualsiasi titolo” e “spese” applicate nei rapporti di finanziamento – con l’unica eccezione delle spese per imposte e tasse – dagli operatori abilitati all’esercizio dell’attività creditizia.

Ne deriva, conformemente, del resto, all’indirizzo prevalente presso la giurisprudenza di legittimità, che l’Autorità amministrativa è tenuta “fotografare” le dinamiche di mercato ma non è in alcun modo autorizzata – diversamente da quanto talora si afferma – a scegliere discrezionalmente tra fattori di costo “fisiologici” e “patologici”, tra voci “ordinarie” o “eventuali”, espungendo dalla formazione del TEGM tipi di operazioni o tipologie di “commissioni”, “remunerazioni a qualsiasi titolo” e “spese”. Tanto meno è a ciò autorizzata la Banca d’Italia al fine di evitare “un eccessivo innalzamento delle soglie”.

In definitiva così come la lettera dell’art. 644 c.p. non consente all’Autorità amministrativa di escludere dalla costruzione del TEG singole voci di costo che rientrano tra le “commissioni”, le “remunerazioni a qualsiasi titolo” e le “spese” collegate all’erogazione del credito, sottraendole al giudizio di usurarietà, così deve anche negarsi risolutamente, sulla base dell’art. 2 della L. 108/96, che il TEGM possa essere discrezionalmente costruito dall’Autorità amministrativa o arbitrariamente ricercato dal singolo giudice senza tener conto delle “commissioni”, delle “remunerazioni a qualsiasi titolo” e delle “spese” praticate dagli intermediari finanziari sul mercato del capitali.

– Non può quindi essere condivisa l’opinione espressa da quella parte della giurisprudenza di merito secondo cui in base alla L. 108/96 sarebbe ravvisabile un divario tra i criteri di costruzione del TEG del singolo rapporto contrattuale e i criteri di formazione del TEGM curati dalle autorità creditizie (così Trib. Padova, 22 gennaio 2018, Trib. Firenze, 21 novembre 2017, Trib. Torino, 13 settembre 2017 e Trib., 26 aprile 2016). Mentre è certo, infatti, che non esiste alcuna astratta esigenza “metodologica” né tanto meno un principio “logico” di omogeneità o simmetria (così parrebbe invece Cass. 22 giugno 2016, n. 12965) è indiscutibile, invece, già solo confrontando la lettera dell’art. 644 c.p. con il testo dell’art. 2 della L. 108/96, che il diritto positivo impone al giudice civile così come al giudice penale di verificare la correttezza del procedimento amministrativo di “rilevazione” del tasso effettivo globale medio. Ciò al fine di assicurarsi che, nell’attività di accertamento del TEGM, le Autorità amministrative abbiano accuratamente incluso tutte voci di costo del denaro (commissioni, remunerazioni e spese) effettivamente poste a carico dei prenditori dagli intermediari finanziari sul mercato del credito.

– L’esclusione dei tassi moratori e degli oneri di carattere eventuale dal a formazione del TEGM non può neppure essere giustificata da motivi di coerenza con la disciplina comunitaria sul credito al consumo: è evidente, infatti, che l’espressa esclusione degli interessi di mora dal calcolo del TAEG risponde, in quel particolare settore dell’ordinamento, esclusivamente a finalità di trasparenza del costo del denaro al momento della conclusione del contratto, là dove invece nella L. 108/96 il computo di talune voci nella formazione del TEGM incide sulla misura massima dei prezzi praticabili nel sistema finanziario e decide sulle possibilità di accesso al credito di alcune categorie di debitori, limitandone il raggio di libertà nella sfera economica.

– Le conclusioni che si sono testé raggiunte, confortate dalla lettera dell’art. 2 della L. 108/96, rendono evidente che il contenimento del costo del credito bancario esula dagli scopi della legge la quale è (deve essere) invece rivolta alla repressione severa dell’usura criminale.

– La mancata considerazione degli interessi moratori e della commissione di estinzione anticipata del mutuo tra le “commissioni”, “remunerazioni a qualsiasi titolo” e “spese” praticate nei confronti della clientela dagli intermediari finanziari, è causa di illegittimità del procedimento di rilevazione del TEGM e, in via derivata, dei relativi decreti ministeriali per violazione dell’art. 2 della L. 108/96; onde discende, nel caso di specie, per il giudice l’obbligo di disapplicare, ai sensi dell’art. 5 L. A.C., in quanto atto amministrativo viziato, il Decreto del Ministero del Tesoro del 18 settembre 2002 intitolato “Rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai fini dell’applicazione della legge sull’usura” e pubblicato in G.U. serie generale n. 227 del 27 settembre 2002.

– Alla disapplicazione del Decreto del Ministero del Tesoro del 18 settembre 2002 consegue che non può essere individuato il TEGM rilevante nel rapporto tra le parti ai sensi dell’art. 2 della L. 108/96 e che non può neppure essere stabilito “il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”.

– La illegittimità del Decreto Ministeriale che ha rilevato il TEGM del trimestre di riferimento non comporta la soppressione di qualunque difesa dalla pratica illecita dell’usura criminale tra privati: resta salva infatti l’applicazione dell’art. 3 della L. 108/96 in base al quale la sanzione prevista dall’art. 644, primo comma, del codice penale nonché le conseguenze civilistiche dell’usura continuano a trovare applicazione nelle ipotesi in cui il datore di fondi si fa promettere da un “soggetto in condizioni di difficoltà economica o finanziaria, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni similari dal sistema bancario e finanziario, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità”.

– Alla fattispecie incriminatrice dell’art. 644 c.p. si accompagnerà normalmente nei casi di usura tra privati, anche l’applicazione della sanzione penale prevista per l’abusivo esercizio dell’attività finanziaria (art. 132 t.u.b.).

– In conclusione il ricorso dei signori (…) e (…) deve essere, allo stato, rigettato. La complessità delle questioni affrontate e l’incertezza dovuta al contrasto dei precedenti della giurisprudenza di legittimità giustificano la compensazione delle spese di questa fase processuale.

P.Q.M.

– rigetta l’istanza di sospensione dell’esecuzione;

– fissa il termine perentorio di 90 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza per l’introduzione del giudizio di merito ai sensi dell’art. 616 c.p.c.

– compensa le spese di lite tra le parti.

Si comunichi.

Così deciso in Lecco il 28 febbraio 2018.

Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2018.

 

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.